Corte di Cassazione Penale sez. IV 17/11/2009 n. 43958; Pres. Campanato, G., Est. Piccialli, P.

Redazione 17/11/09
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FATTO E DIRITTO

La Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti del Dott. F.D. in ordine al reato di omicidio colposo perchè estinto per intervenuta prescrizione e revocava altresì le statuizioni civili per intervenuta revoca della costituzione di parte civile.
Il sanitario sopra indicato era stato chiamato a rispondere del reato in questione, in qualità di medico del reparto di Pronto soccorso dell’Ospedale di (OMISSIS), ove il giorno (OMISSIS) era stato ricoverato B.G., nato il (OMISSIS), a seguito di una caduta da una pianta. A carico del medico era stata formulata l’imputazione di avere dimesso il paziente dall’ospedale prima di completare gli accertamenti strumentali atti ad escludere fratture del tratto cervicale del paziente, con lesione del midollo spinale, e che tale ritardo nella diagnosi aveva provocato a sua volta un ritardo nell’intervento chirurgico, effettuato solo in data (OMISSIS), con la conseguente alterazione della meccanica respiratoria e crisi di insufficienza respiratoria correlata ad un interessamento dei muscoli respiratori, che unitamente al grave quadro di bronco pneumopatia cronica ostruttiva e di corona sclerosi da cui il soggetto era affetto, aveva provocato la morte del B., avvenuta in data (OMISSIS). Nel confermare il giudizio di responsabilità del ********, la Corte di merito riteneva la configurabilità di uno solo dei profili di colpa individuati dal giudice di primo grado, concernente la mancata adozione di presidi atti alla stabilizzazione della colonna vertebrale del paziente; mentre escludeva quelli afferenti l’omessa richiesta al radiologo di ulteriori ed approfonditi accertamenti e l’omesso trasferimento del paziente ad altro nosocomio al fine di effettuare le indagini cliniche non eseguite dal radiologo dell’ospedale per le particolari condizioni soggettive del paziente che avevano impedito di eseguire talune proiezioni.
Proprio l’impossibilità degli accertamenti in distretti rilevanti della colonna dorsale e cervicale, oltre alla alta possibilità di frattura, avrebbero dovuto indurre il sanitario, a prescindere dalla temporanea dimissione o meno del B., di adottare, in ogni caso, tutte quelle precauzioni (il collare rigido e le prescrizioni inerenti il decubito) atte ad impedire che potessero avere inizio fenomeni di scivolamento dei metanieri, con conseguente compromissione midollare.
Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione l’imputato articolando quattro motivi.
Con il primo motivo, lamenta che i giudici di merito avevano individuato nell’operato del medico del Pronto Soccorso profili di responsabilità secondo gli schemi del concorso di cause indipendenti senza fare riferimento al principio dell’affidamento, la cui corretta applicazione avrebbe comportato l’assoluzione del F., il quale, nell’ambito delle sue competenze di medico del Pronto Soccorso, aveva correttamente disposto una nutrita serie di accertamenti radiografici, coerenti al caso di politraumatismo, e, all’esito del referto stilato dal primario radiologo, che non segnalava la necessità di un ricovero d’urgenza, aveva dimesso il paziente programmando una visita ortopedica per l’indomani mattina.
Si sostiene inoltre, che il comportamento del Dott. F. era stato coerente alla ripartizione delle competenze esistente nell’ambito delle strutture ospedaliere, laddove è previsto (D.Lgs n. 230 del 1995, ex art. 111) esclusivamente a carico del radiologo le modalità, le metodologie ed il tipo di indagine da eseguire nei confronti dal paziente.
Con il secondo motivo, strettamente connesso al primo, lamenta l’erroneità della decisione in punto di elemento soggettivo del reato non essendo stata individuata la norma cautelare violata dal ********, il quale, chiedendo prontamente pareri specifici ai medici specialisti di radiologia e di ortopedia, aveva indicato correttamente le vie da seguire per poter giungere ad una diagnosi attendibile. Nè la mancata diagnosi di una frattura C6-C7, con compressione midollare, alla prima valutazione di pronto soccorso sarebbe stata necessariamente il risultato di imperizia, per le particolari difficoltà diagnostiche e terapeutiche che le stesse presentano, come dimostrato dal fatto che la stessa non venne diagnosticata neanche dai medici specialisti dell’Ospedale, che il giorno dopo confermavano l’assenza nel paziente di deficit neurologici.
