Corte di Cassazione Penale sez. VI 18/2/2009 n. 7112; Pres. De Roberto G.

Redazione 18/02/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con la decisione in epigrafe la Corte d’appello di Ancona, in riforma della sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Pesaro in data 10 maggio 2002 e appellata dal pubblico ministero, ha dichiarato P.A. responsabile del reato di calunnia per avere denunciato falsamente lo smarrimento di un proprio assegno e lo ha condannato alla pena di due anni di reclusione.

2. – I difensori dell’imputato hanno proposto ricorso per cassazione deducendo, con un primo motivo, l’erronea applicazione dell’art. 368 c.p. sotto un duplice profilo: a) innanzitutto, si assume che la condotta contestata non configura il reato di calunnia, in quanto con la denuncia di smarrimento dell’assegno l’imputato non avrebbe segnalato alcun reato perseguibile d’ufficio, ma unicamente il reato di appropriazione indebita di cose smarrite, punito a querela di parte, la cui mancanza, come nel caso di specie, avrebbe impedito l’avvio di un procedimento penale; b) in secondo luogo, si sostiene che avendo subito l’assegno una serie di girate e di passaggi intermedi non era possibile risalire in modo certo al soggetto a cui, secondo il denunciante, avrebbe dovuto essere attribuito il reato, per cui sarebbe stata configurabile la simulazione di reato, ormai prescritta.

Con altro motivo viene dedotta la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta natura mendace della denuncia di smarrimento del titolo. In primo luogo si censura la sentenza d’appello per non avere preso in considerazione gli argomenti adoperati dai primi giudici per giungere alla assoluzione dell’imputato, sottraendosi al confronto con la decisione di primo grado. Inoltre, si critica la motivazione per essersi fondata principalmente sulla valutazione del comportamento processuale dell’imputato che avrebbe mutato la sua strategia difensiva riconoscendo il mendacio solo dopo avere conosciuto l’esito della perizia grafica che aveva accertato la appartenenza delle firme sull’assegno denunciato: si sostiene l’inadeguatezza e la insufficienza nella considerazione delle giustificazioni offerte dall’imputato come precipui elementi del giudizio di colpevolezza.

Con l’ultimo motivo si rileva un altro vizio di motivazione della sentenza per avere omesso ogni indicazione sulla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. – Preliminarmente il Collegio rileva che il reato di calunnia contestato all’imputato P.A. deve considerarsi estinto per intervenuta prescrizione, calcolata in base ai nuovi termini introdotti dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, entrata in vigore l’8 dicembre 2005.

Secondo l’art. 10, comma 3, legge citata, che detta la disciplina transitoria della nuova normativa, qualora i termini di prescrizione risultino più brevi rispetto ai termini previgenti – come nel caso di specie -, le nuove disposizioni trovano applicazione ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge, ad eccezione dei processi "già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione". Come è noto, la norma in esame originariamente conteneva anche il riferimento ai "processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata dichiarazione di apertura del dibattimento", riferimento che è stato espunto con la sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale, che ha ritenuto non ragionevole tale discrimine temporale per l’applicazione delle nuove disposizioni sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado. Secondo il giudice delle leggi le ragioni dell’inidoneità dell’incombente di cui all’art. 492 c.p.p. a fungere da criterio temporale discriminatorio tra vecchia e nuova normativa risiedono nel fatto che l’apertura del dibattimento non connota tutti i processi penali di primo grado e, soprattutto, che non è atto incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell’interruzione del decorso della prescrizione, pertanto mal si correla ad un istituto di carattere generale come quello di cui all’art. 157 c.p.. Nel sanzionare il legislatore per avere esercitato in maniera irragionevole la sua discrezionalità, la Corte costituzionale ha quindi fornito indicazioni sulle caratteristiche "minime" che devono possedere i fatti processuali cui subordinare l’efficacia temporale della nuova disciplina della prescrizione, individuandole nella possibilità che possano trovare una generalizzata applicazione e nella attitudine ad incidere sul decorso della prescrizione.

Ed è proprio tenendo conto della ratio decidendi espressa dalla sentenza n. 393 del 2006 che deve essere interpretato la L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, nella sua formulazione successiva alla illegittimità costituzionale.

