Corte di Cassazione Penale sez. IV 19/1/2009 n. 1866; Pres. Zecca G.

Redazione 19/01/09
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MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il Tribunale ci Genova ha affermato la responsabilità di T.G., Z.M. ed A.A., medici in servizio presso la Casa circondariale di (omissis); e ha altresì condannato il T. e la Z., in solido con il Ministero della giustizia quale responsabile civile, al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili costituite. La pronunzia è stata confermata dalla Corte d’appello di Genova.

Agli imputati è stato mosso l’addebito di non aver diagnosticato tempestivamente la tubercolosi da cui era affetta la detenuta Q. G.D.. La donna veniva solo tardivamente ricoverata presso un ospedale genovese ove decedeva nonostante le cure applicate.

I Giudici hanno ricostruito i fatti nei seguenti termini.

All’ingresso in carcere la donna veniva sottoposta al test di Mantoux, indagine di routine volta all’accertamento di eventuali patologie tubercolari, che dava esito negativo. La detenuta veniva altresì sottoposta a visita ginecologica da parte della dottoressa B., ginecologo consulente esterno del carcere, che riscontrava un ingrossamento dell’utero. Il giorno seguente la donna presentava metrorragia. Veniva quindi visitata dal medico di guardia ******** il quale ne disponeva l’immediata traduzione nel reparto di ginecologia dell’ospedale (omissis) ove si procedeva a revisione della cavità uterina. Dopo i prelievi istologici la donna veniva nuovamente tradotta in carcere.

Circa 20 giorni dopo, il 5 novembre 2001, l’anatomopatologo che aveva sottoposto ad esame i reperti istologici comunicava, alla dottoressa B. che si era in presenza di metrorragia granulomatosa verosimilmente riconducibile ad infezione tubercolare. Tale dottoressa informava la dottoressa Z. che si trovava nella Casa circondariale come medico di guardia e le suggeriva gli approfondimenti diagnostici ritenuti necessari: ripetizione del test di Mantoux, radiografia del torace, esame dell’espettorato, visita ginecologica e visita infettivologica. Tali indicazioni venivano riportate nella cartella clinica.

Gli accertamenti venivano eseguiti soltanto in parte. Si dava corso al test indicato, che questa volta dava esito positivo, ed alla radiografia del torace; che invece dava esito negativo; non alla visita infettivologica.

Nel dicembre di quell’anno il dottor A., praticava alla donna vaccinazione antinfluenzale.

Il giorno (omissis), essendo stato riscontrato aggravamento delle condizioni generali accompagnato da stato soporoso, la detenuta veniva ricoverata presso l’ospedale (omissis) ove decedeva il successivo (omissis) per meningo – encefalite di origine tubercolare.

I Giudici di merito hanno ravvisato condotte omissive degli imputati, legate eziologicamente con l’evento morte, consistite nel non aver eseguito tutti gli approfondimenti diagnostici necessari, compresa la visita infettivologica, dopo la scoperta della endometrite granulomatosa, così come annotato sul diario clinico della paziente.

L’addebito è stato ravvisato sia nei confronti, del ******** nella veste di responsabile della struttura sanitaria, sia nei confronti dei medici di guardia ******** e ******** per aver mancato di accertarsi che le indagini in questione venissero effettivamente eseguite. In particolare la dottoressa Z., dopo aver annotato nella cartella clinica le indagini da compiere, avrebbe dovuto seguire il caso ed assicurarsi che ad esse si desse effettivamente corso. Il dottor A., invece, nel corso della procedura di vaccinazione antinfluenzale, avrebbe dovuto rendersi conto della mancata esecuzione degli accertamenti richiesti.

2. Ricorrono per cassazione gli imputati, tramite i difensori.

2 – 1 Il dottor T. propone i seguenti motivi.

