Corte di Cassazione Penale sez. IV 18/5/2006 n. 16995

Redazione 18/05/06
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(omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con l’impugnata sentenza del 26 febbraio 2004, la Corte d’Appello di Bari ha confermato la sentenza del Tribunale di Trani, sezione staccata di Barletta, del 12.12.02, che aveva affermato la penale responsabilità del dott. L.A. in ordine al delitto previsto dall’art. 589 c.p., comma 3, per avere, quale ginecologo in servizio presso il reparto ginecologia ed ostetricia dell’ospedale di Barletta, cagionato la morte di B.G., avvenuta nella prima mattina del 29.12.98, nel corso del travaglio del parto, per asfissia acuta intrauterina, ed inoltre della partoriente R.S., avvenuta poche ore dopo, per arresto cardiocircolatorio da shock ipovolemico conseguente ad emorragia genitale abnorme verificatasi dopo il parto.
La Corte barese, nel confermare l’affermazione di responsabilità dell’imputato e le conseguenti statuizioni risarcitorie in favore della parte civile, ha tuttavia ridotto la pena inflitta dal primo giudice, con le generiche già da questo riconosciute, ad un anno e due mesi di reclusione.
I giudici del merito, dunque, sulla scorta delle testimonianze acquisite e dei risultati delle consulenze tecniche in atti, provenienti da esperti nominati dal PM, dall’imputato e dalla parte civile, hanno ritenuto il dott. L. responsabile del decesso sia del piccolo B. sia della madre. Nel primo caso, i profili di responsabilità sono stati individuati nella negligente ed imperita condotta dell’imputato che, pur in presenza di evidenti segni di sofferenza fetale, evidenziata dalla cardiotocografia, ingenerata da una patologia vascolare e probabilmente determinata dalla presenza di un cotiledone (cioè di un frammento della placenta) succenturiato, non ha ritenuto di intervenire prontamente, praticando il parto cesareo, unico intervento che avrebbe salvato il bambino, ovvero ricorrendo a farmaci per accelerare il parto. Nel caso della donna, invece, elementi di grave responsabilità, dovuti ancora a negligenza ed imperizia, sono stati individuati nell’avere il sanitario omesso di intervenire, in maniera adeguata e tempestiva, ai primi segni di un’emorragia manifestatasi dopo il parto e divenuta, via via, imponente. Hanno segnalato i giudici dell’impugnazione che la presenza, all’interno dell’utero, del cotiledone della placenta, che ha determinato l’emorragia e la morte della donna, non aveva trovato nel dott. L. adeguata risposta terapeutica, non avendo egli adottato i rimedi più appropriati per l’asportazione di quel frammento e non essendo prontamente intervenuto con l’infusione di plasma, né con la somministrazione di medicinali ad effetto coagulante, né con un tamponamento intrauterino, né era stata eseguita l’isterectomia. Hanno ritenuto, in conclusione, quei giudici che il sanitario non avesse in alcun modo seguito i protocolli medici previsti per casi simili e che proprio la condotta del sanitario aveva determinato, dopo circa tre ore di sostanziale inerzia, il precipitare della situazione e la morte della donna.
Nella sentenza impugnata i giudici hanno anche affrontato talune questioni, apparse rilevanti ed oggetto di contestazione tra le parti. Essi hanno, quindi, proceduto all’esame degli orari riportati nella cartella clinica e in altro documento acquisito agli atti, giungendo alla conclusione, sulla scorta di quanto emerso dall’esame di alcuni testi e di argomentazioni di natura logica, che l’annotazione nella cartella delle ore 3,50, quale momento della nascita del bambino, già morto, doveva ritenersi falsa, poiché detto orario doveva individuarsi nelle ore 4,50. Ancora, essi hanno ritenuto sospetto l’orario delle ore 5,30, indicato nella richiesta di plasma alla banca del sangue, posto che detta richiesta risultava pervenuta a destinazione alle ore 7,30. Altra questione affrontata è stata quella della confessione religiosa della R. che, in quanto testimone di geova, aveva vietato qualsiasi tipo di intervento medico che prevedesse infusione di sangue. A tale proposito, la corte territoriale ha rilevato come l’appartenenza religiosa della donna fosse stata segnalata dal marito che aveva consegnato ad un’infermiera un tesserino, a presumibile firma della paziente, nel quale costei rivelava, appunto, le proprie convinzioni religiose e vietava interventi trasfusionali anche in caso di pericolo di vita. Segnalazione che è stata ritenuta dai giudici irrilevante atteso lo stato d’incoscienza della donna, che aveva privato quella decisione del necessario requisito dell’attualità del dissenso. Lo stato d’incoscienza, peraltro, hanno sostenuto i giudici dell’impugnazione, non aveva consentito alla donna di essere correttamente informata della situazione e della necessità della trasfusione.