Con il terzo motivo, lamenta che la Corte di merito, nell’inquadrare la condotta del F. nello schema della "causalità concorrente" avrebbe omesso un compiuto accertamento della idoneità causale della medesima e non avrebbe esaminato compiutamente l’eventuale presenza di cause eccezionali sopravvenute da sole in grado di escludere il presunto nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e la morte del paziente. La valutazione compiuta dai giudici di appello sulla sussistenza del nesso di causalità tra il ritardo nella diagnosi di frattura in C7 e la morte del paziente, non avrebbe tenuto conto, secondo la difesa,che gli accertamenti compiuti dai medici specialisti, anche al rientro del B. in Ospedale il giorno dopo la caduta, non avevano evidenziato palesi patologie nei riguardi dell’apparato nervoso centrale e periferiche e che, pertanto, la condotta del Dott. F. non aveva interrotto il processo diagnostico, essendo rimaste del tutto inalterate rispetto alla sera precedente le possibilità di corretto trattamento del paziente il cui ricovero nella notte del (OMISSIS) presso la struttura ospedaliera non avrebbe modificato la situazione.
Sempre sotto lo stesso profilo, si sostiene che il giudice di secondo grado avrebbe sottovalutato fattori ulteriori sopravvenuti idonei ad escludere il rapporto di causalità, laddove sarebbe rimasto insoluto il problema relativo alla genesi delle patologie polmonari parenchimatose e del versamento pleurico abbondante e bilaterale rinvenute nella salma e del loro possibile apporto causale alla morte del paziente. In particolare sarebbe stata omessa ogni considerazione in merito alle le fratture costali sull’ascellare posteriore,individuate solamente all’esame autoptico.
Con il quarto motivo, strettamente connesso al terzo, si duole della carenza di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del nesso di causalità tra la condotta addebitata al F. e l’evento, giacchè i giudici di appello avrebbero fornito una interpretazione dei doveri inerenti la posizione del ricorrente incoerente (in quanto esclude l’incidenza causale delle dimissione disposte dallo stesso) ed incurante delle norme in materia di ripartizione delle competenze mediche nell’ambito delle strutture sanitarie (in quanto ritiene che l’adozione dei presidi a favore del paziente avrebbe costituito il primo indispensabile passo per la prevenzione dei successivi fenomeni degenerativi senza tener conto che il F. aveva correttamente adempiuto al dovere di fornire una diagnosi corretta predisponendo tutti gli accertamenti necessari e chiedendo l’intervento dei medici competenti).
Il ricorso è infondato.
In via preliminare non è inutile ricordare i rigorosi limiti del giudizio di impugnazione nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
In presenza di una (già avvenuta) declaratoria di improcedibilità per intervenuta prescrizione del reato, è precluso alla Corte di cassazione un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione.
Il sindacato di legittimità circa la prospettata mancata applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2 deve essere invece circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule ivi prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Pertanto, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, deve prevalere l’esigenza della definizione immediata del processo (Sezione 4^, 6 marzo 2008, *******).
Alla luce dei principi appena richiamati, deve riconoscersi che dalla sentenza non risulta affatto evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che non costituisce reato, ecc., e, per convincersene, è opportuno soffermarsi sugli aspetti più rilevanti dei motivi del ricorso, che meritano trattazione congiunta, risolvendosi in una censura complessiva, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, del giudizio di responsabilità formulato dai giudici di merito.
In primo luogo, osserva il Collegio che il principio dell’affidamento, che secondo l’impostazione difensiva avrebbe giustificato l’assoluzione del F., non è invocato utilmente in questo caso.
Si sostiene, in particolare, che il ricorrente, nella qualità di medico del Pronto soccorso, una volta disposti gli accertamenti radiografici nei confronti del paziente ed acquisito il referto stilato dal primario del reparto di radiologia, che aveva escluso lesioni traumatiche, aveva correttamente adempiuto all’espletamento delle mansioni di rispettiva competenza e non aveva provveduto all’adozione dei presidi atti alla stabilizzazione della colonna vertebrale del paziente, facendo affidamento sulla professionalità del medico radiologo.