Nella specie, il problema attiene al riconoscimento del momento in cui il processo può dirsi pendente in grado di appello, situazione processuale rilevante per escludere l’applicabilità della nuova disciplina della prescrizione, ma che non riceve alcuna definizione nel codice di procedura, in cui la nozione di "pendenza" non risulta individuata.

Invero, nella giurisprudenza di questa Corte, successivamente alla citata sentenza n. 393/2006, si rinvengono almeno tre orientamenti che propongono differenti letture della "pendenza in grado di appello", cui fa riferimento la L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3:

un primo indirizzo individua questo momento nella iscrizione del processo nel registro della Corte d’appello, ritenendo che il passaggio da una fase ad un’altra è rappresentato dalla trasmissione e dalla ricezione del fascicolo (Sez. 3^, 15 aprile 2008, n. 24330, ***********; Sez. 4^, 21 gennaio 2007, n. 41811, ************); un altro indirizzo individua la "pendenza" nel momento in cui è proposto l’appello, in quanto con la proposizione del gravame il giudice dell’impugnazione è automaticamente investito della relativa decisione (Sez. 1^, 9 aprile 2008, n. 18382, P.G. in proc. ********;

Sez. 3^, 6 marzo 2008, n. 18765, ********; Sez. 7^, 2 ottobre 2007, n. 41965, ********); infine, un terzo orientamento ritiene che la pendenza del giudizio in grado di appello coincida con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (Sez. 6^, 26 maggio 2008, n. 31702, *******; Sez. 6^, 20 novembre 2007, n. 1574, *******; Sez. 2^, 11 marzo 2008, n. 17349, ******; Sez. 3^, 10 luglio 2008, n. 38836, Papa). Secondo quest’ultimo orientamento il riferimento alla sentenza di condanna di primo grado è coerente alla nozione di "fatto processuale" derivante dalla interpretazione che ne ha dato la Corte costituzionale, che ha posto l’accento sul duplice requisito della generalizzata applicazione e della significatività dell’atto, soprattutto in termini di attitudine ad interrompere la prescrizione.

4. – Questo Collegio condivide il percorso interpretativo seguito dall’indirizzo da ultimo menzionato, in quanto, coerentemente, coniuga la ratio decidendi della sentenza n. 393/2006 all’interno del sistema processuale, tuttavia con riferimento al caso in esame deve essere individuato un diverso "fatto" cui collegare la nozione di "pendenza", in quanto le argomentazioni riferibili al significato della sentenza di condanna di primo grado non possono essere estese alla sentenza di assoluzione di primo grado. Infatti, questa sentenza non rientra tra gli atti interruttivi della prescrizione ai sensi dell’art. 160 c.p., quindi è priva di quella connotazione richiesta dal Giudice delle leggi.

Quando il giudizio di primo grado si sia concluso, come nella specie, con una sentenza di assoluzione, il momento determinante ai fini della pendenza del procedimento in appello, rilevante ai sensi della disciplina transitoria prevista dalla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3. Per l’applicazione della vecchia ovvero della nuova normativa in tema di termini di prescrizione, è dato dalla emissione del decreto di citazione per il giudizio ex art. 601 c.p.p.. Si tratta di un atto a cui viene riconosciuta efficacia interruttiva, infatti secondo una giurisprudenza consolidata, il riferimento generico al decreto di citazione a giudizio, contenuto nell’art. 160 c.p., consente di ricomprendere tra gli atti interruttivi del corso della prescrizione anche il decreto di citazione per il giudizio d’appello di cui all’art. 601 c.p.p. (Sez. 6^, 20 maggio 2008, n. 27324, ********; Sez. 5^, 7 novembre 2007, n. 3420, ******; Sez. 6^, 21 febbraio 2003, n. 11418, *******; Sez. 3^, 25 novembre 1981, n. 1779, *******). Inoltre, è atto imprescindibile per l’instaurazione del giudizio di appello, con applicazione generalizzata. In altri termini possiede quelle caratteristiche di atto particolarmente significativo cui ha fatto riferimento la Corte costituzionale.