2.1.1. Violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla ravvisata colpa professionale. Si censura in particolare l’attribuzione di una posizione di garanzia rispetto alle scelte terapeutiche, atteso che il ricorrente non era il responsabile di un vero e proprio centro clinico all’interno della struttura penitenziaria, come erroneamente affermato in sentenza, bensì solo di una inferme ria nella quale operavano medici di guardia. Si censura altresì la ritenuta agevole diagnosticabilità della patologia, come dimostrato dalle difficoltà riscontrate dai sanitari dell’ospedale (omissis) nell’individuare le origini della patologia.

2.1.2. Violazione di legge e vizio della motivazione in ordine al nesso causale, essendo mancata la valutazione probabilistca circa l’incidenza della condotta omessa rispetto all’evento letale.

2.1.3. Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio, essendo stata inflitta una pena distante dal minimo edittale giustificata solo dalla particolare posizione di garanzia, in violazione dell’art. 133 c.p..

2.2. Il dottor A. propone due motivi.

2.2.1. Con il primo lamenta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta posizione di garanzia del medico di guardia operante in regime di collaborazione saltuaria presso una struttura penitenziaria in quanto questa, figura, come del resto accade per il medico di guardia nosocomiale, non assume la veste di garante ma è solo tenuto a visitare il paziente in caso di chiamata e, solo quando le condizioni di salute risultino gravemente compromesse, anche quello di inviare il detenuto presso un centro clinico o presso una struttura ospedaliera. Tali doveri sono stati, adempiuti.

La pronunzia, si lamenta ancora, trascura di considerare che il ricorrente svolgeva all’interno della Casa circondariale un’attività sporadica, tre pomeriggi, alla settimana, e non era quindi stabilmente inserito nella struttura sanitaria. Inoltre, egli era sottoposto ed obbligato a conformarsi, a quanto ordinato dal direttore sanitario ********, sicchè non poteva assumere iniziative autonome in mancanza di espressa delega in tal senso.

Egli, dunque, poteva eseguire solo le prestazioni del medico di guardia e non avrebbe potuto o dovuto compiere, per espressa previsione contrattuale, attività spettanti alla figura del medico incaricato ai sensi della L. n. 740 del 1970.

In ogni caso, si denunzia ancora, gli esami erano stati già ordinati, e non competeva ai ricorrente verificarne l’esecuzione:

competenza che rientrava nella sfera di responsabilità di chi aveva indicato le indagini. Tale compito di verifica non competeva neppure nell’ambito dell’esecuzione della vaccinazione antinfluenzale, non avendo tale isolata attività alcuna connessione con l’attività terapeutica demandata ai sanitari stabilmente operanti nell’istituto, che costituiscono il vero perno dell’organizzazione sanitaria interna ed il supporto clinico per i detenuti.

2.2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge per la mancata analisi della disciplina di settore (la L. 9 ottobre 1970, n. 740) che, nell’ambito dell’organizzazione sanitaria penitenziaria, individua due figure: quella del medico incaricato e quella del medico di guardia. Si è trascurato che il medico di guardia presta, la sua opera "in osservanza delle disposizioni impartite dal dirigente sanitario o dall’autorità amministrativa dirigente l’istituto". Il ricorrente ha eseguito tutte le disposizioni ricevute, visitando due voi te la detenuta ed in ambedue le occasioni disponendo il ricovero; ed ha inoltre eseguito la vaccinazione come da disposizione ricevuta. In conclusione, si assume, il ricorrente non ha mai assunto la posizione di garanzia.

2.2.3 Il difensore dell’ A. ha presentato motivi aggiunti.

Si è rimarcato che la prima visita della detenuta, all’atto del suo ingresso nella Casa circondariale, non ha generato una posizione di garanzia "perpetua"; tanto più che l’atto medico in questione venne compiuto correttamente. Quanto alla somministrazione dei vaccino, il relativo obbligo di protezione non può estendersi a tutte le patologie di cui la donna fosse affetta. Un obbligo di tale genere non era esigibile, considerato anche che la donna aveva superato i problemi iniziali od era curata da diversi sanitari in servizio presso l’istituto di custodia. Il suo ruolo non consentiva all’ A. di sindacare le scelte terapeutiche compiute da altri medici, non evidenziandosi segni significativi di erroneità del percorso terapeutico. In ogni caso, l’esame della cartella clinica evidenziava che tutte le patologie da cui la donna era inizialmente affetta erano state opportunamente monitorate e controllate.