Questa impostazione difensiva non merita accoglimento per i motivi di seguito precisati.
Nell’attività medico-chirurgica, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, anche se svolta non contestualmente, come nel caso in esame, è affermazione comune quella secondo cui, in tema di colpa professionale, ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto ad osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (v., da ultimo, Sezione 4^, 22 maggio 2009, Riva ed altro).
Il mancato rispetto di tale obbligo cautelare può fondare la responsabilità concorsuale.
E’, peraltro, altrettanto comune, come sostenuto in ricorso, l’affermazione secondo cui, in tema di responsabilità colposa nella attività di equipe, implicante la partecipazione di più soggetti, secondo una divisione di competenze e con obblighi diversi, deve operare anche il fondamentale "principio di affidamento", finalizzato appunto a contemperare il principio di responsabilità personale con la specializzazione e la divisione dei compiti.
Alla base di questo secondo principio vi è la considerazione che ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell’ attività che, di volta in volta, viene in questione.
Cosicchè, proprio invocando il principio dell’affidamento, il soggetto titolare di una posizione di garanzia, come tale tenuto giuridicamente ad impedire la verificazione di un evento dannoso, può andare esente da responsabilità quando questo possa ricondursi alla condotta esclusiva di altri, (con)titolare di una posizione di garanzia, sulla correttezza del cui operato il primo abbia fatto legittimo affidamento.
L’ipotesi tipica in cui può trovare applicazione il principio è proprio quella della responsabilità professionale del medico, specialmente nel caso di interventi in equipe, laddove la divisione delle responsabilità, proprio in ragione del richiamato principio, è dovuta alla necessità di consentire che ciascuno si concentri sul proprio lavoro, confidando sulla professionalità degli altri, della cui condotta colposa, poi, non può essere chiamato di norma a rispondere.
Il principio di affidamento, non è, però, invocabile sempre e comunque, dovendo contemperarsi, con il concorrente principio della salvaguardia degli interessi del soggetto nei cui confronti opera la posizione di garanzia.
Non è certamente invocabile, infatti, allorchè l’altrui condotta colposa si innesti sull’inosservanza di una regola precauzionale proprio da parte di chi invoca il principio: ossia allorchè l’altrui condotta colposa abbia la sua causa proprio nel non rispetto delle norme cautelari, o specifiche o comuni, da parte di chi vorrebbe che quel principio operasse.
Infatti, allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio dell’equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere avuto caratteristiche di eccezionalità ed imprevedibilità (art. 41 c.p., comma 2): ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l’abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata. In altri termini, per escludere la "continuità" delle posizioni di garanzia, è necessario che il garante sopravvenuto abbia posto nel nulla le situazioni di pericolo create dal predecessore o eliminandole o modificandole in modo tale da non poter essere più attribuite al precedente garante (cfr., di recente, Sezione 4^, 5 giugno 2008, ********** ed altri).
Nella specie, la Corte, come sopra evidenziato, ha ritenuto la sussistenza di uno solo dei profili di colpa individuati dal giudice di primo grado, quello afferente la mancata adozione di presidi atti alla stabilizzazione della colonna vertebrale del paziente mentre ha escluso quelli concernenti l’omessa richiesta al radiologo di ulteriori ed approfonditi accertamenti e l’omesso trasferimento del paziente ad altro nosocomio al fine di effettuare le indagini cliniche non eseguite dal radiologo dell’ospedale per le particolari condizioni del paziente.
Or bene, proprio l’impossibilità degli accertamenti in distretti rilevanti della colonna dorsale e cervicale, oltre alla alta possibilità di frattura – ha correttamente sottolineato la sentenza impugnata – avrebbero dovuto indurre il sanitario, a prescindere dalla temporanea dimissione o meno del B., di adottare in ogni caso tutte quelle precauzioni (il collare rigido e le prescrizioni inerenti il decubito) atte ad impedire che in ogni caso potessero avere inizio fenomeni di scivolamento dei metameri, con conseguente compromissione midollare.
