Corte di Cassazione Penale sez. VI 11/12/2008 n. 45807; Pres. Lattanzi G.

Redazione 11/12/08
Scarica PDF Stampa
RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’appello di Venezia con ordinanza del 4 giugno 2008, provvedendo come giudice dell’esecuzione su un ricorso proposto da D.M., ha dichiarato "la ineseguibilità ex art. 670 c.p.p. del giudicato costituito dalla sentenza 12 giugno 2002 della Corte di appello di Venezia e ciò in esclusivo riferimento alla pena di otto mesi di reclusione quale aumento per la continuazione a titolo di corruzione ex art. 319 c.p.p." e ha ordinato "la trasmissione del ricorso per cassazione del D. contro la sentenza 12 giugno 2002 della Corte di appello di Venezia alla Corte di cassazione".

La Corte d’appello, nonostante la sua sentenza fosse divenuta esecutiva dopo il rigetto del ricorso per cassazione, ha ritenuto in tal modo di dare parziale attuazione alla sentenza 11 dicembre 2007 della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui la Corte di cassazione, nel rigettare il ricorso e contestualmente nel riqualificare ex officio i fatti di corruzione "per un atto contrario ai doveri d’ufficio", oggetto dell’originaria imputazione, nel più grave reato di corruzione "in atti giudiziari", ebbe a violare l’art. 6, pp. 1 e 3, lett. a) e b) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo posti a presidio del processo equo.

2. Nell’ordinanza è descritta la specifica vicenda processuale e l’epilogo del giudizio di legittimità.

La Corte d’appello di Venezia dichiarò D.M. – in accoglimento dell’impugnazione del pubblico ministero contro la sentenza di primo grado con la quale D. fu condannato per i delitti di falso ideologico e solo per alcuni fatti di corruzione – responsabile anche degli ulteriori episodi di corruzione "per atti contrari ai doveri d’ufficio" e, unificati tutti i reati nel vincolo della continuazione, lo condannò alla pena di tre anni e otto mesi di reclusione.

Con la sentenza 4 febbraio 2004, la Corte di cassazione, attribuita ai fatti la diversa definizione giuridica di corruzione "in atti giudiziari", rigettò il ricorso proposto da D., non dichiarando estinti i reati per prescrizione, in ragione di tale più grave qualificazione.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, adita da D.M., ha ritenuto la lesione del diritto del ricorrente a essere informato in modo dettagliato della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico nonchè il suo diritto a disporre del tempo e delle facilitazione necessarie a preparare la sua difesa, e ha poi precisato che, in assenza di richieste di equo soddisfacimento da parte del ricorrente, l’avvio di un nuovo procedimento o la riapertura del procedimento su richiesta dell’interessato rappresenta in linea di massima un modo adeguato di porre rimedio alla violazione contestata.

3. La Corte d’appello ha disatteso le deduzioni difensive, secondo cui la Corte europea avrebbe giudicato iniquo l’intero processo nazionale, e ha posto in rilievo che la pronuncia de qua ha giudicato iniquo il processo nazionale perchè la Corte di cassazione ex officio ha dato al fatto una definizione giuridica diversa da quella ritenuta nelle due sentenze di merito.

4. D.M. ha proposto ricorso per cassazione deducendo che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto la condanna pronunciata nei suoi confronti ineseguibile solo con riferimento alla pena di otto mesi di reclusione, stabilita quale aumento per la continuazione con i reati di corruzione.

Nel ricorso si precisa che tale aumento fu disposto dal giudice d’appello che, in accoglimento dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero, ritenne D. colpevole di ulteriori otto episodi di corruzione, rispetto a quelli per i quali fu già condannato in primo grado e dei quali fu ritenuta la continuazione con i reati di falso. Ne discende che la pena di otto mesi di reclusione, per la quale era stato dichiarato ineseguibile il titolo esecutivo, non comprende la pena per i reati di corruzione per i quali vi fu condanna in primo grado.

Si precisa, inoltre, che nella sentenza di primo grado non è distinta la pena per i reati di falso da quella inflitta per gli episodi di corruzione. Unica certezza è la pena base di un anno e otto mesi di reclusione applicata per il più grave reato di falso, e, per tal motivo, la pena da dichiarare valida avrebbe dovuto essere solo quest’ultima.

Il ricorrente ripropone quanto rappresentato alla Corte d’appello e cioè che la Corte europea ha riscontrato la violazione dell’art. 6 della Convenzione per iniquità dell’intera procedura, con la conseguenza che è l’intero giudizio a essere stato invalidato.

Pertanto, la Corte d’appello avrebbe dovuto dichiarare invalida e inefficace la sentenza di condanna emessa nei confronti di D..

Con una successiva memoria il ricorrente ha chiesto, in via subordinata, la "riapertura del procedimento" davanti alla Corte di cassazione e la dichiarazione di "estinzione del reato per prescrizione, annullando il capo di imputazione concernente i reati di corruzione a suo tempo ascritti al D.".

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Non è più oramai da revocare in dubbio che sia patrimonio comune della scienza giuridica, della giurisprudenza costituzionale e di legittimità la "forza vincolante" delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo, sancita dall’art. 46 della Convenzione, là dove prevede che "Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti" e poi ancora che per realizzare tale risultato "la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione".

Altrettanto uniforme è la posizione – il cui fondamento specifico è nella norma racchiusa nell’art. 13, collocato nel Titolo 1^ "Diritti e libertà", là dove è attribuito a "ogni persona i cui diritti e libertà riconosciuti dalla … Convenzione siano violati …" il "… diritto ad un effettivo ricorso" – secondo cui il definitivo accertamento di una violazione fa sorgere il diritto della persona di essere posta in condizione di avvalersi di uno strumento giuridico interno volto a ottenere la restituito in integrum.

Tangibili e concreti indici rivelatori dell’esigenza di adeguarsi a tale dovere imposto in via primaria al legislatore emergono dall’inserimento della L. n. 400 del 1988, art. 5, comma 3, lett. a bis) ad opera della L. 9 gennaio 2006, n. 12, art. 1 che introduce tra i compiti del Presidente del Consiglio dei ministri il dovere di promuovere "gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano" e di comunicare "tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presentare annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce".

E’ dovere primario, dunque, del legislatore quello di prevedere strumenti giuridici per la concreta esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano rilevato, nei processi penali, violazioni dei principi sanciti dall’arto della Convenzione. Non può che essere condiviso e fatto proprio il pressante invito rivolto al legislatore formulato dalla Corte costituzionale, dopo avere concluso per la declaratoria di infondatezza della questione di legittimità dell’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. a) nella parte in cui esclude dai casi di revisione "… l’impossibilità di conciliare i fatti stabiliti a fondamento della sentenza … con la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato l’assenza di equità del processo …" (Sentenza n. 129 del 2008).

E’ dovere, anch’esso primario, della giurisdizione verificare, mediante la corretta e rigorosa applicazione dei criteri ermeneutici, se la disciplina processuale abbia già una regola che, in considerazione dei contenuti e della specificità del caso, renda percorribile l’attuazione di un decisum del giudice europeo.

2. La specificità del decisum nei confronti di D. è di chiara evidenza: incide sul caso concreto come regola di sistema di un "giudizio equo" e non postula, dunque, una "revisione" della sentenza resa all’esito del giudizio di merito.

La vicenda, sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi, si caratterizza per l’assoluta diversità rispetto a quelle per le quali l’attuazione del dictum della Corte europea pone in discussione il giudizio di merito, come nei casi del giudizio in contumacia.

In particolare, il mancato riconoscimento del diritto dell’imputato di interloquire sulla diversa definizione giuridica del fatto corruttivo ha inciso sull’esito del ricorso per cassazione nel senso che ha impedito la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione; estinzione che avrebbe dovuto essere dichiarata se l’accusa, nel suo inquadramento giuridico, non fosse stata modificata.

Per dare esecuzione alla pronuncia della Corte europea si rende necessario non un nuovo giudizio di merito, ma solo il rispetto della garanzia del contraddittorio anche sulla diversa definizione del fatto che il giudice di legittimità ha operato ex officio.

Ciò che si chiede è di "rescindere" la sentenza resa all’esito di un "giudizio di legittimità iniquo" e di eliminare l’anomalia già individuata e definita, mettendo in condizione l’imputato e la sua difesa di esercitare il diritto di interloquire sulla diversa definizione giuridica del fatto.

2.1. La sentenza europea riveste inoltre particolare importanza per la sua duplice natura: l’una diretta a incidere sul caso concreto con la restituito in integrum del giudizio di legittimità ed entro i limiti indicati; l’altra, di rendere immanente nel nostro ordinamento il principio del contraddittorio su ogni profilo dell’accusa, anche nel giudizio di legittimità.

E’ stata cioè evidenziata una violazione di sistema relativa al principio del giusto processo configurato nell’art. 6, p. 3, lett. a) e b) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per la Corte europea, il "processo equo" impone che l’imputato, una volta informato dell’accusale cioè dei fatti e della qualificazione giuridica a essi attribuita, deve essere messo in grado di discutere in contraddittorio su ogni profilo che li investe. Contraddittorio che deve essere garantito anche là dove l’ordinamento – come nel caso italiano – riconosca al giudice il potere di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nella imputazione ab origine ascritta all’imputato.

Il sistema va integrato con la regola enunciata dalla Corte di Strasburgo custode della corretta interpretazione delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; il decisum del giudice nazionale di legittimità deve essere "rescisso" nella parte in cui non ha attuato la regola di sistema imposta dalla Convenzione.

Spetta però al giudice nazionale il compito di "rescindere" formalmente la sentenza pronunciata all’esito del giudizio di legittimità, allo scopo di rinnovare tale ultimo segmento processuale nel senso indicato dalla Corte europea.

3. Affinchè il dictum europeo possa integrare la regola processuale interna si impone però la verifica di compatibilità di essa con le norme della Costituzione.

Occorre, al riguardo, ricordare che il Giudice delle leggi ha anzitutto statuito che l’art. 117 Cost., comma 1 per quanto riguarda la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rispetto agli altri trattati internazionali, ha la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell’uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa.

Ciò importa che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione europea vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione.

La Corte costituzionale inoltre ha affermato che le norme della Convenzione europea, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, non sono immuni dal controllo di legittimità costituzionale del Giudice delle leggi: si tratta infatti di norme che integrano il parametro costituzionale e rimangono pur sempre a un livello subcostituzionale, e per le quali è necessario che siano conformi a Costituzione, e il relativo controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117 Cost., comma 1, e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti, contenuta in altri articoli della Costituzione (C. cost. nn. 348 e 349 del 2007).

La completa operatività delle norme interposte, dunque, deve superare lo scrutinio della loro compatibilità con l’ordinamento costituzionale italiano.

3.1. Quanto alla regola di sistema, la Corte europea ha ritenuto che nel giudizio de qua "è stato leso il diritto del ricorrente a essere informato in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico nonchè il suo diritto a disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare l’accusa".

Non è da revocare in dubbio che la regola – racchiusa nell’art. 521 c.p.p., comma 1 – caratterizzi una funzione indefettibile del giudice, quella della corretta qualificazione giuridica del fatto e delle relative conseguenze sanzionatorie. Regola che diviene ancor più cogente nel giudizio di legittimità perchè da contenuto e significato alla funzione della Corte di cassazione chiamata ad assicurare "l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge". La regola è indefettibile, mentre il modulo operativo è emendabile. Nel giudizio di legittimità, l’applicazione dell’art. 521 c.p.p., comma 1 nel senso indicato dalla Corte europea appare conforme al principio epistemologico statuito dall’art. 111 Cost., comma 2, per il quale "… ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti al giudice …", principio che non investe soltanto "la formazione della prova" ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso.

Si impone una interpretazione della norma de qua adeguata ai principi costituzionali richiamati e al decisum del giudice europeo.

Il giudice ordinario – statuisce il Giudice delle leggi – deve interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme e, qualora ciò non sia possibile ovvero si dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale "interposta", il giudice deve proporre la relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1 (C. cost. n. 349 del 2007).

3.2. Ad avviso del Collegio, non vi è la necessità di un intervento additivo della Corte costituzionale per stabilire che l’imputato e il difensore devono e possono essere messi in grado di interloquire sulla eventualità di una diversa definizione giuridica del fatto là dove essa importi conseguenze in qualunque modo deteriori per l’imputato così da configurare un suo concreto interesse a contestarne la fondatezza.

Tanto è accaduto nel caso di specie, in cui la diversa definizione giuridica del fatto ha comportato la mancata declaratoria di estinzione per prescrizione del reato enunciato nell’imputazione.

La norma va applicata e interpretata nel senso che la qualificazione giuridica del fatto diversa da quella attribuita nel giudizio di merito, riconducibile a una funzione propria della Corte di cassazione, richiede, però, una condizione imprescindibile per il suo concreto esercizio: l’informazione di tale eventualità all’imputato e al suo difensore. Informazione che, qualora manchi una specifica richiesta del pubblico ministero, va formulata dal Collegio con un atto che ipotizzi tale eventualità.

La regola di attuazione dei principi del "processo equo", che la Corte europea ha ritenuto racchiusi nelle norme di Convenzione, si pone in linea con il principio imposto dal richiamato secondo comma dell’art. 111 Cost. e nel processo civile trova riscontro nell’art. 384 c.p.p., comma 3 (nel testo sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12), ai sensi del quale "Se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione". 3.3. Quanto alle modalità di intervento sul caso concreto la Corte europea ha rilevato che, in mancanza di richiesta di equo soddisfacimento "l’avvio di un nuovo procedimento o la riapertura del procedimento su richiesta dell’interessato rappresenta in linea di massima un modo adeguato di porre rimedio alla violazione contestata".

Si è già detto, è compito primario del legislatore prevedere strumenti giuridici per la concreta esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano rilevato, nei processi penali, violazioni dei principi sanciti dall’art. 6 della Convenzione. Si è però posto in rilievo che il giudice ha il dovere di ricercare, in considerazione della specificità della violazione, le modalità di restitutio in integrum.

Nel precedente 2 è stata posta in risalto la specificità del decisum della Corte e la sua incidenza sul caso concreto che non postula una "revisione" della sentenza resa all’esito del giudizio di merito. Qui, l’iniquità del giudizio di legittimità si è realizzata con la modificazione ex officio della definizione giuridica del fatto il cui principale effetto è stato il permanere della condanna, cancellata dalla declaratoria di estinzione del reato.

Del resto, la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità delle disposizioni in tema di revisione nella parte in cui non prevedevano la riconducibilità a tale istituto delle decisioni penali della Corte di cassazione per errore di fatto, ha sottolineato che l’istituto della revisione è un "modello del tutto eccentrico rispetto alle esigenze da preservare nel caso di specie, avuto riguardo: sia alla diversità dell’organo chiamato a celebrare tale giudizio (la corte di appello); sia alla duplicità di fase (rescindente e rescissoria) che ne contraddistingue le cadenze; sia alle stesse funzioni che tale istituto è chiamato a soddisfare nel sistema" (sentenza n. 395 del 2000).

Nella recente sentenza n. 129 del 2008, poi, è la Corte costituzionale a porre in rilevo che il legislatore "… per soddisfare le esigenze e le lacune poste in luce nella pronuncia richiamata – ha introdotto, con l’art. 625 bis c.p.p., un nuovo istituto per rimuovere gli effetti di quel tipo di errori commessi dalla Corte di cassazione, denominandolo significativamente ricorso straordinario per errore materiale o di fatto; ed assegnandogli una collocazione sistematica ed una disciplina avulse (e logicamente alternative) rispetto a quelle che caratterizzano la revisione".

In tal modo, definito il contesto nel quale si chiede di intervenire, ad avviso del Collegio, lo strumento giuridico idoneo a dare attuazione alla sentenza europea può essere quello del ricorso straordinario contro le sentenza della Corte di cassazione, previsto dall’art. 625 bis c.p.p..

Questa norma – sebbene realizzata per colmare vuoti di tutela definiti e tassativi, errore materiale o di fatto – ampiamente giustifica un ragionamento "per analogia", non incorrendo nei divieti posti dall’art. 14 disp. gen..

Anzitutto, non si è in presenza di una norma penale incriminatrice e, in ogni caso, il ragionamento che si vuole sviluppare per similitudine conduce a effetti in bonam partem. La norma inoltre non si caratterizza per eccezionalità rispetto al sistema processuale, poichè realizzata per colmare un vuoto normativo dovuto all’inadeguatezza della precedente disciplina a tutelare anomalie e violazioni riconducibili al diritto di difesa, pur configurabili con ordinarietà nel giudizio di legittimità.

Ragionamento per similitudine, dunque, che conduce ad applicare all’ipotesi de qua uno strumento giuridico modellato sull’istituto introdotto dall’art. 625 bis c.p.p.. Si è in presenza di situazioni analoghe nel senso che l’elemento che le accomuna è l’identità di ratio: rimediare, oltre che a veri e propri errori di fatto, a violazioni del diritto di difesa occorse nell’ambito del giudizio di legittimità e nelle sue concrete e fondamentali manifestazioni che rendono invalida per iniquità la sentenza della Corte della cassazione. Per di più, nel caso specifico, si è in presenza di violazione affermata dalla Corte europea; violazione che trova la sua immediata tutela nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nel citato art. 111 Cost., comma 2.

In conclusione, vi è una parziale "rimozione" del giudicato, nella parte in cui esso si è formato nel giudizio di legittimità mediante un vulnus al diritto di difesa, che si è tradotto in una "iniquità" della sentenza, "iniquità" che non è scaturita da preclusioni processuali addebitabili al ricorrente, bensì dal "governo" del processo da parte del giudice.

Mette conto – a completamento dell’area degli argomenti giuridici – che nel bilanciamento di valori costituzionali, da un lato, quello della funzione costituzionale del giudicato e, dall’altro, quello del diritto a un processo "equo" e a una decisione resa nel rispetto di principi fondamentali e costituzionali posti a presidio del diritto a interloquire sull’accusa, non può che prevalere quest’ultimo; e proprio la prevalenza di quest’ultimo valore ha determinato il legislatore a introdurre il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p. contro le sentenze della Corte di cassazione.

In conclusione, la revoca della sentenza 4 febbraio 2004 di questa Corte per un caso non espressamente previsto dalla legge è soluzione raggiunta con l’utilizzazione del criterio ermeneutico dell’analogia legis, che si traduce nella regola che legittima la risoluzione di casi non previsti dalla legge con l’applicazione a essi della disciplina prevista per casi simili. La revoca della sentenza va limitata al decisum relativo ai fini corruttivi qualificati come reati di corruzione in atti giudiziari ex art. 319 ter c.p..

Va disposta una nuova trattazione del ricorso proposto da D. M. contro la sentenza 12 giugno 2002 della Corte d’appello di Venezia, limitatamente al punto della diversa definizione giuridica data al fatto corruttivo rispetto a quella enunciata nell’imputazione e poi ritenuta dai giudici di merito.

P.Q.M.

Revoca la sentenza della Corte di cassazione del 4 febbraio 2004 n 23024 nei confronti di D.M., limitatamente ai fatti corruttivi qualificati come reati di corruzione in atti giudiziari ex art. 319 ter c.p. e dispone che si proceda a nuova trattazione del ricorso contro la sentenza della Corte d’appello di Venezia in data 2 giugno 2002.

Redazione