Corte di Cassazione Penale sez. IV 24/4/2002 n. 15491

Redazione 24/04/02
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Integra gli estremi del reato di cui  all’art. 5, lett. b), legge 283/62 la detenzione di bottiglie di acqua mineraleall’aperto ed esposte alla luce solare.

(omissis).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il sig. G. è stato tratto a giudizio, quale direttore dell’ipermercato Euromercato (Gruppo G.S.), per avere detenuto oltre 102 mila bottiglie di acqua minerale in contenitore PET in cattivo stato di conservazione, e in particolare per aver depositato le bottiglie all’aperto ed esposte alla luce solare.

Il Tribunale ha ritenuto sussistente il reato ed ha condannato il ******* alla pena di giorni 15 di arresto e di £ 600.000 di ammenda, sostituita la pena detentiva in £ 1.125.000 di ammenda.

Avverso tale sentenza il sig. G. ha proposto appello, chiedendo l’assoluzione perché il fatto non sussiste, motivata con le medesime ragioni che saranno poste a fondamento del ricorso per cassazione.

La Corte d’Appello, infatti, con la sentenza impugnata ha respinto l’impugnazione in punto sussistenza del reato, riducendo la pena inflitta.

Con il ricorso in cassazione il sig. G. ha contestato la ricostruzione della disciplina giuridica effettuata dai giudici di merito e prospettato l’esistenza di una violazione di legge.

Afferma il ricorrente che l’art. 47 del D.M. 20/1/1927, disciplinante le modalità di conservazione delle acque minerali e posto a fondamento della fattispecie in concreto contestata al ricorrente, risulta abrogato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 25/1/1992, n. 105.

L’art. 20 del citato D.Lgs. n. 105, infatti, espressamente prevede il permanere in vigore del D.M. 20/1/1927 solo fino all’entrata in vigore dei decreti ministeriali attuativi, come da art. 2, e tali disposizioni, a parere del ricorrente, sono rappresentate dai D.M. 12/11/1992, n. 542 e 13/1/1993.

Afferma, inoltre, il ricorrente che le norme contenute nel citato D.Lgs. n. 105 non contengono disposizioni concernenti la conservazione delle acque minerali, così che deve ritenersi applicabile la normativa sui contenitori che (D.M. 22/7/1998, n. 338) proprio attraverso le caratteristiche di essi garantisce la qualità del prodotto contenuto.

Inoltre, mancando la prova scientifica e tecnica della pericolosità dell’esposizione al sole delle bottiglie di acqua minerale in PET, erroneamente i giudici avrebbero desunto tale circostanza da nozioni di esperienza comune.

Al contrario, vi sarebbe in atti prova della non dannosità dell’acqua sottoposta a sequestro, come dimostrato dal fatto che il P.M. ha disposto, a seguito dell’esito delle analisi disposte, la restituzione delle bottiglie all’avente diritto.

In conclusione, la prova della non alterazione dell’acqua minerale dovrebbe prevalere sulla norma che mira a prevenire l’alterazione del prodotto alimentare sanzionando le situazioni di pericolo.


MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso dev’essere respinto.

La Corte concorda con la radicata giurisprudenza che individua nella fattispecie dell’art. 5 lett. b) della citata legge n. 283 del 1962 un reato di pericolo che completa, quale norma di tutela anticipata e di chiusura, le diverse previsioni del medesimo art. 5 che sono riferite a ipotesi in atto di alterazione o degenerazione degli alimenti.

In tale senso si sono espresse parte significativa della dottrina, nonché plurime sentenze della Corte di cassazione, fra cui Sez. Un., sent. n. 1 del 27/11/1995- 4/1/1996, ********* (Rv. 203095).

Successivamente a tale decisione la giurisprudenza ha manifestato nuove oscillazioni (Sez. 3, sent. n. 1505 del 4/12/1997- 9/2/1998, *******, Rv. 206628).

Con recentissima decisione, le Sezioni Unite sono tornate ad occuparsi del tema, ribadendo che, in linea generale, si è in presenza di norma di pericolo, anche se potrebbe ravvisarsi l’esistenza di un ulteriore interesse protetto dalla disposizione in esame.

Sostiene, in estrema sintesi, la sentenza, che accanto alla tutela anticipata, ormai riconosciuta, della qualità dell’alimento (mediante la sanzione di modalità di conservazione potenzialmente pericolose), l’art. 5 punisce le violazioni del diritto dei consumatori all’affidamento ed alla tranquillità nei confronti del rischio di alterazione degli alimenti: nei casi di cattiva conservazione dell’alimento, e indipendentemente dall’avvenuta alterazione del prodotto, tale interesse risulterebbe oggetto non di mero pericolo, ma di vera e propria lesione diretta (Sez. Un., sent. n. 442/2002, udienza 19 dicembre 2001, *****, in corso di massimazione).