Avverso tale sentenza propone ricorso, dunque, il dott. L. che deduce:
A) inosservanza ed erronea applicazione di norme di legge, specificamente degli artt. 42, 43, 40, 41 c.p. e art. 2236 c.c. Quanto al decesso del piccolo B., rileva il ricorrente, i giudici del merito avrebbero disapplicato i criteri ordinali di accertamento della colpa professionale, che non può prescindere dalla concreta prevedibilità dell’evento (nell’ambito di un corretto impiego delle nozioni scientifiche e delle tecniche d’indagine) nonché dalla evitabilità dell’evento lesivo (nel quadro di un intervento diagnostico ed operativo idoneo ad interrompere la serie causale infausta). Nel caso di specie, sostiene ancora il ricorrente, l’anamnesi ed il decorso della gravidanza della R. non avevano manifestato segnali premonitori di una situazione patologica, così come gli esami strumentali non avevano evidenziato segnali di sofferenza fetale. Gli stessi consulenti non sarebbero riusciti ad identificare con la necessaria sicurezza la causa della morte del piccolo B., essendo giunti, solo attraverso un procedimento induttivo, ad ipotizzare che l’elemento scatenante dell’iposia dovesse identificarsi nella presenza di un cotiledone succenturiato, cioè posto all’esterno della placenta. Presenza che gli stessi consulenti hanno segnalato esser eccezionale, non rilevabile e non diagnosticabile, e che si manifesta solo nella fase terminale del parto, cioè nel momento in cui nulla è più possibile fare per salvare il bambino. Quanto alla morte di R.S., il ricorrente, dopo avere segnalato le contraddizioni dei giudici del merito, laddove essi hanno individuato il momento della nascita del bambino dapprima nelle ore 4,50, per dimostrare il difetto di monitoraggio del travaglio di parto, quindi nelle ore 3,45, per dimostrare la negligenza dell’imputato nell’intervenire sulla madre, rileva che nessuna omissione può attribuirsi all’imputato, né imperizia nell’operazione di raschiamento, in vista del forte radicamento del cotiledone; né lo si può accusare di non essere intervenuto chirurgicamente, posto che l’intervento avrebbe dovuto esser preceduto dal recupero delle condizioni generali di equilibrio emodinamico della paziente attraverso opportune trasfusioni. Con riguardo alla donna, peraltro, sostiene ancora il ricorrente, s’intreccia il tema del consenso informato alla trasfusione da parte di chi, per convinzioni religiose, rifiuti detta terapia. Tema del tutto trascurato dai giudici del merito che non hanno ritenuto di attribuire rilevanza discriminante al dissenso rispetto alla terapia trasfusionale;
B) Inosservanza di norme processuali, specificamente dell’art. 546 c.p.p., lett. e), art. 603 c.p.p., commi 1 e 4, artt. 190, 191 bis, 495, 187, 220 c.p.p. e segg., per non avere la corte territoriale accolto la richiesta di perizia, ritenuta necessaria a fronte delle diverse conclusioni alle quali sono pervenuti i consulenti dell’imputato rispetto a quelli del PM e della parte civile; nel caso di specie detta corte ha ritenuto di aderire alle posizioni dei consulenti dell’accusa, senza tuttavia considerare ed adeguatamente contrastare le osservazioni ed i rilievi mossi dal consulente dell’imputato;
C) Violazione di norme penali, specificamente degli artt. 62 bis, 133, 69, 81 c.p., per avere la corte territoriale, nel determinare la pena, omesso di prendere in considerazione i parametri di cui all’art. 133 c.p. e la personalità dell’imputato.