D’altra parte, deve escludersi che a questi fini possa farsi riferimento alla presentazione dell’impugnazione, che è atto di parte, privo anch’esso della specificità di interrompere il corso della prescrizione; per ragioni analoghe non si ritiene che la pendenza possa essere determinata da un adempimento di carattere amministrativo, come l’iscrizione nel registro della Corte d’appello.

La ricerca, nell’ambito della nozione di "pendenza in grado di appello", di un "fatto processuale" significativo, al quale attribuire il ruolo di indicare, ratione temporis, la disciplina applicabile, rispettando la ratio decidendi che ha ispirato la decisione della Corte costituzionale nel ritenere illegittimo il riferimento all’apertura del dibattimento, conduce necessariamente alla identificazione del decreto di citazione a giudizio, cioè del primo atto in sequenza procedimentale che, in presenza di una sentenza di assoluzione di primo grado, produce l’effetto di interrompere il corso della prescrizione, che, sempre che non sia già superato il tempo stabilito dall’art. 157 c.p., riprende a decorrere dal giorno della interruzione.

Irrilevante deve ritenersi la circostanza che la nozione di pendenza in grado di appello non sia univoca, dal momento che diversi sono gli atti cui fare riferimento, a seconda che la fase di appello sia preceduta da una sentenza di condanna o di assoluzione di primo grado: infatti, si tratta di definire la "pendenza" non in termini assoluti, ma in relazione ad una norma intertemporale, quale quella di cui alla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, letta ed interpretata alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale. Per cui il diverso epilogo del giudizio di primo grado giustifica una diversa nozione di "pendenza in grado di appello".

Occorre precisare che l’effetto del decreto di citazione a fungere da discrimine temporale cui agganciare la disciplina transitoria e determinare l’applicazione della nuova ovvero della vecchia disciplina in materia di prescrizione, non è collegato alla notificazione all’imputato, essendo sufficiente la sola emissione del decreto stesso, sottoscritto dal giudice, indicativa della persistenza dell’interesse punitivo dello Stato (Sez. 4^, 27 novembre 2002, n. 13320, *******; Sez. 1^, 22 novembre 2007, n. 2113, *****).

Si tratta infatti di un atto che il presidente del collegio è tenuto ad emettere senza ritardo, una volta che il fascicolo contenente il provvedimento impugnato e l’atto di impugnazione sia pervenuto alla cancelleria del giudice ad quem.

5. – In conclusione, le disposizioni da applicare nel caso in questione sono quelle previste dalla L. n. 251 del 2005, in quanto al momento di entrata in vigore della nuova disciplina – 8 dicembre 2005 – non vi era ancora il decreto di citazione a giudizio ex art. 601 c.p.p., emesso solo il 18 ottobre 2007, a distanza di oltre cinque anni dalla proposizione dell’appello da parte del pubblico ministero (22 agosto 2002). Secondo la nuova formulazione dell’art. 157 c.p. e ss. il tempo massimo di prescrizione per il reato di calunnia, nella concreta fattispecie, è di anni sette e mesi sei; considerato che la consumazione del delitto risale (OMISSIS) il termine massimo di prescrizione è abbondantemente decorso.

Deve escludersi l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., comma 2: in presenza di una causa estintiva del reato, il giudice può pronunciare sentenza di assoluzione nel merito soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale ovvero la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile, in quanto la "evidenza" richiesta dall’art. 129 c.p.p., comma 2 presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara, manifesta ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia. Nella specie, la presenza stessa di due sentenze di merito, pervenute a differenti conclusioni circa la responsabilità di P.A. in ordine al reato di calunnia, porta necessariamente ad escludere l’evidenza dell’innocenza dell’imputato secondo i parametri indicati dal citato art. 129 c.p.p., comma 2.

In conclusione, può dichiararsi l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione e per questa ragione la sentenza deve essere annullata.

6. – Il Collegio ritiene di dover disporre la trasmissione degli atti al Procuratore ******** presso questa Corte, per quanto di competenza in ordine ad eventuali profili disciplinari collegati al lungo periodo di tempo intercorso tra l’appello del pubblico ministero e lo svolgimento del giudizio di appello.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione.

Dispone la trasmissione degli atti alla Procura generale presso questa Corte per quanto di competenza in sede disciplinare.

Redazione