Una volta considerato l’art. 5 lett. b) della legge del 1962 quale disposizione che sanziona il mero pericolo di alterazione delle qualità del prodotto, deve concludersi per la non rilevanza di uno degli argomenti considerati centrali dal ricorrente: il contrasto asseritamente insanabile fra l’accusa odierna e la circostanza che il P.M. ebbe a dissequestrare le bottiglie d’acqua in esito alle analisi chimiche effettuate, analisi che escludevano l’alterazione del prodotto.

Si tratta di argomento che porta a conclusioni palesemente inaccettabili: applicando simile interpretazione alla materia della sicurezza sul lavoro, infatti, dovrebbe andare immune da censure il responsabile del cantiere o dell’opificio quando, pur in assenza di obbligatorie misure di cautela antinfortunistica, si accerti che in concreto nessuno dei dipendenti ha subito incidenti o riportato lesioni.

Ciò che le disposizioni in tema di sicurezza alimentare, come il citato art. 5, lett. b) intendono garantire, infatti, è che i responsabili della manipolazione e conservazione dei prodotti evitino di ricorrere a modalità inadeguate di confezionamento, trasporto, custodia, e così via.

Quale sia il bene protetto dalla norma incriminatrice lo si desume dal contenuto dello stesso art. 5 L. 283/62, poiché corrisponde a quello tutelato dalle altre fattispecie criminose in esso inserito, rispetto alle quali quella di cui alla lett. b) si pone come residuale.

Le altre contravvenzioni previste dall’art 5 hanno natura di reato di pericolo concreto e puniscono la detenzione per la vendita di sostanze alimentari che per le loro caratteristiche sono pericolose per la salute o comunque non genuine, come è dato di riscontrare nell’ipotesi criminosa prevista dalla disposizione contenuta sotto la lett. a).

Anche la contravvenzione di cui alla lett. b) mira a tutelare la genuinità e la commestibilità del prodotto alimentare ma, a differenza delle altre contravvenzioni contenute nello stesso articolo, configura un reato che è di pericolo presunto.

La norma, infatti, non richiede che la sostanza alimentare sia pericolosa quindi, perchè ricorra il cattivo stato di conservazione non occorre, come sostiene il ricorrente, che la sostanza alimentare risulti alterata.

È sufficiente che nelle modalità di conservazione del prodotto (sistemi di confezionamento, luogo di conservazione, esposizione all’aria o al sole, stivaggio, trasporto, ecc.) non sono osservate le precauzioni igienico – sanitarie dirette ad evitare che il prodotto stesso possa subire un’alterazione che ne comprometta la genuinità o la commestibilità, precauzioni che possono essere prescritte da leggi o regolamenti o che possono trovare la loro fonte in regole di comune esperienza. (Sez. III, sent. n. 9229 del 19/9- 13/10/1997, *******, Rv. 208679).

Per quanto concerne le fonti da cui ricavare le modalità di conservazione ritenute idonee, occorre prendere in esame la disposizione contenuta nell’art. 47 del citato D.M. 20/1/1927.

Il ricorrente ha sostenuto con pregevoli argomentazioni che si tratterebbe di norma ormai abrogata, essendo stati emanati i decreti attuativi previsti dall’art. 2 del D.Lgs. 25/1/1992, n. 105, con la conseguenza che avrebbe ormai piena operatività la disposizione abrogativa dell’intero D.M. 20/1/1927 contenuta nell’art. 20 del citato decreto legislativo.

A conclusioni diverse è giunta la sentenza ******* del 1997, sopra richiamata, secondo la quale va escluso che il D.Lgs n. 105 del 1992 detti disposizioni in tema di conservazione delle acque minerali, con la conseguenza che deve ritenersi che la norma di cui all’art. 47 del D.M. 20 gennaio 1927, la quale sancisce prescrizioni in tema di conservazione delle acque minerali, è tuttora in vigore perché non abrogata, ne espressamente ne implicitamente dal D.Lgs 105/92 o dal D.M. 542/92.

Sul punto si rinvia anche a Sez. III, sent. 11278 del 7/11- 30/12/1996, Francese, Rv. 207031.

Va osservato, in risposta alle critiche contenute nel ricorso verso questa conclusione adottata in giurisprudenza, che l’emanazione di successivo e diverso decreto ministeriale, non preso in esame dalla sentenza *******, non incide sulla sostanza del percorso argomentativo della sentenza stessa.

Infatti, anche il secondo decreto ministeriale (datato 13 gennaio 1993) non contiene alcuna disposizione in tema di commercializzazione e conservazione del prodotto, occupandosi esclusivamente dei termini e delle modalità di analisi delle acque minerali.

Prendendo spunto da tali elementi di valutazione, si deve oggi osservare che il decreto legislativo n. 105 del 1992, e i decreti ministeriali attuativi, hanno come oggetto e finalità la definizione e il controllo delle caratteristiche delle acque minerali, quale categoria merceologica, così da tutelare il consumatore rispetto alla natura e alle peculiarità del prodotto che acquista e consuma, natura e peculiarità che distinguono le acque minerali da tutte le altre acque comunque commestibili.