Conclude, quindi, il ricorrente, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è parzialmente fondato.
In tema di responsabilità omissiva per colpa professionale medica e di nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento lesivo, l’interpretazione giurisprudenziale appare caratterizzata da notevole e costante evoluzione. Negli ultimi anni, in particolare, la Corte di legittimità ha basato il giudizio di responsabilità sul criterio probabilistico/statistico, spaziando tra la tesi di chi riteneva che ai fini di tale giudizio, fosse sufficiente accertare che l’intervento omesso dal sanitario avesse “serie ed apprezzabili probabilità di successo”, e la tesi di chi sosteneva che il criterio della semplice “probabilità” non fosse sufficiente e che fosse, invece, necessario accertare che il comportamento, doveroso, ma omesso, avesse un “alto grado di probabilità” di successo; intesa, tale espressione, nel senso che vi dovesse essere una probabilità molto accentuata, per taluno confinante con la certezza. In seguito, tale criterio è stato posto in discussione da chi ne ha rilevato l’insufficienza sostenendo che, se da un lato un’alta percentuale statistica potrebbe essere ridimensionata dalla presenza di altra e diversa causa dell’evento, dall’altro, una bassa percentuale potrebbe ricevere avallo dall’accertata assenza di altre possibili cause dell’evento. E’ stato, quindi, proposto il criterio della “probabilità logica” del quale il principio statistico o le massime di comune esperienza rappresentano solo una componente, accanto alla quale devono essere presi in considerazione tutti gli ulteriori e specifici fattori presenti ed interagenti che contribuiscano a pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale.
Il contrasto giurisprudenziale è stato, infine, posto all’attenzione delle Sezioni Unite di questa Corte che, con sentenza del 10.7.02 (********) ha fortemente ridimensionato il criterio probabilistico/statistico sul quale le precedenti pronunce si basavano. Esse hanno, quindi, affermato che: “Nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”. Le Sezioni Unite, quindi, hanno escluso che ai fini dell’individuazione del nesso causale si possa far riferimento esclusivamente o prevalentemente a dati statistici o a criteri a struttura probabilistica. Non dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica può, dunque, trarsi la conferma, o meno, della sussistenza del nesso di causalità; il giudice, invero, pur partendo dalle leggi scientifiche, e statistiche in particolare, è tenuto a verificarne l’adattabilità al caso concreto, prendendo in esame tutte le circostanze di fatto disponibili sì che, nella complessiva valutazione della vicenda e, tenuto conto dell’eventuale interferenza di fattori estranei, possa, o meno, ritenersi processualmente certo che la condotta omissiva del sanitario sia stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”.
Di recente, in linea con il principio di diritto reso dalla predetta sentenza, la Cassazione ha affermato che “In tema di responsabilità professionale del sanitario, nella ricostruzione del nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi concernenti la causa di tale evento lesivo (la morte o le lesioni del paziente), giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia è poi possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare, avvalendosi delle leggi statistiche o scientifiche e delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto, se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta (ma omessa), l’evento lesivo, al di là di ogni ragionevole dubbio, sarebbe stato evitato o si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva” (Cass. IV, n. 25233/05).
Orbene, a tali principi non si è attenuta, con riguardo all’affermazione di responsabilità del ricorrente quanto al decesso di B.G., la corte territoriale. In particolare, la sentenza impugnata sembra non essersi adeguata ai principi affermati, in tema di rapporto di causalità, dalle Sezioni Unite nella richiamata sentenza del 10 luglio 2002 e di essersi, viceversa, ispirata a criteri meramente probabilistici, laddove si sostiene che il parto cesareo “ove tempestivamente e correttamente praticato, avrebbe probabilmente salvato la vita del bambino”. Ed ancora laddove, richiamando vecchie decisioni di questa Corte, si sostiene: “…in tema di responsabilità per colpa professionale del medico, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento, al criterio della certezza degli effetti della condotta, si può sostituire quello della probabilità, anche limitata, di tali effetti e dell’idoneità della condotta a produrli. Ne consegue che il rapporto di causalità sussiste anche quando l’opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì soltanto serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata con una certa probabilità salvata”. La corte territoriale, cioè, sembra non avere tenuto in considerazione i principi interpretativi sul punto da ultimo elaborati da questa Corte, senza tuttavia specificare le ragioni del diverso orientamento espresso.
