Corte di Cassazione Penale sez. V 24/9/2008 n. 36687; Pres. Ferrua G.

Redazione 24/09/08
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OSSERVA

D.P.A., finanziere, è stato accusato di avere effettuato per conto di terzi versamenti alla Agenzia delle Entrate con modello F24 per una somma inferiore a quella pattuita e di avere poi falsificato il modello stesso per fare risultare come pagata la somma effettivamente dovuta.

Tratto a giudizio per rispondere di tale fatto, qualificato come violazione degli artt. 477 e 482 c.p., il D.P. veniva condannato, con il rito abbreviato, alla pena ritenuta di giustizia dal Tribunale di Cassino con sentenza del 22 febbraio 2006 per il reato di cui agli artt. 478 e 482 c.p., così modificata la originaria imputazione.

La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 27 aprile 2007, dopo avere escluso che nei fatti fosse ravvisabile il delitto di cui all’art. 485 c.p., confermava l’affermazione di responsabilità e riduceva la pena inflitta all’imputato in primo grado previa concessione delle attenuanti generiche.

Con il ricorso per Cassazione D.P.A. deduceva i seguenti motivi di impugnazione:

1) la inosservanza di norme processuali per essere stato condannato, in sede di giudizio abbreviato, per un fatto diverso da quello contestato, essendo il reato di cui all’art. 477 c.p. diverso, quanto a condotta e pena, dal reato di cui all’art. 478 c.p., non potendosi, quindi, parlare nel caso di specie di semplice qualificazione diversa dello stesso fatto;

2) la erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione sul punto perchè il modello F24 era stato genericamente qualificato come atto rivestente natura pubblicistica, senza che la Corte di merito avesse chiarito se la falsificazione di tale atto comportasse violazione dell’art. 477 c.p. o art. 478 c.p., ovvero se si trattasse di un certificato o di un attestato;

3) la erronea qualificazione giuridica del fatto perchè l’attestazione richiede la esistenza di un atto che non si comprende quale possa essere nel caso di specie; in effetti nei fatti sarebbe ravvisabile una truffa perpetrata in danno dei contribuenti affidatisi al D.P. ed un falso in scrittura privata, perchè la copia per il contribuente del modello F24 non ha valenza pubblicistica nè ha natura di attestazione liberatoria; entrambi detti reati non sono perseguibili per mancanza di querela;

4) il vizio di motivazione perchè la Corte di merito non ha chiarito quale reato sarebbe ravvisabile nel caso di specie;

5) la violazione del principio di correlazione perchè la Corte di merito, nonostante i rilievi dell’appellante sul punto, ha omesso di verificare se il reato ritenuto fosse o meno correlato a quello contestato;

6) la mancata applicazione della L. 31 luglio 2006, n. 241 in ordine al mancato riconoscimento dell’indulto.

I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da D.P. A. non sono fondati.

Il fatto contestato all’imputato, come dinanzi riportato, appare del tutto pacifico.

Il D.P. pagò per conto dei contribuenti una contravvenzione con il modello F24 versando una somma inferiore a quella dovuta ed a quella ricevuta dai contribuenti e fece poi apparire, come versata, sul modello stesso di competenza del contribuente la somma effettivamente dovuta. Sono sorte discussioni in ordine alla qualificazione giuridica di tale fatto avendo il Pubblico Ministero nel capo di imputazione parlato di violazione degli artt. 477 e 482 c.p., ed avendo, invece, ritenuto il giudice di primo grado la violazione degli artt. 478 e 482 c.p., in tal senso modificato l’originario capo di imputazione.

Nonostante le dedotte perplessità, che sarebbero state palesate dalla Corte di merito in ordine alla qualificazione giuridica del fatto attribuito al D.P., non vi è dubbio che alla fine la stessa abbia ritenuto corretta la qualificazione operata dai giudici di primo grado avendone confermato la sentenza modificata soltanto con riferimento al trattamento sanzionatorio.

Ciò posto il primo problema da risolvere è stabilire se il fatto contestato al D.P. integri la violazione dell’art. 478 c.p. o quella dell’art. 477 c.p..

Per essere più precisi il problema consiste nello stabilire se il modello F24 rilasciato al contribuente debba considerarsi un attestato ovvero un certificato. Sinteticamente si può dire che l’unico reale elemento distintivo dell’attestato rispetto al certificato è nel riferimento – sommario o sintetico – del primo al contenuto di altri atti e quindi ai fatti giuridici relativi, con funzione innegabilmente probatoria, assolta ugualmente dal certificato ma in relazione a fatti o situazioni risultanti aliunde al pubblico ufficiale, anche attraverso una sua eventuale attività di indagine (in tal senso Cass., Sez. 5, penale, 6 marzo 1978 – 22 giugno 1978, n. 8119).

Per essere ancora più precisi si può dire che gli attestati, diversamente dai certificati, sono documenti a carattere derivativo perchè sinteticamente riproduttivi di altri atti o registri originali, ai quali il loro autore fa organico riferimento per approntare il contenuto (Cass., Sez. 5, penale, 20 luglio 1979 – 3 agosto 1979, n. 3040).

Proprio in base a tali presupposti la giurisprudenza di legittimità ha ad esempio stabilito che rientra nella previsione di cui all’art. 478 c.p., comma 3, la falsificazione di dati attestati il pagamento della tassa di circolazione sul disco – contrassegno, comunemente detto bollo di circolazione, ipotesi di sicuro analoga a quella in discussione (vedi per il bollo di circolazione ex multis Cass., Sez. 5, penale, 22 settembre 1989 – 27 novembre 1989, n. 16305, *******).

