Corte di Cassazione Penale sez. VI 2/1/2009 n. 14; Pres. Agrò A.S.

Redazione 02/01/09
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FATTO E DIRITTO

Tratto a giudizio direttissimo davanti al Tribunale di Roma in stato di detenzione (arresto in flagranza di reato, convalidato e seguito da applicazione di misura cautelare carceraria), G.F. definiva la propria posizione processuale nelle forme del giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 558 c.p.p., comma.

All’esito della relativa discussione camerale con sentenza in data 20.1.2004 il Tribunale di Roma condannava il G. alla pena di otto mesi di reclusione, riconoscendolo colpevole dei contestati reati di:

a) danneggiamento aggravato dell’autovettura di L.R., madre della sua ex convivente M.K.;

b) lesioni personali lievi in danno della L.;

c) minacce plurime a pubblico ufficiale (frasi intimidatorie per opporsi ai carabinieri intervenuti per sedare la lite in atto tra l’imputato e l’ex convivente M.);

d) violenza privata continuata in danno di M.K. (quotidiane molestie e aggressioni fisiche nei confronti della donna, che rifiuta di riprendere la convivenza ed è costretta a dimorare nelle ore notturne in casa della madre o di una amica);

e) minacce gravi continuate nei confronti della M..

Adita dall’impugnazione del G. la Corte di Appello di Roma con la sentenza del 4.5.2005 richiamata in epigrafe ha confermato la sentenza di condanna di primo grado, rigettando perchè infondati i due motivi di appello del prevenuto, incentrati sull’assorbimento del reato di violenza privata in quello di minaccia e sulla concessione delle circostanze attenuanti generiche negate dal primo giudice.

Contro detta sentenza di appello propone ricorso per cassazione il difensore di G.F., deducendo il vizio di violazione di legge sotto i seguenti due profili:

1) il reato di violenza privata ascritto all’imputato (capo d) per la sua natura di fattispecie generica e sussidiaria avrebbe dovuto considerarsi assorbito nel contestato reato di minaccia (capo e), sicchè erroneamente la Corte di Appello ha ritenuto il concorso dei due reati, ciò che ha determinato l’incremento sanzionatorio di tre mesi di reclusione operato – per effetto della continuazione – dal giudice di primo grado;

2) i giudici di appello, confermando la sentenza del Tribunale, hanno negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche, fondando impropriamente siffatto diniego sulle sole componenti negative della condotta dell’imputato, trascurando di porre attenzione agli elementi di segno "positivo" della condotta o di sua "giustificazione" ed in particolare allo stato di provocazione indotto nel G., che vede suo malgrado naufragare un rapporto di convivenza durato quattro anni, frattura associata alle mortificanti offese rivolte dalla M. alla deceduta madre dell’imputato.

Il ricorso di G.F. deve essere dichiarato inammissibile per più concomitanti e sovrapposte ragioni.

Innanzitutto i due temi di censura si connotano per intrinseca aspecificità, poichè sono limitati alla pedissequa riproposizione dei medesimi motivi di appello ai quali l’impugnata sentenza ha fornito esaurienti e giuridicamente adeguate risposte, sulle quali il ricorso non sviluppa alcun argomento dotato di reale efficacia critica.

La prima tematica censoria è manifestamente infondata, perchè muove da un surrettizio enunciato di incompatibilità o consunzione della fattispecie della violenza privata rispetto a quella – concorrente o non a seconda dei casi – della minaccia aggravata; enunciato di cui la sentenza della Corte territoriale ha già messo in luce la giuridica inconsistenza.

Sulla scia di risalente stabile giurisprudenza di legittimità i giudici di secondo grado non a caso hanno chiarito come il contegno in concreto realizzato dal G. abbia, da un lato, provocato una situazione di diffuso timore della M., con ciò determinando l’evento del reato di minaccia ex art. 612 c.p. ("reato formale con evento di pericolo immanente nella stessa azione"), e come il contegno di analoga natura intimidatoria del prevenuto abbia dato luogo – d’altro lato – ad una positiva e reale coercizione nei confronti della M., indottasi ad abbandonare il proprio domicilio durante le ore di notte per paura delle aggressioni fisiche dell’imputato, in tal modo sostanziandosi in quel quid pluris che integra la struttura del reato di violenza privata.

Reato che, dunque, ben può concorrere con quello di minaccia, soprattutto se le rispettive condotte antigiuridiche si articolano in un tempo più o meno significativo, come accaduto nella vicenda per cui è processo.

Le argomentazioni della Corte di Appello di Roma vanno giudicate ineccepibili sul piano giuridico.

Deve al riguardo osservarsi, infatti, che – sebbene la minaccia grave e la violenza privata hanno per comune oggetto la produzione di uno stato di condizionamento psicologico della vittima – esse si differenziano per gli effetti prodotti.

Nella violenza privata al condizionamento del soggetto passivo, reale o putativo (paura o apprensione immediatamente speculari alla minaccia o perduranti dopo l’esaurirsi espressivo della stessa), si giustappone la coartata attuazione da parte del soggetto passivo di un contegno (commissivo od omissivo) che egli non avrebbe assunto ovvero la coartata sopportazione di una altrui condotta che egli non avrebbe tollerato.

Una condotta criminosa, dunque, che – nel perpetuare gli effetti dell’intimidazione – produce una concreta e specifica coercizione comportamentale della vittima, vulnerandone la libertà di autodeterminazione con concreto evento di danno.

Di tal che i due reati di cui agli artt. 612 e 610 c.p., promossi da un atteggiamento minatorio, si differenziano negli sviluppi che alla minaccia sono volontariamente impressi dal soggetto agente, dando luogo ad eventi giuridici di diversa natura e valenza, destinati a sovrapporsi ed a concorrere tra loro, tanto più se le due condotte si ripetano nel tempo, scindendo i rispettivi momenti di manifestazione esteriore ed i rispettivi esiti coartanti, potenziali (minaccia) o reali (violenza privata).

Il secondo profilo di doglianza, inerente al diniego delle circostanze attenuanti generiche è manifestamente infondato e nel contempo indeducibile, afferendo ad un aspetto della regiudicanda, quello della valutazione del coefficiente di gravità della condotta criminosa e del corrispondente trattamento sanzionatorio, rimesso all’esclusivo apprezzamento discrezionale del giudice di merito ed insuscettibile di scrutinio in sede di legittimità, se supportato – come nel caso del provvedimento decisorio impugnato – da idonea e logica motivazione.

La sentenza di appello, in vero, ha compiutamente vagliato la posizione processuale del G. in rapporto a tutti i criteri richiamati dall’art. 133 c.p., evidenziando l’assorbente ostatività alla concessione delle invocate attenuanti generiche dei numerosi ed allarmanti precedenti penali e carichi giudiziari del prevenuto ed in ogni caso rimarcando come la pena inflitta sia stata contenuta in limiti di non particolare afflittività, conformi al peso criminale del contegno del G..

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue per legge la condanna del G. al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si stima equo determinare in misura di Euro 1.000,00 (mille).

P.Q.M.

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle Ammende.

Redazione