Peraltro, ulteriori incertezze riguardano la individuazione dei profili di colpa rilevabili nella condotta dell’imputato. In realtà, i dati fattuali emersi a proposito del decesso del piccolo B. e le relative osservazioni medico legali, appaiono incerti e non decisamente rivolti nei termini sostenuti dall’accusa. Pur volendo ritenere accertato che la morte del bambino sia stata determinata da una “compressione dei vasi velamentosi, per la presenza di un cotiledone succenturiato, rilevato solo in sede autoptica, che ha determinato uno stato di sofferenza fetale con conseguente iposia del feto che ne ha provocato l’exitus” – conclusione alla quale i consulenti del PM sono, per la verità, pervenuti solo attraverso un procedimento induttivo -, deve rilevarsi che gli stessi consulenti hanno sostenuto che la presenza del cotiledone è non solo evento eccezionale ma anche non rilevabile, neanche strumentalmente, se non a ridosso della fase espulsiva del feto. E’ pur vero che il profilo di colpa a carico del dott. L. è stato rilevato nel non avere egli correttamente letto i tracciati cardiotocografici delle ore 2,59/3,14 e delle ore 3,25, è, tuttavia, altrettanto vero che tali tracciati, secondo gli stessi consulenti del PM, non avevano fornito dati univocamente interpretabili.
Quanto al tracciato delle ore 2,59, i consulenti hanno concordemente sostenuto – secondo quanto è stato riportato nella sentenza impugnata – che la seconda parte dello stesso (la prima parte non è stata ritenuta interpretabile) aveva andamento “ondulatorio che già di per se stesso potrebbe essere segno di sofferenza fetale” (prof. S., consulente del PM); il tracciato, per concorde ammissione di tutti i consulenti di parte, aveva registrato condizioni che avrebbero dovuto allertare, cioè indurre a seguire l’evolversi della situazione attraverso un ulteriore monitoraggio della partoriente. Fino a quel momento, quindi, nessun particolare addebito sembra potersi formulare a carico dell’imputato posto che, non essendo stata rilevata – né avrebbe potuto esserlo – la presenza del cotiledone, la condizione di sofferenza del feto, ove anche ritenuta accertata (malgrado l’espressione volta al condizionale utilizzata dal consulente del PM), altro non avrebbe dovuto imporre, nel rispetto del protocollo medico e delle stesse postume indicazioni dei consulenti, che un ulteriore monitoraggio della gestazione, effettivamente eseguito, a distanza di dieci minuti dall’interruzione del primo, alle ore 3,25.
Il secondo tracciato, secondo il prof. S., aveva evidenziato una “brachicardia fetale” indicativa di una condizione di sofferenza del feto. A tale proposito, tuttavia, il consulente, in risposta ad una domanda posta dal giudice, ha precisato: “Quello che posso rilevare da quei tracciati è un battito cardiaco fetale o una registrazione di un battito di 100 al minuto, tanto è vero che noi abbiamo ipotizzato che quei 100 battiti al minuto potesse essere l’attività cardiaca materna e non, addirittura, quella fetale; cosa che è possibile in caso di tocografia”. Ed ancora, alla successiva osservazione del magistrato, che aveva chiesto: “Il fatto storico che lei ha accertato dalla visione di questi tracciati è che c’era la registrazione di un battito cardiaco, con una frequenza di 100 battiti al minuto. Quindi qui le possibilità sono due: o questo battito è riferibile alla madre e, quindi, il cardiotocografo non registrava il bambino e questo avrebbe dovuto mettere in allarme i medici….oppure questo battito appartiene al bambino e, quindi, comunque era un segno di sofferenza fetale”, ha risposto affermativamente (“certo”).
