Corte di Cassazione Penale sez. V 6/11/2008 n. 41393; Pres. Fazzioli E.

Redazione 06/11/08
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OSSERVA

V.L. è imputato di diffamazione in danno dell’avvocato M.D. per avere inviato al Consiglio dell’ordine di Udine una lettera con la quale accusava il M. di "avere svolto autonome e personali indagini" "inquisendo ripetutamente" i suoi (del V.) figli minori. Il V. concludeva la missiva richiedendo i provvedimenti più opportuni in relazione "all’intollerabile abuso" perpetrato dal professionista.

Con sentenza del GdP di Udine 27.6.2005 il V. veniva riconosciuto colpevole e condannato alla pena ritenuta di giustizia, oltre risarcimento danno alla costituita PC. Avverso detta sentenza il predetto proponeva ricorso per cassazione e questa Corte, qualificata l’impugnazione come appello, disponeva la trasmissione degli atti al Tribunale di Udine, che, con sentenza del giorno 11.10.2007, in riforma della pronunzia di primo grado, assolveva il V. ai sensi dell’art. 599 c.p., comma 2.

Ricorre per cassazione il difensore della PC e dopo un ampio excursus in fatto – nel corso del quale rappresenta che la vicenda si inserisce nell’ambito di una causa civile tra il V. e la sua ex moglie, rappresentata e difesa dal M. e precisa che erano emersi episodi di maltrattamento dei figli minori da parte del V. cui gli stessi erano stati affidati – deduce violazione di legge in quanto la esimente in questione non è applicabile in riferimento alla condotta di chi non ha compiuto il preteso fatto ingiusto (nel caso di specie, addebitato alla moglie del V. e non al suo difensore), nonchè carenza di motivazione atteso che il lasso temporale intercorso tra la conoscenza del preteso fatto ingiusto e la redazione della lettera è tale da non scriminare la reazione, anche perchè il solo atto di sedersi alla scrivania per vergare una missiva comporta momenti di riflessione che non si conciliano con la natura istintiva della reazione di cui all’art. 599 c.p., comma 2.

Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza. Il ricorrente va condannato alle spese del grado. Lo stesso va anche condannato al versamento di somma a favore della Cassa ammende, somma che si stima equo determinare in Euro 1.500,00.

Quanto alla prima censura, si osserva: a) innanzitutto, dalla lettura della sentenza di appello, non si rileva affatto che la condotta riferibile al "fatto ingiusto" sia addebitarle solo a B. E., moglie separata dell’imputato, atteso che fu il M., contravvenendo alle disposizioni del giudice civile, a incontrare due volte (e dunque "ripetutamente", come scrive il V. nel suo esposto al Consiglio dell’ordine) i figli (bambini in età prescolare) della coppia ed a colloquiare con gli stessi, b) ad abundantiam va poi ricordato che nei reati contro l’onore, l’esimente della provocazione è applicabile anche nel caso in cui la reazione dell’agente sia stata diretta contro persona diversa dal provocatore, quando quest’ultimo sia legato all’offeso da rapporti tali da giustificare, alla stregua delle comuni regole di esperienza, lo stato d’ira e quindi la reazione offensiva (ASN 200213162-RV 221253).

Quanto alla seconda censura, costituisce ormai jus receptum il principio in base al quale, ai fini dell’integrazione dell’esimente della provocazione, l’immediatezza della reazione deve essere intesa in senso relativo, avuto riguardo alla situazione concreta e alle stesse modalità di reazione, in modo da non esigere una contemporaneità che finirebbe per limitare la sfera di applicazione dell’esimente in questione e di frustarne la ratio: e tanto più deve considerarsi il tempo necessario alla reazione quando questa assuma la forma della diffamazione; ne deriva che per l’integrazione della provocazione è sufficiente che l’azione reattiva sia condotta a termine persistendo l’accecamento dello stato d’ira provocato dal fatto ingiusto altrui e che tra l’insorgere della reazione e tale fatto sussista una reale contiguità temporale, senza che occorra che la reazione si esaurisca istantaneamente (ASN 20070897-RV 236541).

E proprio in base a tale criterio, si è ritenuto (ASN 200732323-RV 236832) che la scriminante in questione dovesse esser riconosciuta – in ipotesi di ingiuria, ma il principio, dato l’inequivoco dettato dell’art. 599 c.p., comma 2 è evidentemente applicabile anche alla diffamazionecon riferimento alla reazione attuata tramite missiva, spedita quattro giorni dopo la commissione del fatto ingiusto. Per completezza, va peraltro chiarito che, sulla base di quanto la stessa sentenza di appello riferisce, la assoluzione del V. avrebbe dovuto essere correttamente pronunziata in applicazione della scriminante ex art. 51 c.p. (piuttosto che della esimente ex art. 599 c.p., comma 2), se è vero che lo stesso, con la missiva "incriminata", altro non fece che portare all’attenzione dell’Organo professionale disciplinarmente competente la condotta (ritenuta scorretta) di un professionista. La stessa sentenza per altro da atto che nei confronti del M. fu iniziato procedimento disciplinare in relazione ai fatti segnalati dal V. (cfr. sentenza di appello fol. 5), procedimento che si concluse con la applicazione della sanzione della sospensione (la B. fu, a sua volta, condannata in sede penale: cfr. sentenza di appello fol. 9, in quanto riconosciuta colpevole del delitto ex art. 388 c.p., comma 2).

Orbene questa Corte ha già avuto modo di stabilire che non integra il delitto di diffamazione la segnalazione al competente Consiglio dell’ordine di comportamenti deontologicamente scorretti tenuti da un libero professionista nei rapporti con il cliente denunciante, sempre che gli episodi segnalati siano rispondenti al vero, perchè il cliente, per mezzo della segnalazione, esercita una legittima tutela dei suoi interessi (ASN 200803565-RV 238909).

Non vi è ragione per non estendere il principio anche alla controparte che sia stata (o si ritenga) danneggiata dal comportamento scorretto del professionista, essendo evidentemente interesse oggettivo dell’Ordinamento che gli esercenti determinate professioni si attengano scrupolosamente alle norme deontologiche dettate per l’esercizio della professione stessa.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di millecinquecento Euro a favore della Cassa delle ammende.

Redazione