I decreti attuativi, dunque, mirano a stabilire quali debbono essere le caratteristiche delle sorgenti e della composizione perché un’acqua possa definirsi minerale, nonché le modalità con cui i campioni devono essere prelevati e analizzati, e così via.

Essi si muovono, dunque, nella scia dei numerosi provvedimenti che definiscono le caratteristiche dei prodotti soggetti a marchio di qualità e garanzia.

Nulla, invece, dicono dei diversi aspetti che concernono le modalità di confezionamento, conservazione e commercializzazione del prodotto.

Da tali considerazioni deve concludersi, in linea con le citate decisione della Corte, che la disciplina introdotta con il decreto legislativo n. 105 del 1992 abroga il decreto ministeriale del 1927 nella parte in cui le sue disposizioni sono sostitute dalla nuove, ma non ne comporta l’abrogazione nella parte non interessata dalle modifiche, quella concernente le modalità di commercializzazione e conservazione del prodotto.

Rispetto a questa conclusione che conserva atttualità all’art. 47 del decreto ministeriale del 1927 le difese hanno obiettato che nessun vuoto normativo si crea per il fatto che il decreto legislativo del 1992 e i successivi decreti ministeriali trascurano gli aspetti legati alla conservazione del prodotto, in quanto tale settore e presidiato dalla normativa in tema di qualità dei contenitori in PET (decreto 22 luglio 1998, n. 338).

Si sostiene, cioè, che l’elevata e controllata qualità dei contenitori (che debbono superare prove di sottoposizione a temperature elevate per lunghi periodi) fornisce quelle garanzie sulla conservazione del contenuto che in epoca ormai lontana dovevano essere diversamente tutelate mediante, appunto, le cautele previste dal decreto ministeriale del 1927.

L’argomento difensivo prova troppo.

È dato notorio che all’epoca dell’emanazione del citato decreto ministeriale non esisteva certo l’abitudine di far ricorso per le acque a contenitori in materiale plastico o in derivati dal petrolio, e che il contenitore più diffuso era quello in vetro.

Ed è dato altrettanto notorio che il vetro è certamente un contenitore assolutamente neutro e sicuro rispetto alla possibilità di provocare alterazioni del contenuto; assai più a rischio sono, sotto questo punto di vista, proprio i moderni contenitori, per i quali si è reso necessario fissare caratteristiche chimiche e costruttive che eliminino la possibilità di rilascio di particelle e sostanze in danno del prodotto in essi contenuto.

Una volta constatato che la normativa del 1927 con riferimento a contenitori (come quelli in vetro) non suscettibili di subire modificazioni a seguito del contatto con luce o calore disponeva ugualmente il divieto di esporre le bottiglie di acqua alla luce o al calore del sole, non può derivarsi, come invece sostiene il ricorrente, che quelle cautele sono superate oggi dalle garanzie di qualità dei contenitori in PET desumibili dal rispetto del decreto 22 luglio 1998, n. 338.

Osserva la Corte che, anche nell’ipotesi interpretativa che porta all’abrogazione dell’intero decreto ministeriale 20 gennaio 1927, permane la validità delle cautele che almeno fin da allora hanno sconsigliato di esporre per un tempo significativo le bottiglie (e i contenitori) di acqua alla luce e al calore del sole.

La prassi in tal senso instauratasi, infatti, si pone in linea con la constatazione che l’acqua non trattata e non sterilizzata, è un prodotto alimentare vivo, ed in questo consiste il val9ore alimentare e commerciale delle acque minerali; come tutti i prodotti vivi anche l’acqua è soggetta a subire modificazioni allorchè viene isolata dal suo ambiente naturale e forzata all’interno di contenitori stagni che impediscono i normali interscambi che avvengono fra l’acqua, l’aria, la luce e le altre forme di energia e che modificano le relazioni che in natura l’acqua conosce allorchè viene sottoposta ad aumento di temperatura o ad esposizione continua ai raggi del sole.

Da questo punto di vista l’acqua non può essere considerata in modo significativamente diverso da altri liquidi alimentari, quali l’olio o il vino, cui sono applicabili i principi contenuti nella sentenza delle Sezioni Unite, *****, sopra richiamata, che espressamente afferma, fra l’altro, la correttezza del richiamo alla regola di esperienza per definire cattivo uno stato di conservazione delle vivande.

Proprio la situazione di innaturalità in cui un prodotto vivo viene costretto si pone alla base della necessità di evitare modalità di conservazione e commercializzazione che favoriscano il rischio di alterazione del prodotto e delle sue caratteristiche.

Sotto questo profilo appare del tutto riduttiva la prospettazione del ricorrente che esclude la sussistenza di tale rischio guardando esclusivamente alla non alterabilità del contenitore.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

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