Orbene, emerge da quanto sopra esposto non solo che il tracciato delle ore 3,25 aveva certamente segnalato un battito cardiaco anomalo, ma anche che non era possibile accertare se il battito apparteneva al feto ovvero alla madre. Alternativa che non appare di secondario rilievo, posto che, ove l’attività cardiaca registrata dovesse essere attribuita non al bambino, bensì alla madre, legittimamente potrebbe sostenersi che il feto era già morto tra le ore 3,14 (ora dell’interruzione del primo tracciato, che aveva registrato il battito cardiaco del bambino) e le ore 3,25 (data dell’inizio del secondo tracciato, che aveva probabilmente registrato il battito cardiaco della partoriente). Circostanza che potrebbe proporre il tema sia della concreta prevedibilità dell’evento dannoso, sia quello dell’evitabilità dello stesso. In altre parole, se il tracciato delle 3,25 dovesse avere realmente registrato il battito cardiaco della madre e ciò dovesse ritenersi quale segnale dell’avvenuto decesso del bambino, dovrebbe valutarsi se un evento tanto repentino avesse potuto essere previsto e se, in caso affermativo, vi fossero stati ancora spazi per evitarlo; e dunque se, con il ricorso al parto cesareo, ovvero alla somministrazione di farmaci per accelerare il parto naturale, si fosse potuto scongiurare il decesso del feto. Ipotesi ed argomenti che si presentano ancor più pertinenti ove si consideri quanto ha sostenuto, con riferimento alle cause della morte del piccolo B., il prof. ********, secondo il quale: “Se c’è stata una compressione o una rottura, una perdita ematica, di sangue da questi vasi che sono di sangue fetale, quindi sangue del bambino, la morte avviene in maniera molto rapida….un’ora, di meno, a seconda della quantità di sangue e della rapidità di perdita del sangue del bambino o dei tempi di compressione”.
Tale tematica non risulta adeguatamente e coerentemente approfondita dalla corte territoriale poiché, alla tesi formulata dal consulente dell’imputato, prof. N., che aveva, appunto, ipotizzato che il decesso del feto fosse avvenuto tra le 3,14, e le 3,25, essa ha opposto la circostanza secondo cui l’esame ecografico delle ore 3,40 aveva evidenziato il battito cardiaco del feto. Senza tuttavia chiedersi se l’orario indicato nella cartella clinica fosse attendibile, ovvero rappresentasse un ulteriore espediente diretto ad alterare gli orari degli eventi, cosi come non rispondente al vero e finalizzata a tale alterazione, è stata ritenuta la registrazione della nascita del feto, nella stessa cartella, alle ore 3,50 e l’indicazione delle ore 5,30 sulla richiesta di plasma trasmessa alla banca del sangue. E senza avere più ampiamente argomentato in ordine ai risultati di tale esame ecografico, al quale solo marginalmente si accenna nella sentenza impugnata.
Consegue, alle considerazioni svolte, l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente all’imputazione di omicidio colposo ai danni di B.G., con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bari che, alla luce dei dati probatori accertati e di quelli che dovranno essere ancora chiariti, dovrà esaminare i temi della causalità, delle prevedibilità ed evitabilità dell’evento in conformità ai principi enunciati.
Per il resto, il ricorso deve essere rigettato.
Le censure mosse dal ricorrente alla sentenza impugnata, per il capo relativo all’affermazione di responsabilità dell’imputato, quanto alla morte di R.S., si presentano, invero, genetiche oltre che del tutto infondate. A fronte di tale genericità, l’impianto argomentativo della sentenza chiarisce, con motivazione adeguata e coerente sotto il profilo logico ed in piena sintonia con i principi di diritto e giurisprudenziali elaborati da questa Corte, i termini della vicenda e le evidenti responsabilità dell’imputato che, davanti ad una situazione che già alle ore 5 del mattino appariva meritevole di immediati interventi a causa delle gravi condizioni della donna determinate dall’abnorme emorragia genitale conseguita al parto, non ha adottato alcuna delle misure previste, in casi del genere, dal protocollo medico. A tali conclusioni sono pervenuti i giudici del merito, in conformità alle indicazioni scientifiche fornite dai consulenti del PM che hanno affermato: a) che la donna era deceduta per arresto cardiocircolatorio da schok emorragico, cioè per emorragia post parto, legata alla presenza del cotiledone; b) che l’emorragia si era protratta per circa tre ore, durante le quali il dott. L. non aveva provveduto ad intervenire in conformità a quanto prevedono, in casi del genere, i protocolli medici, malgrado la delicatezza delle condizioni della donna che fin da poco dopo le ore 5 avevano registrato un primo arresto cardiaco; c) che detti protocolli prevedono: la revisione dell’utero, al fine di eliminare la causa dell’emorragia (nel caso di specie determinata dalla presenza del cotiledone placentare), da eseguirsi dapprima manualmente, quindi, in caso di insuccesso, per via strumentale (raschiamento) e, in ogni caso, la somministrazione di utero tonici ed il tamponamento intrauterino, fino a giungere all’intervento di isterectomia; d) che il dott. L. aveva solo tentato la revisione manuale dell’utero, tuttavia in maniera non corretta, non essendo riuscito ad eliminare la causa dell’emorragia, ed aveva omesso non solo di intervenire con il raschiamento, ma anche di somministrare gli utero tonici, secondo quanto emerso dall’esame della cartella clinica, e di eseguire il tamponamento uterino; e) che il ricorso alla trasfusione, per sopperire alle imponenti perdite di sangue, era stato dall’imputato deciso con colpevole ed inspiegabile ritardo, essendo emerso che la richiesta di plasma era pervenuta alla banca del sangue solo alle ore 7,35 e che solo alle 7,40 il sangue era stato consegnato, quando ormai non serviva più poiché, di lì a poco, la povera R. era deceduta.
Orbene, correttamente, alla luce del dato probatorio complessivamente emerso e delle conclusioni degli esperti, i giudici del merito hanno attribuito al dott. L., medico curante della R., la responsabilità del decesso, segnalandone non solo l’incapacità di eseguire la revisione dell’utero, ma anche di porre in essere gli interventi più elementari, quali il raschiamento, il tamponamento intrauterino, la somministrazione dei farmaci più idonei e persino il trattamento trasfusionale, deciso con colpevole ed ingiustificabile ritardo. Peraltro, nella sentenza impugnata i giudici hanno spiegato, con argomentazioni coerenti e condivisibili, le ragioni per le quali l’orario delle ore 5,30, indicato nella richiesta di plasma, debba ritenersi inattendibile e posticcio nonché l’inconferenza del ricorso alla fede religiosa della vittima per giustificare l’omesso intervento trasfusionale. Correttamente, a tale proposito i giudici dell’impugnazione hanno non solo richiamato il grave stato di necessità, che imponeva al sanitario il ricorso a qualunque intervento terapeutico necessario per salvare la vita alla paziente, ma anche l’impossibilità di potere trarre, dal tesserino consegnato dal marito, la conferma attuale della decisione della donna, in stato d’incoscienza, di rifiutare il trattamento terapeutico necessario a salvarle la vita. Del resto, il sangue necessario alle trasfusioni è pervenuto quando ormai le condizioni della donna erano divenute irreversibili e nessuno ha mai sostenuto che il sangue non è stato richiesto tempestivamente per ragioni connesse al credo religioso della donna.
Palesemente infondato è il secondo motivo di ricorso, ovvero assorbito nella decisione di annullamento parziale della sentenza impugnata.
La rinnovazione parziale del dibattimento nel giudizio d’appello è istituto eccezionale, al quale il giudice dell’impugnazione può ricorrere allorché ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti. Nel caso di specie, la corte territoriale ha ritenuto che non vi fossero ragioni per procedere ad ulteriore perizia. Decisione che, con riferimento alla morte di R.S., appare adeguatamente motivata e, dunque, insindacabile in sede di legittimità. Per la parte che riguarda la morte del piccolo B.G., invece, il ricorso deve ritenersi assorbito nella decisione di parziale annullamento della sentenza impugnata, rimanendo inalterato il potere del giudice di rinvio di espletare, ove lo ritenga, perizia medico legale per meglio chiarire i temi legati al decesso della piccola vittima.
Ugualmente assorbita nel parziale accoglimento del primo motivo di ricorso è la doglianza relativa al trattamento sanzionatorio, alla cui specificazione provvedere il giudice del rinvio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’imputazione di omicidio colposo in danno di B.G., con rinvio sul punto ad altra sezione della Corte d’Appello di Bari, alla quale demanda il regolamento delle spese del giudizio di Cassazione.
Rigetta nel resto.

Redazione