Corte di Cassazione Penale sez. VI 19/1/2009 n. 1876; Pres. De Roberto G.

Redazione 19/01/09
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FATTO E DIRITTO

G.G., con provvedimento 10/3/2008 del Gip del Tribunale di Nola, veniva sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, perchè indagato in ordine ai reati di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, falsità materiale e ideologica in atti pubblici, turbata libertà degli incanti, peculato, concussione, truffa aggravata, illeciti tutti commessi nella qualità di cancelliere in servizio presso l’Ufficio esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola.

Il Tribunale di Napoli, con ordinanza 27/3/2008, decidendo in sede di riesame ex art. 309 c.p.p., sostituiva detta misura con quella meno rigorosa degli arresti domiciliari, ritenuta più adeguata e comunque idonea a salvaguardare la ravvisata esigenza cautelare di scongiurare il pericolo di reiterazione criminosa.

Il Giudice del riesame, dopo avere premesso che tutti gli atti di indagine, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’indagato, erano utilizzabili, dava atto che il quadro di gravita indiziaria, pur non espressamente contestato, era comunque integrato dalla copiosa documentazione acquisita in sede di perquisizione del domicilio e dell’ufficio dell’indagato e degli altri concorrenti ( V.A. e C.R.), dagli accertamenti sui conti bancali e postali, dagli esiti dell’attività d’intercettazione di utenze telefoniche, dagli accertamenti espletati dalla Guardia di Finanza, dalle dettagliate e convergenti dichiarazioni rese da numerose persone informate dei fatti. Aggiungeva che dalla valutazione complessiva di tali fonti di prova era chiaramente emerso che il G. e il suo collega V.A. (anche quest’ultimo cancelliere presso lo stesso Ufficio delle esecuzioni immobiliari) avevano strumentalizzato il proprio ufficio, creando "le occasioni per trarre, in virtù delle peculiarità di ciascuna delle procedure immobiliari loro assegnate per ragioni d’ufficio, vantaggi personali"; più in particolare, facendo leva su un collaudato sistema di relazioni interpersonali con professionisti, quale l’avv. C.R., e con persone interessate alle procedure esecutive, si erano resi disponibili, in cambio di denaro e di altri beni, ad adoprarsi per velocizzare alcune procedure, a intervenire sull’assegnazione di una determinata procedura ad uno piuttosto che ad un altro magistrato, a garantire l’esclusione di determinati soggetti dalla partecipazione all’asta giudiziaria; avevano, inoltre, indebitamente incassato mandati di pagamento emessi dal Presidente del Tribunale in favore dei reali beneficiari, dei quali falsificavano la firma; si erano abusivamente assentati, in alcuni giorni, dal posto di lavoro, pur risultando formalmente presenti, avendo l’uno per conto dell’altro fraudolentemente timbrato il cartellino di presenza. Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l’indagato e ha dedotto: 1) violazione ed erronea applicazione della legge processuale stabilita a pena di inutilizzabilità, con riferimento all’art. 335 c.p.p., art. 405 c.p.p., art. 406 c.p.p., e art. 407 c.p.p., comma 3, con conseguente erronea applicazione dell’art. 273 c.p.p. e connesso vizio di motivazione: le indagini disposte a suo carico, in quanto espletate dopo la scadenza del termine di legge, non potevano essere utilizzate, col conseguente venir meno del quadro di gravita indiziaria; 2) violazione ed erronea applicazione degli artt. 266, 267, 271, 273 c.p.p., con connesso vizio di motivazione, per essere state disposte le intercettazioni telefoniche in suo danno prima (22/2/2006) della sua iscrizione nel registro degli indagati (marzo 2006) e, quindi, in assenza di gravi indizi, con conseguente inutilizzabilità degli esiti delle captazioni. Il ricorso non è fondato.

L’ordinanza impugnata fa buon governo della legge processuale, nel ritenere pienamente utilizzabili gli esiti delle indagini finalizzate a chiarire la posizione del G., il cui coinvolgimento negli illeciti ipotizzati a suo carico e questi stessi illeciti erano venuti alla luce soltanto nel corso della più ampia indagine, avviata sin dall’anno 2004, riguardante altri fatti ed altri soggetti.

Il Giudice del riesame chiarisce, infatti, e la circostanza non è efficacemente contrastata dal ricorrente, che il procedimento, considerato nella sua unitarietà formale, pur instaurato nel 2004, era stato "interessato da progressivi provvedimenti di iscrizione a carico di diversi indagati in data differente con conseguente diversa decorrenza dei termini di indagine" ed aggiunge che l’esigenza di verificare la posizione del G. era sorta soltanto nell’ambito delle indagini, che non risultano scadute per decorso del termine, a carico di tale S.B. ed altri.

Il ricorrente, a conforto della tesi sostenuta, fa leva esclusivamente sul dato di ordine meramente formale, cioè il numero dell’iscrizione (n. 4904/04) dell’originario procedimento nell’apposito registro delle notizie di reato, per inferirne che il termine finale per la chiusura delle indagini andava a scadere, nella più favorevole delle ipotesi, il 31/12/2005, con la conseguente inutilizzabilità, ex art. 407 c.p.p., comma 3, di tutte le indagini successive a tale data, quali erano quelle espletate a suo carico.

Aggiunge, a supporto di tale conclusione, che l’art. 335 c.p.p., in tanto consente "la iscrizione del nominativo della persona emerso nel corso di indagini, con connessa decorrenza del termine dalla data di iscrizione ed intesa come aggiornamento nominativo delle persone cui sarebbe attribuito il reato", in quanto ricorra il presupposto della "pendenza delle indagini", che, nel caso in esame, difetterebbe.

Tale tesi, al di là del rilievo che non considera i progressivi provvedimenti di iscrizione ai quali fa riferimento il Giudice a quo ed incidenti sulla decorrenza e scadenza dei termini d’indagine, confonde il concetto di aggiornamento di un’iscrizione già eseguita con quello di nuova iscrizione, che ha una sua autonomia e non può risentire degli effetti conseguenti alla disciplina che il codice di rito prevede in relazione al primo. Per dirimere ogni equivoco interpretativo, deve osservarsi quanto segue. Il numero d’ordine del registro delle notizie di reato costituisce un dato estrinseco dell’iscrizione e non incide sugli effetti della stessa. Per determinare il dies a quo ai fini della decorrenza dei termini di durata massima delle indagini preliminari di cui all’art. 407 c.p.p., relativi a diversi fatti, soggettivamente qualificati, iscritti sotto lo stesso numero in momenti differenti, l’unico criterio da considerare è quello di ordine sostanziale desumibile dal secondo comma dell’art. 335 c.p.p., in base al quale, quando non si tratti di mutamento della qualificazione giuridica del fatto nè di diverse circostanze del medesimo fatto, non può parlarsi di aggiornamento dell’iscrizione, ma di nuova e autonoma iscrizione, alla quale corrisponde un distinto e autonomo termine per l’espletamento delle corrispondenti indagini, a nulla rilevando che tale nuova iscrizione sia apposta in calce a quella originaria e conservi il medesimo numero d’ordine.

Ciò posto, deve ritenersi che tutte le indagini relative alla posizione del G. sono utilizzabili, in quanto espletate nel relativo termine di legge, considerato che la iscrizione del predetto nel registro ex art. 335 c.p.p., intesa come nuova ed autonoma iscrizione rispetto alle altre concernenti – pur sotto lo stesso numero d’ordinefatti e soggetti diversi, risale al 27/3/2006. Deve precisarsi che sono utilizzabili anche quegli atti di indagine concernenti la posizione del G. ed espletati prima dell’effettiva iscrizione di costui nel registro (cfr. Cass. S.U. 21/6/2000 n. 16).

Pur a volere ritenere, con il ricorrente, che le indagini svolte con riferimento all’iniziale notitia criminis iscritta nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., sotto il numero d’ordine 4904/’04 e alla quale era certamente estraneo il G. si siano protratte oltre il termine di legge, la corrispondente sanzione dell’inutilizzabilità deve ritenersi geneticamente riferibile al tema delle stesse indagini e non può operare per quella parte di indagini orientate ad individuare soggetti responsabili di altri reati.

Anche la doglianza circa l’asserita inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni telefoniche, perchè autorizzate (e in parte espletate) prima (22/2/2006) della iscrizione del G. nel registro degli indagati (27/3/2006), è priva di consistenza.

Il ricorrente, con tale motivo di censura, sostanzialmente contesta la legittimità del decreto autorizzativo delle intercettazioni, perchè, nel momento in cui venne adottato, difettavano i gravi indizi di colpevolezza a suo carico, come dimostrato dal fatto che la sua iscrizione nel registro degli indagati intervenne soltanto in un momento successivo.

Tale argomentare si pone in contrasto con la disciplina dettata dal codice di rito in materia di intercettazioni.

Ed invero, la norma di cui all’art. 267 c.p.p., comma 1, prevede che l’autorizzazione alla intercettazione di conversazioni o di comunicazioni telefoniche è concessa quando vi sono "gravi indizi di reato" e non postula affatto che questi siano a carico del soggetto da intercettare, che legittimamente può essere sottoposto a tale controllo invasivo delle sue comunicazioni anche se non indagato.

Presupposto per il ricorso a tale mezzo di ricerca della prova, quindi, è l’esistenza di uno degli illeciti di cui all’art. 266 c.p.p. e non l’individuazione del suo autore (cfr. Cass. sez. 1 3/12/2003 n. 16779; sez. 4^ 16/11/2005 n. 1848; sez. 4^ 17/10/2006 n. 42017).

Il provvedimento autorizzativo delle intercettazioni, peraltro neppure specificamente preso in considerazione nel ricorso, è legittimamente motivato col richiamo alla sussistenza di gravi indizi di uno dei reati indicati nell’art. 266 c.p.p., con l’effetto che gli esiti della conseguente attività captativa sono pienamente utilizzabili a carico del G..

Poichè le argomentazioni sin qui svolte inducono a ritenere legittimamente utilizzabili, ai fini cautelari che qui interessano, tutte le emergenze procedimentali, devesi concludere che il quadro di gravita indiziaria delineato a carico del ricorrente nell’ordinanza impugnata e non oggetto di contestazione nei suoi contenuti di merito conserva intatta tutta la sua valenza.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione