Corte di Cassazione Penale sez. V 7/5/2010 n. 17672

Redazione 07/05/10
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione
OSSERVA

P.N., avvocato e collaboratore dello studio dell’avvocato B.G., nel commentare una nota inviata dall’ufficio contabilità alle segretarie, diceva a S.P., addetta all’ufficio contabilità, "basta, ho deciso, io con l’avvocato ci parlo, ci discuto, non sono come la Pa. – altro avvocato dello studio – che dice sempre "sì avvocato…certo avvocato". B. è un pazzo, vuole restare circondato da leccaculo, bene ci resti pure"; il P. mimava con la lingua l’espressione leccaculo.

La frase era ascoltata anche da C.G., capo dell’ufficio contabilità, e veniva riferita all’avvocato B. dalla S. con un lettera.

All’esito del procedimento di primo grado, iniziato su querela del B., il Tribunale di Roma, con sentenza emessa in data 16 luglio 2004, assolveva P.N. dal delitto di diffamazione ascrittogli perchè il fatto non sussiste sul presupposto che fosse più credibile la versione dei fatti fornita dal teste C., secondo il quale la frase incriminata venne pronunciata in termini ipotetici dall’imputato che, comunque, intendeva criticare, seppure in modo assai polemico, l’organizzazione dello studio.

La Corte di Appello di Roma, con sentenza emessa in data 1 dicembre 2008, riteneva, invece, maggiormente attendibile la S.P., escludeva che la frase fosse ipotetica ed affermava la portata diffamatoria della frase ed in particolare dell’epiteto pazzo.

La Corte, pertanto, dichiarava non doversi procedere nei confronti del P. per essere estinto il reato per prescrizione e condannava l’imputato al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, danni da liquidarsi in separata sede.

Con il ricorso per cassazione P.N. deduceva:

1) la violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3, e art. 546 c.p.p., comma 1, ed il vizio di motivazione perchè apoditticamente era stata ritenuta dalla Corte di merito più attendibile, o meglio più obiettiva, la S.;

2) la violazione dell’art. 595 c.p., non essendo sussistenti gli elementi costitutivi del delitto contestato sia perchè la intera frase non era riferibile al B., sia perchè la stessa non era idonea a ledere la reputazione della parte lesa, essendo il termine pazzo oramai di uso comune. Inoltre il ricorrente poneva in evidenza che non era cosciente di comunicare con più persone e lamentava che sul punto la motivazione fosse carente.

I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da P.N. sono fondati. La ricostruzione dei fatti è pacifica: l’avvocato P. da tempo discuteva con l’avvocato B. la organizzazione dello studio, del quale era titolare lo stesso B. e del quale il P. faceva parte, contestando in particolare, spesso con frasi assai vivaci, la organizzazione di tipo troppo burocratico dello studio professionale.

Avendo appreso della esistenza di una nota dell’Ufficio contabilità che non condivideva il P. pronunciò la frase riportata nel capo di imputazione alla presenza di due dipendenti dello studio.

Orbene, se tali sono i fatti, non appare rilevante stabilire se la frase sia stata pronunciata in termini ipotetici o assertivi, dal momento che, se le espressioni usate avessero valore diffamatorio, sarebbero, comunque, perseguibili penalmente.

L’esame puntuale della frase incriminata induce a ritenere, come ha fatto il giudice di primo grado, che la volgare espressione leccaculo fosse rivolta ai colleghi di studio del P., ed in particolare all’avvocatessa Pa., sempre proni a qualsivoglia direttiva del capo dello studio avvocato B.. La fondatezza di tale ricostruzione è dimostrata dal fatto che il P. precisò che, contrariamente ai suoi colleghi, lui con il B. ci parlava e ci discuteva e non diceva subito sì alle sue direttive.

Le persone offese e diffamate da siffatta espressione andrebbero, pertanto, individuate nei colleghi del P., che non si sono, però, querelati, e non nel B., al quale la volgare espressione non era assolutamente riferita.

Il P., continuando nella sua invettiva, aveva affermato che il B. era un pazzo a circondarsi di leccaculo, o, per dirla in termini meno volgari, di signorsì.

Il concetto appare del tutto chiaro: colui il quale non accetta le critiche, anche le più severe, dei suoi collaboratori e si circonda di persone che, per quieto vivere, non contestano alcuna decisione, avrà scarsi strumenti per dotarsi di una efficiente organizzazione; la critica e la discussione approfondita consentirebbero, invece, di affrontare e risolvere meglio i vari problemi che si pongono nella conduzione di una azienda, di piccole o grandi dimensioni che essa sia.

Si può o meno condividere l’assunto, ma non vi è dubbio che questo sia il significato della aspra critica rivolta dal P. al B..

La diffamazione, quindi, consisterebbe nell’avere rivolto al capo dello studio il termine pazzo proprio perchè si era circondato di signorsì che lo avrebbero portato alla rovina.

Orbene tale termine è di sicuro inelegante e riassume in modo rozzo il pensiero di chi la pronuncia, ma di sicuro non ha valenza diffamatoria, essendo entrato nel linguaggio parlato di uso comune come i termini scemo e cretino.

Quando tali termini vengano usati nelle discussioni, spesso accese, che si svolgono tra colleghi in ambito lavorativo e/o sindacale aventi ad oggetto temi concernenti la organizzazione del lavoro e/o l’adozione di particolari iniziative che possano aumentare la produttività dell’Ufficio e rendere più agevole e meno burocratizzata l’attività degli addetti, finiscono con l’avere un significato rafforzativo del concetto espresso ed evocativo delle gravi conseguenze che si potrebbero verificare in caso di non accettazione delle critiche e dei consigli. L’espressione pazzo, pertanto, ha finito con il perdere, nel caso di specie, la sua valenza offensiva per divenire espressione, sintetica ed efficace, rappresentativa di una conduzione scorretta dell’ufficio, che non potrà che portare alla rovina dello stesso.

E’ certamente disdicevole e poco corretto che in una discussione di lavoro, che per affrontare con esiti positivi un problema dovrebbe essere pacata e serena, si usino termini che possano essere irritanti e poco rispettosi per l’interlocutore e, quindi, controproducenti, perchè evidentemente la forte polemica non consente di trovare soluzioni condivise, ma si deve escludere che essi siano tali da superare la soglia del penalmente rilevante (vedi anche Cass., n. 16780 del 23 aprile 2008).

La esclusione della valenza diffamatoria della espressione usata, tenuto conto delle modalità con cui essa è stata pronunciata e delle finalità propostesi dal P. di manifestare in modo chiaro e polemico il proprio dissenso rispetto a scelte organizzative dello studio professionale del quale faceva parte, impongono l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 gennaio 2010.

Redazione