2.3 Z.E. ricorre con distinti atti presentati dai difensori.

2.3.1. Uno dei difensori lamenta vizio della motivazione per quanto attiene alla supposta posizione di garanzia assunta dell’imputata.

Infatti la ricorrente si è limitata ad annotare le prescrizioni dettate dalla dottoressa B. che aveva in cura la detenuta;

non ha mai visitato la paziente; era incaricata delle visite dei soli detenuti maschi; intratteneva con la organizzazione penitenziaria un servizio part-time; non ha mai ricevuto in affidamento dal capo del servizio la cura della ridetta detenuta. Il precedente di legittimità citato dalla Corte territoriale è inconferente, in quanto relativo a situazione completamente diversa nella quale, peraltro si è pervenuti a pronunzia favorevole nei confronti di un medico che si era limitato a visitare una sola volta il paziente.

2.3.2 L’altro difensore ripropone la medesima questione sottolineando che i sanitari addetti al servizio di guardia medica agiscono con orari di servizio predeterminati e con competenze predefinite.

Inoltre l’infermeria, a capo della quale è posto un sanitario coordinatore responsabile, è funzionale unicamente ad assicurare ai reclusi un servizio di guardia medica per parte della giornata. Il medico di guardia, in conseguenza, è responsabile solo in relazione ai compiti assegnatigli. Alla ricorrente era riservato il trattamento dei reclusi maschi; prestava normalmente servizio solo due volte alla settimana; non ha mai visitato la detenuta; ha provveduto ad annotare sul diario clinico quanto richiestole dalla collega ginecologo. Per contro, la vittima è stata ripetutamente visitata, nel corso della detenzione, da altri sanitari e particolarmente dal ginecologo indicato, anche dopo che era stata annotata la necessità di compiere le indagini diagnostiche in questione.

Si rimarca particolarmente che la ricorrente ha correttamente indicato in cartella clinica le indagini da compiere per verificare l’esistenza della patologia ipotizzata a seguito degli esami istologici; ed ha inoltre tempestivamente informato la stessa detenuta. Si è mancato di considerare, si afferma, che tutte le richieste di visita avanzate dai medici di guardia passano al vaglio del coordinatore sanitario che compie una valutazione caso per caso, accordando o negando la loro esecuzione.

Si prospetta, ancora, che comunque nella situazione data si era in presenza di un quadro complesso che non rendeva agevole una diagnosi, come dimostrato dalle difficoltà incontrate dai sanitari del nosocomio presso il quale la detenuta venne infine ricoverata.

2.4. Le parti civili, ed il responsabile civile hanno presentato memorie.

3. Il ricorso proposto dal T. è manifestamente infondato.

Sono invece fondati gli altri ricorsi.

La sentenza impugnata, dopo aver sintetizzato i ratti, nei termini sopra descritti, ha rimarcato che la detenuta presentava già al suo ingresso in carcere un sintomo preciso di infezione tubercolare, costituito da endometrite granulomatosa. La situazione divenne maggiormente chiara quando vennero comunicati al carcere gli esiti, dell’esame citologico. Anche a non voler accedere alla tesi, del consulente dell’accusa, secondo cui la patologia in questione trova la sua unica causa in una infezione tubercolare, è comunque certo che gli approfondimenti, richiesti e segnati in cartella clinica riguardavano esclusivamente la possibilità di un’infezione tubercolare. Quando poi il secondo test di ******* diede esito positivo e venne riportato con caratteri rossi sul diario clinico si aveva un quadro significativo che necessitava solo di una visita infettivologica per trovare la sua conferma definitiva. Si era dunque in una situazione in cui non si presentava alcuna difficoltà diagnostica. In particolare la negatività dell’indagine radiologica ai torace era priva di significatività poichè l’infezione tubercolare può riguardare, come nel caso di specie, organi diversi dal polmone.

