Corte di Cassazione Penale sez. IV 30/11/2007 n. 44791; Pres. Marini L.

Redazione 30/11/07
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OSSERVA

1) La Corte d’Appello di Torino, con sentenza 15 gennaio 2007, ha parzialmente confermato – rideterminando la pena pecuniaria inflitta dal primo giudice in misura superiore al massimo ma confermando l’affermazione di responsabilità dell’imputato – la sentenza 15 aprile 2005 del Tribunale di Ivrea che aveva condannato ***** per il reato di cui all’art. 590 cod. pen. in danno di B. C.F..

Entrambi i giudici di merito hanno ritenuto in colpa l’imputato (amministratore delegato della società EATON AUTOMOTIVE della quale la persona offesa era dipendente) avendo accertato che l’infortunio era avvenuto perchè il lavoratore aveva perso l’equilibrio mentre prestava la sua attività in una pedana (dalla quale era costretto a salire e scendere in continuazione nell’esecuzione del lavoro) che, per le sue ridotte dimensioni, creava un rischio di caduta – poi in effetti verificatasi – per la necessità di salire e scendere dalla medesima in continuazione.

2) Contro la sentenza della Corte torinese ha proposto ricorso Z.E. il quale deduce un unico motivo lamentando la violazione dell’art. 2087 cod. civ.. Secondo il ricorrente non sarebbe corretto ritenere che l’art. 2087 c.c. indicato costituisca una norma di chiusura idonea a far ritenere l’esistenza di una colpa specifica in tutti i casi nei quali non risulti – come nella specie – violata alcuna norma di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

In questo modo, infatti, tutte le condotte colpose che non integrano una specifica violazione integrerebbero la colpa specifica e non vi sarebbero ipotesi di lesioni colpose perseguibili a querela previsti dall’art. 590 cod. pen., u.c..

In conclusione si chiede dunque che, esclusa l’aggravante di cui al citato u.c., art. 590 cod. pen., venga dichiarato n.d.p. per mancanza di querela.

3) Il ricorso è infondato e deve conseguentemente essere rigettato.

Va premesso che il ricorrente non contesta la sua responsabilità per il fatto che gli è stato addebitato ed in particolare che l’ipotesi di colpa ravvisata dai giudici di merito – non aver predisposto una piattaforma di lavoro più ampia che avrebbe escluso, o ridotto significativamente il rischio di caduta – abbia cagionato l’evento.

E’ inoltre indubbio che nel caso in esame, come riconosciuto da entrambe le sentenze di merito, non fosse obbligatorio l’uso delle cautele previste dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 27 perchè l’altezza della piattaforma era inferiore a mt. 1,50. Erano le modalità lavorative (continuo movimento di salita e discesa dalla piattaforma) a rendere pericolosa la situazione e ad aumentare il rischio di caduta poi effettivamente verificatasi.

I giudici hanno individuato anche il comportamento alternativo lecito (ampliamento della piattaforma) che, se posto in essere, avrebbe evitato il verificarsi dell’infortunio; e tale accorgimento, la cui necessità era stata già segnalata proprio dal lavoratore infortunato, era stato poi di fatto adottato dopo che l’infortunio era avvenuto.

4) Il problema specifico posto dal ricorrente ha trovato una soluzione nella giurisprudenza consolidata di questa Corte.

Si è infatti in più occasioni affermato che l’art. 2087 cod. civ. ha una funzione integratrice della normativa che prevede le singole misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro con la conseguenza che la responsabilità del datore di lavoro, o delle altre persone alle quali sono attribuite funzioni di protezione dell’incolumità dei lavoratori, non è esclusa dall’inesistenza di una norma specifica di cautela (Cass., sez. 3^, 26 gennaio 2005 n. 6360, *********, rv. 230855; sez. 4^, 28 settembre 1999 n. 13377, *****, rv. 215537).

L’art. 2087 c.c. si configura quindi come una norma integratrice e di chiusura della specifica normativa antinfortunistica (Cass., sez. 4^, 12 febbraio 1997 n. 3439, *******, rv. 208524) con la conseguenza che la sua contestazione rende perseguibile d’ufficio la violazione commessa (cfr. Cass., sez. 4^, 17 aprile 1996 n. 5114, ********, rv. 205196; 4 marzo 1994 n. 3495, *******, rv. 197947; 2 febbraio 1990 n. 3226, Cavilli, rv. 183582).

