Corte di Cassazione Penale sez. V 18/2/2008 n. 7414; Pres. Marasca G.

Redazione 18/02/08
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Motivi della decisione

F.R. – per mezzo del difensore – ricorre per cassazione contro la sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria del 9 marzo 2006 che ne ha confermato la dichiarazione di responsabilità in ordine al reato di cui alla *********., art. 216, comma 1, n. 1, perchè, quale titolare dell’omonima ditta individuale dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Reggio Calabria del 12.1.1996 nel corso degli esercizi 1991, 1992, 1993, 1994 e 1995 effettuava distrazioni dei beni dell’impresa per un ammontare complessivo di L. 3.383.804.179 in particolare: 1) nel corso dell’esercizio 1992, effettuando sistemazioni contabili formalmente riferite al disposto di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 33, ma che in realtà comportavano l’eliminazione delle seguenti attività: L. 818.864.726, per cassa (di disponibilità liquide); L. 956.993.530, per crediti verso titolare medesimo per prelievi (per conto titolare); 2) nel corso degli esercizi successivi effettuando prelevamenti non giustificati da esigenze aziendali per complessive L. 1.584.746.473 (in Reggio Calabria tra il 1991 e la data di fallimento). Il ricorrente denuncia, con il primo motivo, vizio di motivazione e violazione dell’art. 192 c.p.p. e *******., artt. 216 e 217. Deduce, in estrema sintesi ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., che, trattandosi di imprenditore individuale che risponde con tutti i beni, anche personali, l’imputato "era libero di prelevare somme da quell’unica fonte per i suoi bisogni personali senza che ciò costituisse automaticamente distrazione del patrimonio aziendale".

Egli non aveva motivo di distrarre somme aziendali, posto che il fallimento della ditta individuale avrebbe comportato il suo fallimento personale. Deduce che i prelievi sono stati utilizzati per incrementare il patrimonio personale dell’imputato o, comunque, per spese personali o familiari. Non sussiste distrazione per la presenza di un unico patrimonio facente capo alla medesima persona. Il fallito ha fornito indicazioni sufficienti circa i beni acquistati con i prelevamenti, beni che sono stati acquisiti alla massa. Il fallimento è stato chiuso con concordato fallimentare.

Deduce che sussiste l’ipotesi della bancarotta semplice anche quando i beni sono stati utilizzati per fini extraaziendali: nella specie per spese personali e familiari eccessive e per incrementare il proprio patrimonio personale.

Il dolo di arrecare pregiudizio ai creditori non può essere tratto dalla circostanza che i prelievi sono stati reiterati nel tempo.

I prelievi sono risalenti nel tempo, lontani dall’insolvenza e l’imputato non poteva rappresentarsi il pregiudizio per i creditori.

Nel 1993 ha versato più di un miliardo: sarebbe comportamento in contrasto con la volontà di distrarre. Non è configurabile il dolo eventuale nel reato di cui alla *******., art. 216, come sembra avere ritenuto la sentenza impugnata. Ciò si desume dalla L. Fall., art. 217, comma 1, n. 2, che prevede operazioni di pura sorte, spese personali eccessive e di grave imprudenza: in relazione a tali condotte il dolo di pericolo è attratto nell’orbita della bancarotta semplice.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e relativo vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’attenuante del danno di speciale tenuità *******., ex art. 219, stante l’avvenuta chiusura del fallimento con concordato. Non si è tenuto conto dell’effettiva diminuzione patrimoniale patita dai creditori.

Osserva la Corte che il ricorso non merita accoglimento.

Invero, la sentenza impugnata appare correttamente ispirata ai principi da tempo enunciati da questa Corte sia in tema di elemento oggettivo che soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Quanto al primo profilo, infatti, i giudici del merito hanno fatto esatta applicazione della regola per la quale "nel caso in cui risulti che, in epoca anteriore o prossima al fallimento, l’imprenditore abbia avuto a disposizione determinati beni, non rinvenuti all’atto della redazione dell’inventario, spetta a lui provare quale concreta destinazione quei beni (o il loro ricavato) abbiano avuto" (Sez. 5, Sentenza n. 644 del 1987 e, fra le ultime, Sez. 5, Sentenza n. 3400 del 2005). Invero, a fronte dei consistenti prelievi di somme non giustificate da finalità aziendali l’imputato si è limitato ad affermare (così come ha evidenziato la sentenza impugnata: "il F. ha indicato oralmente varie forme di reimpiego delle somme introitate che confermano l’estraneità degli impieghi all’attività dell’azienda", riferendo di spese non concretamente documentabili: sent. impugnata, pagg. 5-6) la destinazione di esse a spese personali, familiari, di estinzione di fideiussioni di una società di volley, di ristrutturazione di immobili, senza fornire alcuna specifica indicazione in proposito.

Peraltro, neppure in sede di ricorso per cassazione vengono specificamente indicati i beni nei quali sarebbero state reinvestite le ingenti somme prelevate, talchè sul punto va evidenziata la genericità della censura, come tale inammissibile. Infine, è appena il caso di ricordare che ai fini della configurabilità del delitto di cui alla *******., art. 216, è irrilevante la distanza di tempo delle condotte distrattive rispetto alla formale dichiarazione di fallimento (Sez. 5, Sentenza n. 523 del 2007. V.: Sez. 5, Sentenza n. 29896 del 2002).

Anche in relazione all’elemento soggettivo del reato la Corte di merito ha fatto puntuale applicazione del principio per il quale "il dolo generico è sufficiente a configurare l’elemento psicologico del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione. Tale dolo può essere diretto, ma anche indiretto o eventuale quando il soggetto agisce anche a costo, a rischio, di subire una perdita altamente probabile se non certa". Ne deriva che la distrazione fallimentare prevista dalla L. Fall., art. 216, n. 1, è configurabile anche a titolo di dolo eventuale nell’ipotesi in cui il fallito agisca "accettando il rischio della perdita patrimoniale e della conseguente lesione dell’interesse dei creditori ex art. 2740 cod. civ. alla garanzia del patrimonio del debitore" (Sez. 5, Sentenza n. 15850 del 1990; V. mass. n. 182121, mass. n. 178608; mass. n. 177518; mass. n. 177152; mass. n. 170343). infatti, in tema di bancarotta fraudolenta "è necessario che la condotta distrattiva, idonea a determinare uno squilibrio tra attività e passività – e cioè un pericolo per le ragioni creditorie – risulti assistita dalla consapevolezza di dare al patrimonio sociale, o ad alcune attività, una destinazione diversa rispetto alla finalità dell’impresa e di compiere atti che possano cagionare danno ai creditori: occorre cioè che l’agente, pur non perseguendo direttamente tale danno, sia quantomeno in condizione di prefigurarsi una situazione di pericolo" (Sez. 5, Sentenza n. 7555 del 2006).

Con il secondo motivo, infine, il ricorrente deduce una questione non dedotta in grado di appello e, comunque, la censura manca assolutamente di specificità, anche in relazione alle ingenti somme che risultano distratte. La censura, infine, è anche manifestamente infondata nella parte in cui non tiene conto di ciò che la valutazione del danno, ai fini della concessione o del diniego dell’attenuante di cui alla *******., art. 219, u.c., deve essere fatta con riferimento alla diminuzione patrimoniale determinata dall’azione del reo al momento della consumazione del reato, con esclusione di ogni altro elemento successivo (Sez. 5, Sentenza n. 11258 del 1984).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

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