Una visita infettivologica tempestiva, come riferito in dibattimento dallo specialista infettivologo, avrebbe consentito di avviare una terapia contro la infezione tubercolare con una prospettiva di pressochè certa guarigione: valutazione – si assume – non contrastata, da alcuno dei ricorrenti.

Si versa quindi, secondo la Corte d’appello, in una situazione di clamorosa omissione di approfondimenti diagnostici in relazione alla quale viene in primo luogo chiamato a rispondere il T. nella veste di responsabile del servizio sanitario del carcere, per un addebito colposo di imperizia e negligenza. Nè rilevano in suo favore eventuali errori commessi anche da altri sanitari. Egli, nella veste di responsabile del centro, era tenuto a garantire con la sua struttura la corretta terapia in una situazione nella quale non si evidenziavano speciali difficoltà. Le deduzioni circa le difficoltà di diagnosi riscontrate dal personale dell’ospedale (omissis) sono palesemente infondate poichè non tengono conto dei fatto che tali medici, al momento del ricovero, non erano al corrente della storia clinica della paziente o comunque non la presero in esame.

Per ciò che attiene alla determinazione della pena, la Corte reputa giustificato lo scostamento dal minimo edittale in considerazione del grado della colpa che viene ritenuto non trascurabile, anche in considerazione del fatto che l’addebito viene mosso una situazione in cui la paziente non era libera di determinarsi ma, per la sua condizione, era costretta ad accettare il trattamento terapeutico dei medici in servizio presso la struttura penitenziaria.

Tale diffusa argomentazione è palesemente immune dalle censure proposte. L’imputato era il responsabile della funzione sanitaria all’interno della Casa circondariale e dunque su di lui gravava senza dubbio un pregnante obbligo di garanzia. In particolare la Corte spiega con ricchezza di argomenti anche tecnici che gli esami istologici e l’esito positivo del test di ******* creavano una stretta se non esclusiva relazione tra l’endometrite e l’affezione tubercolare. Dunque, la mancata percezione di tale relazione, peraltro già segnalata dall’istologo e riportata nella cartella medica, e la conseguente mancata esecuzione di una visita infettivologica, configura colpa per imperizia e negligenza come correttamente ritenuto dalla Corte d’appello.

Pure del tutto priva di pregio è la deduzione sul nesso causale.

Infatti, contrariamente a quanto assunto dal ricorrente, la Corte, anche sulla base delle valutazioni espresse dall’infettivologo, perviene all’argomentata conclusione che una tempestiva diagnosi ed un’altrettanto tempestiva terapia avrebbe con ragionevole certezza condotto alla guarigione (pag. 11).

Infine, pure priva fondamento è la censura inerente all’entità della pena: il Giudice di merito, con apprezzamento immune da vizi logici e non sindacabile nella presente sede di legittimità, considera la gravità della colpa connessa anche al fatto che la vittima era in stato di detenzione e poteva quindi contare, senza possibilità di scelta, solo sulle cure fornite dall’amministrazione penitenziaria, che avrebbe dovuto quindi essere improntate alla massima attenzione.