Orbene in base a tali indirizzi è possibile risolvere il problema posto dal ricorrente.

In effetti il modulo F24 da utilizzare per il pagamento di contravvenzioni per irregolarità fiscali è composto da due parti sostanzialmente identiche che riportano gli estremi della contravvenzione e l’importo pagato.

Vengono entrambe le parti del documento presentate all’esattore – nel caso specifico uno sportello bancario a tanto abilitato – che segna su entrambe le parti del documento, uno diretto all’Agenzia delle entrate e l’altro rilasciato al contribuente, l’importo pagato.

Il modulo rilasciato al contribuente in effetti è del tutto conforme a quello di competenza della Agenzia delle entrate e svolge la funzione di quietanza di pagamento con funzione liberatoria del contribuente.

Il suddetto modulo, quindi, non costituisce nè atto pubblico nè certificazione amministrativa, ma attestato sul contenuto di atti, in quanto attestazione derivata dell’atto di versamento della contravvenzione, di cui riporta gli estremi essenziali.

Ne consegue che la materiale falsificazione del modello F24 integra l’ipotesi delittuosa preveduta dagli artt. 478 e 482 c.p. quando l’autore del falso, come nel caso di specie, sia un privato.

La soluzione di tale problema rende agevole affrontare le altre questioni poste dal ricorrente.

E’ infondato il primo motivo di impugnazione perchè nel caso di specie non è ravvisabile una violazione del principio di correlazione tra accusa e quanto ritenuto in sentenza.

In effetti per aversi violazione del principio di correlazione è necessario che vi sia un mutamento del fatto ravvisabile soltanto quando venga attuata una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad una incertezza sull’oggetto della imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio per di diritti della difesa (così SS.UU. penale 19 giugno 1996 – 22 ottobre 1996, n. 16, Di ********* e Cass., Sez. 4, penale, 4 febbraio 2004 – 9 aprile 2004, n. 16900, CED 229042).

Insomma il principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza mira a salvaguardare il diritto di difesa, cosicchè non va interpretato in senso formale, ma è necessario verificare in concreto se l’imputato sia stato messo effettivamente in condizioni di difendersi dalle accuse rivoltegli. Orbene nel caso di specie la condotta concreta contestata all’imputato non ha subito nessuna variazione, come si è precedentemente specificato, essendo essa, peraltro, sostanzialmente non contestata; ciò che è mutata, invece, è la qualificazione giuridica conferita al fatto, cosa che è possibile fare anche nel giudizio abbreviato.

In effetti, immutata nella sua materialità la condotta del D. P., consistita nella falsificazione materiale del modello F24, si trattava di stabilire se siffatto documento rientrasse nella categoria dei certificati o degli attestati con conseguente ravvisabilità del delitto previsto dall’art. 477 c.p. o dall’art. 478 c.p., come correttamente e ritualmente ritenuto dai giudici del merito.

E’ infondato anche il secondo motivo di impugnazione perchè se è in parte vero che la Corte territoriale nella motivazione della sentenza impugnata ha manifestato delle perplessità in ordine alla classificazione dell’atto in discussione come certificato o come attestato, è anche vero che con il dispositivo, come si è già posto in evidenza, ha confermato le statuizioni sul punto del giudice di primo grado manifestando in modo chiaro che riteneva il modello F24 un attestato e la condotta del D.P. punibile ai sensi dell’art. 478 c.p..

Le questioni dedotte con il terzo motivo di impugnazione e concernenti la qualificazione giuridica del fatto contestato al ricorrente sono già state affrontate, discusse e risolte e sulle stesse non conviene, pertanto, ritornare, salvo rilevare che le censure del ricorrente sul punto sono infondate.

Quanto al fatto che nella condotta sarebbe ravvisabile una ipotesi di truffa perpetrata dal D.P. in danno dei contribuenti che a lui si erano affidati, si può concordare con il ricorrente nel senso che una truffa era certamente ipotizzabile, ancorchè non perseguibile per mancanza di querela delle parti lese, come reato concorrente del delitto di cui all’art. 478 c.p..

Il quarto motivo di impugnazione concernente il vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica della condotta attribuita al D.P., è infondato per le ragioni esposte a proposito del secondo motivo di ricorso alle quali si rinvia.

Anche il quinto motivo di impugnazione è infondato per le ragioni già indicate a proposito del primo e del secondo motivo di impugnazione, oltre che nella parte generale della sentenza, considerazioni alle quali si rinvia.

Infondato è anche il sesto motivo di impugnazione con il quale il ricorrente si è doluto per la mancata applicazione dell’indulto.

All’imputato è stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, che, secondo l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza di legittimità, prevale sull’indulto in quanto può determinare, una volta realizzatesi le condizioni previste dalla legge, la estinzione del reato, mentre l’indulto è causa di estinzione della pena (vedi Cass., Sez. 6, penale, 7 gennaio 2000 – 2 febbraio 2000, n. 1315).

E’ vero, comunque, che secondo altro indirizzo giurisprudenziale i due benefici possono applicarsi congiuntamente svolgendo i propri effetti in tempi diversi, determinando l’indulto la estinzione della pena immediatamente, non essendo, invece, operante con la medesima tempestività la sospensione condizionale della pena (vedi Cass. Sez. 4, penale, 29 marzo 1979 – 18 giugno 1979, n. 5514).

In ogni caso non vi è alcuna lesione dei diritti dell’imputato perchè l’indulto di cui alla L. 31 luglio 2006, n. 241 può essere applicato anche nella fase esecutiva.

Per tutte le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento.

Redazione