Corte di Cassazione Penale sez. VI 16/7/2009 n. 29435; Pres. de Roberto G.

Redazione 16/07/09
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FATTO E DIRITTO

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Catania, a seguito di impugnazione del Procuratore generale, ha riformato quella del giorno 11 gennaio 2008 del locale Tribunale, che aveva condannato S.G. per il reato di cui all’art. 348 c.p. alla pena (sospesa) di Euro 200,00 di multa, per avere esercitato abusivamente la professione di avvocato, dopo che il predetto era stato assolto dal giudice di primo grado.

La Corte ha osservato che l’imputato non aveva affatto svolto una semplice attività "manovale e strumentale", come sostenuto dalla difesa, sia perchè nel processo civile, come in quello penale, non esiste la figura del "nuncius" nella sede processuale ma quella di sostituto, per delega scritta, del difensore nominato: dal verbale di causa oggetto della contestazione si ricavava che l’imputato aveva svolto attività processuale in sostituzione dell’avvocato La Piana, qualificandosi come avvocato, con reiterazione delle domande, eccezioni e difese contenute nell’atto introduttivo redatto da quest’ultimo, e con precisa consapevolezza da parte dell’imputato del compimento di un’attività di esplicazione della professione forense.

Chiariva la Corte che l’attività abusiva di avvocato concerne anche le ipotesi in cui il difensore già iscritto all’albo più non lo sia, ancorchè a seguito di richiesta dell’interessato, risultando comunque violato l’interesse sotteso alla norma del R.D. n. 1578 del 1933, art. 1.

Avverso tale decisione propone ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che deduce il vizio di motivazione in relazione all’art. 533 c.p.p. perchè: 1) la motivazione della sentenza della Corte d’appello non risponderebbe ai requisiti minimi di esistenza completezza e logicità: specie quando, come nella specie, riforma totalmente la sentenza di primo grado, il giudice del gravame deve specificare le ragioni di incompletezza e di incoerenza della pronuncia del primo giudice; 2) la sentenza, inoltre, sarebbe viziata per difetto di logicità, in quanto la motivazione mancherebbe di una giustificazione sia interna sia esterna, essendosi limitata la Corte a contrapporre massime di opposto orientamento a quelle a sostegno della linea difensiva; 3) essendo stata pronunciata assoluzione perchè il fatto non costituisce reato, si sarebbe dovuta motivare con pertinente ed efficace percorso logico giuridico "l’assenza del richiesto elemento soggettivo" (mete: "la presenza", n.d.e.); 4) la Corte si sarebbe limitata a riportare i motivi di appello del Pubblico ministero.

Osserva il Collegio che il ricorso è inammissibile, in quanto non specifico, atteso che la censura è formulata senza alcun collegamento concreto con la motivazione della sentenza impugnata. La doglianza è generica e apodittica anche nella parte in cui si lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto la sussistenza dell’elemento soggettivo, in quanto non vengono argomentate le ragioni della censura formulata, in violazione del disposto di cui all’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c).

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende che, in relazione alle questioni dedotte, si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Redazione