4. Il ricorso proposto dai dottori A. e Z. è fondato.

Per ciò che riguarda la dottoressa Z., la pronunzia contesta la tesi difensiva che viene ritenuta tesa a scindere impropriamente singoli momenti della vicenda esaminandoli separatamente. L’imputata, si afferma, fu colei che ricevette la telefonata che comunicava l’esito dell’esame istologico, annotò sulla cartella clinica la richiesta di accertamenti diagnostici in relazione alla infezione tubercolare ed aveva quindi il preciso ed inderogabile dovere giuridico di controllare che gli accertamenti diagnostici disposti e soprattutto la visita infettivologica fossero effettivamente eseguiti. Viene invocata a sostegno di tale assunto la pronunzia di legittimità del 28 ottobre 2004, n. 46586 relativa al sorgere della posizione di garanzia per effetto della instaurazione della relazione terapeutica. Tale posizione di garanzia rende il sanitario responsabile delle condotte colpose che abbiano cagionato una lesione. Il rapporto terapeutico, secondo la Corte d’appello, si instaurò nel momento in cui il sanitario riceve le notizie sull’analisi istologica e prescrisse gli accertamenti diagnostici ulteriori e ciò imponeva alla ricorrente il controllo in relazione a quanto disposto ed indicato in cartella clinica.

Per ciò che riguarda la posizione del dottor A. la pronunzia mette in evidenza le ripetute visite della paziente; ma focalizza l’argomentazione sulla somministrazione del vaccino antinfluenzale. A tale riguardo viene confutata la tesi, difensiva secondo cui si fosse in presenza di un atto medico di routine. Al contrario, conoscendo la condizione della donna, il sanitario, prima di somministrare il vaccino, avrebbe dovuto leggere attentamente il diario clinico e valutare la condizione della paziente, constatando la mancata esecuzione della visita infettivologica di cui si discute.

Anche nei suoi confronti quindi, si configurava la funzione di garanzia della vita che lo rende responsabile delle condotte colpose lesive.

La sentenza, dunque, parte dall’assunto corretto che l’instaurazione della relazione terapeutica crei la cosiddetta posizione di garanzia ed il conseguente obbligo di agire a tutela dei la salute e della vita, cosi fondando la responsabilità per omissione (a tale indiscusso principio si riferisce la pronunzia di legittimità citata nella sentenza). Essa, però, conferisce a tale obbligo una dimensione astratta ed irrealistica, quasi che l’obbligo in questione abbia sempre un’estensione illimitata. Tale impostazione, finendo con pretendere dall’agente anche prestazioni, professionali, non dovute o non possibili e comunque radicalmente estranee all’ambito dell’obbligazione assunta, rischia di vulnerare il carattere personale della responsabilità penale ed il principio di colpevolezza. Oltre a ciò, la pronunzia sembra basare l’addebito colposo solo sulla posizione di garanzia, trascurando che essa rileva esclusivamente per rendere possibile l’imputazione del fatto quando si sia in presenza di condotta emissiva, ai sensi dell’art. 40 cpv c.p.; ed opera quindi sul piano del fatto, della tipicità oggettiva.

L’itinerario che conduce alla responsabilità colpevole richiede altresì la presenza di una condotta concretamente colposa, dotata di ruolo eziologico nella spiegazione dell’evento lesivo.

In realtà l’obbligo in questione, come tutte le posizioni giuridiche soggettive, riveste in ciascuna fattispecie concreta una specifica dimensione che il Giudice, nella ricerca delle reali responsabilità, deve preliminarmente definire.

Per esemplificare banalmente, non è dubbio che una visita ambulatoriale per un’affezione dermatologica implichi una sfera di responsabilità afferente a quello specifico contesto e quindi solo in relazione all’adempimento della, prestazione personale richiesta (pur intesa nella sua massima latitudine) potrà eventualmente configurarsi penale responsabilità per omissione. Ben diversamente, nel caso di ricovero presso una struttura, ospedaliere per un complesso intervento di alta chirurgia, si determinerà il sorgere di un obbligo di ben maggiore estensione che, tuttavia graverà in guisa differente su diversi soggetti, portatori di distinte sfere di competenza specialistica e differenti poteri nell’organizzazione gerarchica della struttura.