Questa disciplina non ha carattere di irragionevolezza come ritiene il ricorrente. E’ infatti l’art. 2087 cod. civ. che consente di prevedere un’efficace tutela contro gli infortuni derivanti da lavorazioni che l’innovazione tecnologica non consente di ritenere disciplinate da norme di prevenzione specifica e la perseguibilità d’ufficio trova, in questi casi, analoga giustificazione rispetto a quella della violazione di norme dettate per lavorazioni diverse.

D’altro canto neppure è vero che questa interpretazione renda inapplicabile la norma sulla procedibilità d’ufficio prevista dall’art. 590 cod. pen., u.c.: si pensi al caso in cui vengano individuate innovazioni tecnologiche idonee ad escludere od attenuare i rischi da infortunio. Se l’introduzione di queste nuove misure di prevenzione richiede investimenti di notevole entità di cui l’imprenditore non dispone egli potrà essere ritenuto in colpa in questo periodo intermedio ma, se ha rispettato le norme di prevenzione preesistenti, è ben difficile ritenere che si sia reso responsabile anche della violazione dell’art. 2087 cod. civ..

5) Il caso in esame presenta però un aspetto particolare che deve essere esaminato.

I giudici di merito hanno correttamente escluso l’applicabilità del D.P.R. n. 547, art. 27 già ricordato perchè la piattaforma sulla quale operava il lavoratore aveva un’altezza inferiore a mt. 1,50.

Non hanno però considerato che esiste altra norma (l’art. 8, comma 7, D.P.R. indicato) secondo cui – nel caso in cui il lavoratore è autorizzato ad accedere alle zone di pericolo (nelle quali il comma precedente ricomprende quelle in cui esistono rischi di cadute dei lavoratori) – "devono essere prese misure appropriate per proteggere i lavoratori".

Fermo dunque restando l’accertamento in fatto compiuto dai giudici di merito – che hanno ritenuto che la piattaforma costituisse una zona di pericolo – e considerando che la contestazione contenuta nel capo d’imputazione rientra pienamente nella fattispecie accertata questa Corte può (in applicazione dell’art. 615 c.p.p., comma 1) correggere la motivazione della sentenza impugnata ritenendo che il fatto accertato integri la violazione adesso ricordata.

6) Con il motivo subordinato il difensore ha in udienza chiesto che il reato ascritto al ricorrente venga dichiarato estinto per prescrizione ma anche questo motivo è infondato.

Il reato contestato all’imputato è stato commesso il 9 marzo 2000 e quindi il termine di prescrizione doveva ordinariamente maturare il 9 settembre 2007. Senonchè risulta dagli atti che il processo subì nel giudizio di primo grado davanti al Tribunale di Ivrea un rinvio su richiesta delle parti, per trattative in corso, dal 29 maggio al 30 ottobre 2003. Considerando questo periodo di sospensione del dibattimento quale periodo di sospensione del decorso della prescrizione il termine per l’estinzione del reato non è ancora, alla data odierna, interamente decorso.

E’ stato infatti affermato dalle sezioni unite di questa Corte (sentenza 28 novembre 2001 n. 1021 depositata l’11 gennaio 2002, *********) che "l’art. 159 c.p., comma 1 deve essere interpretato nel senso che la sospensione o il rinvio del procedimento o del dibattimento hanno effetti sospensivi della prescrizione, anche se l’imputato non è detenuto, in ogni caso in cui siano disposti per impedimento dell’imputato o del suo difensore ovvero su loro richiesta, salvo quando siano disposti per esigenze di acquisizione della prova o in seguito al riconoscimento di un termine a difesa".

Poichè, nel caso in esame, non si rientra in questi ultimi due casi la conseguenza già indicata è che il decorso della prescrizione, nel periodo in questione, era sospeso e che il relativo termine per l’estinzione del reato non è ad oggi ancora maturato.

7) Per le considerazioni svolte il ricorso deve essere rigettato. Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4^ penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione