Corte di Cassazione Penale sez. IV 26/1/2010 n. 3371

Redazione 26/01/10
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione
OSSERVA

Con provvedimento depositato il 19 marzo 2008 la Corte di Appello di Napoli liquidava in favore di B.I. la somma di Euro 35.000,00 a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione dalla stessa subita, per la durata di 3 giorni in carcere e 11 giorni agli arresti domiciliari; la Corte stessa perveniva al "quantum" liquidato mediante la somma di singole "voci" così precisate: Euro 707,46 per la detenzione in carcere (Euro 235,82 x 3 giorni) ed Euro 1297,01 per la detenzione domiciliare (Euro 117,91 x 11 giorni) per un totale di Euro 2.004,47; la restante somma, a ristoro delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla detenzione, avuto riguardo alla giovane età dell’interessata – trattandosi di studentessa incensurata di 18 anni – ed alle conseguenze fisiche e psichiche quali descritte nella documentazione allegata all’istanza di equa riparazione.

Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato, deducendo violazione di legge e vizio motivazionale sull’asserito rilievo che la Corte territoriale avrebbe errato nell’aggiungere all’indennizzo determinato in base al parametro aritmetico (derivante dal rapporto tra durata della detenzione e l’importo giornaliero) ulteriori Importi indennitari, riconducibili alle conseguenze personali e familiari derivate dalla detenzione, ed avrebbe reso comunque motivazione inadeguata per giustificare l’entità dell’importo liquidato alla B. in aggiunta a quello derivante dal criterio aritmetico.

Il Procuratore ******** presso questa Corte, con la sua requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso.

Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.

Deve, invero, premettersi, sotto un più generale e sistematico profilo, che questa Corte ha già avuto occasione (Sez. Un., n. 1/1995) di rilevare, che la liquidazione dell’indennizzo in questione va disancorata "da criteri o parametri rigidi" e deve, al riguardo, "procedersi con equità, valutando la durata della custodia cautelare e, non marginalmente, non in termini residuali, le conseguenze personali e familiari, derivanti dalla privazione della libertà", questa intesa non "come un dato o valore statico, ma come valore dinamico, come valore (…) indispensabile ad ognuno per sviluppare, liberamente, la propria personalità (…)"; sicchè "debbono essere valutati i due criteri di proporzionamento della riparazione, che consistono nella durata della custodia cautelare e nelle conseguenze personali e familiari derivanti dalla privazione della libertà (…)". Ne consegue che il giudice del merito deve procedere alla liquidazione dell’indennizzo, sulla base di tali parametri ed entro il tetto massimo del quantum indennizzabile, tenendo conto della durata della custodia cautelare ed apprezzando tutte le conseguenze pregiudizievoli che essa ha comportato, sotto il profilo personale, familiare, patrimoniale, morale, diretto o mediato "che sia(no) in rapporto eziologico con la ingiusta detenzione". Ed è stato, al riguardo, ulteriormente chiarito (Cass., Sez. Un., n. 24287/2001) che la liquidazione dell’indennizzo va effettuata tenendo conto del parametro aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo di cui all’art. 315 c.p.p., comma 2, e il termine massimo della custodia cautelare di cui all’art. 303 c.p.p., comma 4, lett. c), espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso in giorni, di ingiusta detenzione subita, mentre il potere di liquidazione equitativa attribuito al giudice per la soluzione del caso concreto non può mai comportare lo sfondamento del tetto massimo normativamente stabilito. Si è soggiunto che (premesso che "la delicatezza della materia e le difficoltà per l’interessato di provare nel suo preciso ammontare la lesione patita ha indotto il legislatore a non prescrivere al giudice l’adozione di rigidi parametri valutativi, lasciandogli, al contrario – s’intende, entro i confini della ragionevolezza e della coerenza – ampia libertà di apprezzamento delle circostanze del caso concreto"), "nulla vieta, però, al giudice, nell’esplicazione del suo potere discrezionale, di gestire lo spazio riconosciutogli dalla legge come ritiene più consono alle particolari caratteristiche della vicenda, procedendo, ove gli sembri che ciò possa produrre un effetto più favorevole e remunerativo, specie sul piano morale, per il richiedente, alla ideale divisione del "fondo" disponibile in più parti, in guisa da soddisfare, nel conteggio conclusivo, le diverse "voci di danno" elencate nell’art. 643 c.p.p.".

Posto, dunque, che quel criterio aritmetico sopra ricordato deve essere tenuto presente quanto meno come dato di partenza della relativa valutazione indennitaria – ponendosi esso come dato oggettivo di equità valutabile dal giudice, anche in riferimento alle modalità, più o meno afflittive, della detenzione – ove il giudice intenda sensibilmente discostarsi dalla misura dell’indennizzo in tal guisa determinabile, deve fornire adeguata motivazione idonea a dare contezza delle circostanze specificamente apprezzate, sotto il profilo personale e familiare, che a quel sensibile allontanamento abbiano condotto; motivazione che non richiede necessariamente espressioni particolareggiate – trattandosi pur sempre di una liquidazione indennitaria e non risarcitoria/equitativa – ma che, nondimeno, deve sufficientemente svolgersi in maniera, pur se sintetica, tuttavia tale da consentire il controllo di legittimità sulla logicità del convincimento espresso. Vero è, in sostanza, che la liquidazione dell’indennizzo in questione deve dal giudice essere effettuata in via equitativa; ma il giudice stesso, nell’esercitare in concreto tale potere discrezionale, deve pur sempre dare adeguata e congrua contezza della propria statuizione indicando il processo logico e valutativo seguito; e solo quando la motivazione del provvedimento dia adeguata ragione di tanto, il convincimento espresso non è suscettibile di sindacato alcuno in sede di legittimità, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). E giova sottolineare che – anche con il richiamo alle connotazioni civilistiche che pure informano l’istituto in questione – tali principi sono stati più volte affermati dalle sezioni civili di questa Suprema Corte, in tema di liquidazione equitativa del danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c. (cfr. Cass. civ., Sez. 3^, n. 8807/2001; id. Sez. 2^, n. 409/2000); considerazioni che devono ritenersi valide, in parte qua, anche in tema di indennizzo, trattandosi di valutare, nell’uno come nell’altro caso, la congruità esplicativa e logica del giudizio di equità.

Nella specie, i giudici del merito hanno ritenuto di liquidare in favore della B., in aggiunta alla somma determinata in base al mero calcolo aritmetico, una somma ulteriore, pari a circa 33.000,00 Euro, per le conseguenze personali e familiari derivate dalla detenzione – anche in considerazione della giovane età dell’istante, 18 anni, e della sua condizione di studentessa incensurata – nonchè per le conseguenze dannose subite dalla B., sul piano fisico e psichico, quali documentate anche per quel che riguarda la loro riconducibilità alla sofferta detenzione (come precisato dalla Corte territoriale); così facendo, la Corte di merito ha liquidato una somma complessiva nei limiti dell’importo massimo previsto, e non ha mancato di dare adeguatamente conto del convincimento espresso, esaminando analiticamente le singole "voci" dell’importo complessivo liquidato, come sopra ricordato: di tal che, l’impugnato provvedimento risulta esente da qualsiasi censura, ponendosi del tutto in sintonia con i principi di diritto innanzi ricordati; e ciò, con riferimento al secondo motivo di ricorso, anche per quel che riguarda la motivazione posta a base della determinazione dell’importo liquidato in aggiunta a quello derivante dal calcolo aritmetico.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente Ministero al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2009.

Redazione