Proprio l’esigenza di arginare l’indiscriminata, impropria estensione dello strumento penale, l’ordinamento ha da tempo individuato figure e principi che tendono a definire le sfere di responsabilità professionale o di altro genere, così limitando il possibile ambito della connessa penale responsabilità di ciascun agente: si pensi ai principi di autoresponsabilità, di affidamento, di gerarchia, in effetti è razionale che ciascuno possa essere chiamato a rispondere solo per le prestazioni che appaiano esigibili sia per la sua sfera di competenza specialistica, sia per il livello di maturazione del suo percorso professionale, sia ancora per il ruolo esercitato all’interno di un’organizzazione la definizione di tali sfere di competenza e responsabilità all’interno di organizzazioni complesse può configurare, in alcuni casi, l’esclusione della responsabilità penale già sul piano della tipicità oggettiva, ancor prima che su quello della colpevolezza, particolarmente quando esista una figura dotata di autonoma, esclusiva competenza nella gestione di un rischio. Nella maggior parte dei casi, però, le questioni di cui si parla rilevano ai fini della configurazione della colpa.

Dunque l’analisi delle competenze specialistiche specifiche e della concreta organizzazione gerarchica costituisce l’itinerario corretto per impostare il problema cruciale della responsabilità colpevole, particolarmente quando l’illecito si colloca all’interno di organizzazioni complesse. Si tratta, del resto, di linee guida che stanno alla base della più qualificata letteratura in materia; e che compaiono altresì, talvolta in modo inespresso, nella giurisprudenza.

Il caso in esame, anche alla luce delle convergenti deduzioni critiche dei ricorrenti, pone questioni inerenti all’organizzazione ed alla gerarchia all’interno della struttura sanitaria della Casa circondariale.

Il tema della relazione di autorità all’interno delle istituzioni sanitarie è stato più volte messo a fuoco dalla giurisprudenza di questa Suprema corte soprattutto nell’ambito del rapporto tra il primario ed i suoi collaboratori. La materia è particolarmente interessante, poichè vi si intrecciano diversi aspetti. Da una parte, infatti, vi è la necessità di assicurare che la gestione dei malati e più in generale l’organizzazione del servizio siano sottratti all’anarchismo scientifico ed all’inefficienza. Da questo punto di vista è stato valorizzato il ruolo dei primario che, alla fine, si impone anche per ciò che riguarda le decisioni più squisitamente scientifiche quali la definizione della diagnosi e l’individuazione delle terapie. D’altra parte, però, si è pure avuto modo di evidenziare l’importanza dei beni della vita e della salute e la necessità, quindi, che la cura dei malati determini l’attivo, dialettico coinvolgimento di tutti i soggetti deputati alla cura. In conseguenza, il medico con un ruolo subordinato non è esonerato da responsabilità se non mettendo in gioco il suo sapere scientifico, la sua diligente attenzione; se del caso anche dialetticamente e criticamente rispetto alle valutazioni di altri medici anche se posti in posizione gerarchicamente sovraordinata.

La richiamata giurisprudenza ha valorizzato fortemente il ruolo dei dirigente del reparto affermando che costui ha compili di indirizzo, di direzione e di verifica dell’attività diagnostica terapeutica; e gli spettano quindi le scelte operative pertinenti alla condizione nosologica del paziente. Ciò tuttavia non significa che il medico subalterno, magari all’inizio del suo percorso professionale possa attenersi ad un atteggiamento veramente passivo ed acritico.

Enunciazione da condividere, pur con la precisazione che, ai fini della configurazione della colpa occorrerà considerare anche la minore esperienza e la inferiore qualificazione professionale.

Tale giurisprudenza, peraltro, si era formata precipuamente sulla base del D.P.R. n. 761 del 1979, che, come è noto, configurava un sistema di gerarchia ospedaliera basato sulle figure del primario, dell’aiuto e dell’assistente. Il sistema è radicalmente mutato per effetto del D.Lgs. n. 220 del 1999, e delle successive modifiche normative che hanno alterato l’indicato sistema di gerarchia, configurando un unico ruolo di dirigenza sanitaria con distinti profili professionali. Naturalmente non è questa la sede per approfondimenti sui mutamenti normativi in questione e sugli effetti che ne derivano. Ciò che occorre invece rilevare è che l’organizzazione e la gerarchia di ciascuna struttura sanitaria nella quale si riscontra l’agire coordinato di diversi professionisti è di cruciale rilievo per risolvere problemi come quello posto dalle giudizio in esame. Da questo punto di vista appaiono particolarmente pertinenti le osservazioni critiche dei ricorrenti che da un lato prospettano dettagli dell’organizzazione del servizio all’interno della Casa circondariale, tentando di delineare le figure del medico responsabile, del medico di guardia e del consulente esterno; e dall’altro chiamano in causa il particolare regime giuridico del servizio sanitario all’interno dell’organizzazione penitenziaria, evocando anche la disciplina di settore.

A tale riguardo, in effetti la pronunzia tace completamente.

Essa, se letta con attenzione allo scopo di coglierne il senso complessivo, mostra altresì una incoerenza interna che sarà indicata in dettaglio nel prosieguo.

Occorre in primo luogo considerare che la Corte territoriale, dopo aver enunciato nei termini irrealistici che si sono visti la portata dell’obbligo di garanzia quale fonte esclusiva della responsabilità, ha finito con il non attenervisi completamente andando alla ricerca, per ciascuno dei ricorrenti, di uno specifico atto medico in relazione al quale radicare l’addebito colposo che, nel suo nucleo essenziale, riguarda la negligenza consistita nel non adoperarsi affinchè gli approfondimenti diagnostici richiesti (ed in particolare la visita infettivologica) avessero effettivamente luogo.

Vengono quindi in considerazione le annotazioni della dottoressa Z. in cartella clinica e la vaccinazione influenzale compiuta dal dottor A..

Tale approccio sembra partire dall’implicito presupposto che il mancato compimento della, cruciale visita infettivologica sia stato il frutto di deplorevole trascuratezza. Se così è (il tenore dell’argomentazione sembra non lasciare dubbi al riguardo), si configura un importante errore fattuale che trascina con sè un errore logico – giuridico, infatti, nel corso della motivazione la Corte d’appello da conto della tesi difensiva del dott. T., secondo cui l’esito negativo del primo test di Mantoux doveva ritenersi decisivo per escludere l’infezione tubercolare e gli ulteriori accertamenti erano solo uno scrupolo mentale. Fu per questo motivo che egli ritenne non necessaria la visita infettivologica e valutò l’esito del secondo test Mantoux come un "falso positivo".

Dunque la pronunzia sembra dare per scontato che il mancato compimento della visita infettivologica non fu conseguenza di mera trascuratezza o dimenticanza, bensì di una deliberata opzione diagnostica frutto di colpa, per imperizia, in consonanza con quanto ritenuto dai primo Giudice.

Se dunque l’omissione della visita infettivologica ridetta fu il frutto di una errata valutazione scientifica compiuta dal responsabile della struttura sanitaria, l’addebito che può essere mosso ai due ricorrenti non è quello di non aver rimediato all’altrui dimenticanza o trascuratezza, ma quello di non aver sindacato le scelte diagnostiche deliberatamente compiute dal medico di vertice della struttura: di qui l’errore logico – giuridico cui si è fatto sopra cenno.

Dunque, appare con tutta evidenza la necessità di comprendere quale fosse la relazione gerarchica tra il sanitario dirigente ******** ed i medici di guardia. Si tratta in particolare di valutare la tesi difensiva, prospettata con insistenza, secondo cui i medici di guardia sono chiamati a svolgere attività episodiche e contingenti, mentre l’unità, la continuità, la coerenza delle scelte diagnostiche e terapeutiche sarebbe affidata ai soggetto responsabile della stessa struttura e/o ad altri sanitari eventualmente stabilmente incardinati nella struttura stessa.

