Corte di Cassazione Penale sez. VI 12/10/2009 n. 39706; Pres. Agrò A.S.

Redazione 12/10/09
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FATTO E DIRITTO

Il Procuratore ******** presso la Corte di Appello di Bologna ricorre per cassazione contro la sentenza indicata in epigrafe, con la quale il G.I.P. del Tribunale in sede aveva dichiarato ai sensi dell’art. 425 c.p.p., n.d.p. contro T.L. perchè il fatto non sussiste in ordine al reato di rivelazione di segreto di ufficio di cui all’art. 326 c.p., per avere, quale consigliere comunale e quindi pubblico ufficiale divulgato documenti e comunicazioni di natura riservata, concernenti la gestione della casa di riposo "(omissis)", a struttura convenzionata, di cui era venuto legittimamente a conoscenza in ragione del diritto di accesso, riconosciuto per tale qualifica ai sensi del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 54, rivelando tali notizie ad un giornalista per la pubblicazione sulla stampa, poi puntualmente avvenuta.

Escludeva il G.I.P. che i documenti de quibus rivestissero la qualifica di atti segreti, giacchè la nozione di segreto di ufficio, tutelato dall’art. 326 c.p., presupponeva l’esistenza di atti tipici, che per espressa disposizione legislativa – penale o extrapenale – fossero coperti dal requisito della segretezza, onde consentire all’interprete di valutare la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato. Nel caso in esame mancava una specifica disciplina che come conseguenza e necessario corollario del diritto di accesso prevedesse l’obbligo del segreto di ufficio; la recente modifica di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 24, che aveva sottratto altri atti al diritto di accesso, nulla aveva innovato rispetto al regime previgente di cui alle L. n. 121 del 1981, e L. n. 668 del 1986, che nulla prescrivevano in merito all’obbligo della segretezza, onde ad avviso del giudicante, attesa l’inesistenza di uno specifico obbligo ed esclusa la legittimità di qualsiasi riferimento a quelle che regolano ipotesi simili, non ultima la disciplina sancita per gli impiegati dello Stato, non potendo equipararsi il consigliere comunale ad un impiegato civile dello Stato, si doveva prendere atto che il reato non si era perfezionato per carenza dell’elemento materiale.

"Di diverso avviso è l’organo requirente ricorrente, che a sostegno della richiesta di annullamento dell’impugnata decisione, denuncia la erronea applicazione della legge penale, e sostiene che la declaratoria di improcedibilità era frutto di una lettura inesatta delle disposizioni di legge e di regolamento disciplinanti la materia. La nozione di "notizie di ufficio, le quali debbono rimanere segrete", secondo l’insegnamento della Suprema Corte, assume non solo il significato di informazione sottratta alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma anche quello di informazione, per la quale la diffusione sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, nel momento in cui viene indebitamente diffusa, perchè svelata a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalità previste. Nel caso erroneamente era stato disatteso tale principio, che non riguarda solo gli impiegati dello Stato, come riduttivamente affermato dal G.I.P., e ciò sia per la portata generale dei limiti di accesso fissati dalla L. n. 241 del 1990, art. 24, sia per la presenza della norma di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 43, cit., a sua volta di settore per i consiglieri comunali e provinciali, e forse simmetrica rispetto alla norma, disciplinante il segreto di ufficio per gli impiegati civili dello Stato.

Osserva il collegio che il ricorso non ha consistenza giuridica e va pertanto rigettato.

Occorre partire dalla disamina della portata della norma incriminatrice che tutela le notizie, che devono rimanere segrete. Giurisprudenza pregressa, ma ancora attuale, è attestata sul principio che ai fini della configurabilità del reato il dovere di segreto, cui è astretto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, deve derivare da una legge, da un regolamento, ovvero dalla natura stessa della notizia che può recare danno alla pubblica amministrazione (Cass. Sez. 6^ 6/2 – 14/9/1990 n. 12389).

Tale principio correttamente è stato recepito dal G.I.P., quando ha ritenuto legittimo l’operato dell’imputato, consigliere comunale, nell’ottenere la disponibilità di quegli atti in ragione del diritto di accesso riconosciutogli par tale qualifica dall’art. 54 del Regolamento attuativo del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 43, sul funzionamento del Consiglio Comunale, trattandosi di atti del suo ufficio, e nel ritenerli svincolati da qualsiasi segretezza in assenza di una specifica normativa, che qualificasse segreti gli atti divulgati. Lo stesso organo requirente ne da atto nel ricorso, quando riconosce il diritto del consigliere comunale di ottenere dal suo ufficio, fruendo del suo diritto di accesso, tutte le notizie e le informazioni utili all’espletamento del suo mandato.

Non è invece condivisibile l’opinione del P.G. ricorrente, laddove comprende nella nozione di "notizie di ufficio" non solo le informazioni, sottratte per legge o per regolamento alla divulgazione in ogni tempo e luogo e nei confronti di chiunque, ma anche quelle, per le quali la diffusione sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, nel momento in cui esse vengono indebitamente diffuse, perchè svelate a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalità previste.

Diverse, ad avviso del collegio, sono le finalità perseguite rispettivamente dalla norma incriminatrice e dalla normativa sul diritto di accesso.

Occorre infatti ricordare come la L. n. 241 del 1990, abbia rivoluzionato la disciplina degli atti e dell’accesso agli stessi, sancendo in definitiva il principio che tutto ciò che non è segreto è accessibile.

Essa contiene soltanto la regolamentazione del diritto di accesso e non anche di un parallelo obbligo di segretezza, regolando tale diritto unicamente in base all’interesse del richiedente, ovvero alla giustificazione addotta dallo stesso. Con ciò il legislatore ha inteso porre soltanto un freno all’ipotetico proliferare di richieste, che potenzialmente potrebbero paralizzare la Pubblica Amministrazione, esigendo il requisito dell’interesse, quale elemento regolatore del generico principio della completa accessibilità agli atti, restando quest’ultima comprimibile solo attraverso l’imposizione del segreto nei casi previsti dalla legge. E il caso in rassegna non rientra tra le ipotesi di segreto normativamente previste, nè risulta che il Sindaco avesse imposto alcun vincolo sugli atti e sulla vicenda della (omissis). Se si volesse recepire il discorso del P.G., si giungerebbe all’assurdo di impedire l’attività di controllo dei Consiglieri Comunali e soprattutto di bloccare ogni azione di opposizione politica all’operato degli organi di governo.

Nè può estendersi ai consiglieri comunali la disciplina sancita per gli impiegati civili dello Stato dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 15, come modificato dalla citata L. n. 241 del 1990, art. 28, che impone a tale categoria l’obbligo del segreto di ufficio sui provvedimenti o operazioni amministrative in corso o concluse, di cui sia venuto a conoscenza a causa delle funzioni, al di fuori dell’ipotesi e dalle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Sul punto ha già adeguatamente risposto il G.I.P., che, ribadita l’ampiezza e i limiti del diritto di accesso e l’imprescindibilità della previsione normativa degli atti che devono rimanere segreti, ha richiamato la preclusione in materia penale di applicazioni analogiche in "malam partem".

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

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