All’interno di tale questione occorre altresì comprendere, in particolare, quale fosse la natura della attività compiuta dalla dottoressa Z.; se si trattasse cioè di una mera proposta per così dire istruttoria, destinata ad essere vagliata dal responsabile della struttura, unico soggetto portatore di poteri decisori quanto alle scelte diagnostiche o terapeutiche; o se invece si trattasse di atto dotato di propria autonomia e chiamato a confrontarsi con le valutazioni di altri sanitari.

Risulta altresì chiaramente altra questione, pure evocata dai ricorrenti e sulla quale non si rinviene nella pronunzia alcun accenno chiarificatore. Non risulta, infatti, se la struttura sanitaria in questione prevedesse l’affidamento di specifici detenuti a medici determinati.

Su tutte tali questioni la pronunzia reca uri vuoto che rende radicalmente carente la motivazione. I riflessi di tale carenza appaiono evidenti e decisivi. Quanto alla posizione della dottoressa Z. è emerso che il sanitario, ricevute le informazioni in ordine all’esame istologico, accogliendo anche i suggerimenti del ginecologo che ne riferiva per telefono, ha diligentemente annotato ogni cosa sul diario clinico ed ha indicato le indagini diagnostiche da compiere; ed ha inoltre personalmente avvertito la paziente, dando così prova di aver inteso l’importanza e la gravità della situazione. In un tale contesto, se la decisione in ordine ai ripetutamente richiamati atti diagnostici da compiere fosse affidata esclusivamente ala sfera di responsabilità del medico coordinatore ********, apparirebbe adempiuto il dovere professionale della ricorrente, nella veste di medico subalterno, di prospettare il proprio punto di vista affinchè venisse valutato dall’unico titolare dei potere decisionale. Apparirebbe cioè adempiuto l’obbligo di coinvolgimento dialettico cui sopra si è fatto un generale cenno.

Diversa potrebbe invece rivelarsi la sfera dell’irresponsabilità nel caso in cui in altra guisa si atteggi la relazione tra medico di guardia e medico coordinatore; o se quest’ultimo avesse comunque in concreto affidato la paziente in questione alla cura esclusiva della ricorrente Z. o di altri sanitari.

Discorso sostanzialmente sovrapponiti le si propone per il dottor A.. Da un lato non emerge se la scelta di sottoporre a vaccinazione antinfluenzale la detenuta in questione fosse stata già assunta dal sanitario responsabile di struttura o fosse affidata alla valutazione del ricorrente. Dall’altro, si pone per tale ricorrente lo stesso problema evidenziato per la Z.: quello cioè di comprendere se a costui competesse un autonomo potere di sindacare attivamente scelte diagnostiche compiute dal soggetto di vertice dell’organizzazione sanitaria.

In breve, conclusivamente, alla luce delle indicate carenze motivazionali la pronunzia va annullata con rinvio alla Corte d’appello. Il Giudice di merito, anche alla luce delle categorie definite dalla L. n. 9 ottobre 1970, (medico dirigente, medico incaricato, medico di guardia, medico specialista in convenzione) dovrà appurare quale fosse l’organizzazione della struttura sanitaria in questione; quali, fossero in concreto i ruoli, i poteri, le sfere di competenza dei sanitari coinvolti nella vicenda anche in rapporto alla specifica paziente. Ed alla luce di tali acquisizioni dovrà valutare se le condotte di cui si discute siano soggettivamente rimproverabili alla luce dei principi, generali, sopra indicati.

La Corte d’appello vorrà pure provvedere in ordine alle spese per questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso di T. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè al pagamento della somma di Euro 1.000,00, in favore della Cassa delle ammende.

Annulla con rinvio le statuizioni della sentenza impugnata relative a Z.M. e A.A. e manda alla Corte d’appello di Genova, altra sezione, per nuovo esame; rimettendo al definitivo di merito il governo delle spese per i due ricorrenti detti.

Condanna T.G. al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in Euro 1.800,00, oltre IVA, CPA e spese generali secondo legge per V.G.Q.G.; ed in Euro 1.500,00, oltre IVA, CPA e spese generali per G. Q. in favore dell’Erario.

Redazione