Siffatta conclusione è fondata sulla premessa, ampiamente evidenziata dai periti e fatta propria dai giudici di merito, con argomentazioni logiche e condivisibili, che l’accadimento più comune, dopo un trauma, come quello occorso al B., è proprio quello di una compressione progressiva, nel senso che il paziente perde progressivamente forza e funzione motoria, perchè i metameri vertebrali, a seguito della frattura, scivolano progressivamente o perchè il trauma provoca il progressivo edema del tessuto nervoso.
Il dovere del medico del Pronto Soccorso di adottare quelle cautele sopra elencate nasceva proprio dall’ alta probabilità di frattura – evidenziata anche dalla sintomatologia dolorosa manifestata dal paziente con riferimento alla regione cervicale e dorsale – e dall’assoluta parzialità degli accertamenti svolti dal radiologo.
Da ciò consegue che non vi è materia per invocare il principio di affidamento, per l’empirica ragione che il sanitario del Pronto Soccorso non si è trovato ad agire sul presupposto che altri sanitari avessero adempiuto ai propri compiti, ma proprio sulla base della situazione fattuale opposta: ergo, la consapevolezza che l’altro sanitario (il radiologo) non aveva potuto materialmente procedere all’accertamento richiestogli. Tale situazione avrebbe dovuto imporre all’imputato l’adempimento dei doveri cautelari bene evidenziati dal giudice di merito.
Può, pertanto, osservarsi che i giudici di merito, recependo le risultanze delle espletate perizie medico legali, hanno correttamente appezzato la norma cautelare violata ed il portato della pronuncia delle Sezioni Unite in data 10 luglio 2002, ********, in tema di causalità omissiva.
Sotto tale ultimo profilo, con particolare riguardo al rapporto di causalità, il ricorrente sostiene che i giudici di merito non avrebbero fornito di adeguata motivazione la valutazione sulla efficienza causale della condotta colposa sull’evento, tenuto conto del fatto che la visita effettuata il giorno successivo dall’ortopedico (il quale ebbe a definire il procedimento a suo carico ex art. 444 c.p.p.), con le conseguenti dimissioni del paziente, avrebbe autonomamente cagionato gli eventi successivi.
Tale impostazione difensiva, che implicitamente evoca nuovamente il principio dell’affidamento, non può trovare accoglimento.
Infatti, il giudicante di merito, ha escluso che potesse integrare causa eccezionale, sopravvenuta, tale da interrompere il nesso tra la rilevata condotta colposa e l’evento dannoso, la condotta omissiva, pure colposa, del medico ortopedico, che non adottò i presidi omessi dal Dott. F..
Ciò perchè, a ben vedere, alla base della medesima vi è stata pur sempre la condotta colposa del ricorrente, il quale, venendo meno al dovere di adottare tutte quelle precauzioni, imposte dalla particolare situazione del paziente, come sopra evidenziate, ha posto egli stesso le condizioni per la verificazione della condotta che ha reso possibile l’evento.
In tal modo, i giudici di merito, nel fondare il giudizio di responsabilità dell’imputato, pur in presenza di un comportamento colposo successivo di altro medico, hanno fatto corretta applicazione, nella subiecta materia, del principio dell’equivalenza delle cause (v., tra le tante, Sezione 5^, 27 marzo 1991, *******) accolto dal nostro ordinamento penale (art. 41 c.p.), secondo il quale il nesso causale può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, rispetto alla quale la precedente sia da considerare tamquam non esset e trovi nella condotta precedente solo l’occasione per svilupparsi; cioè quando tale causa si inserisca nel processo causale in modo eccezionale, atipico ed imprevedibile (art. 41 c.p., comma 2); mentre il nesso non può essere escluso quando la causa successiva abbia solo accelerato la produzione dell’evento, destinato comunque a compiersi. In una tale prospettiva, all’evidenza, negando alla condotta violativa del secondo medico il rilievo richiesto dal sistema normativo per recidere il nesso causale tra l’evento lesivo e la ritenuta condotta colposa dell’imputato.
Proprio quanto rilevato sui profili di colpa ravvisati a carico del Dott. F., in uno con l’apprezzata esclusione dell’eccezionalità dell’intervento dell’ortopedico, confermano l’esatta esclusione del principio di affidamento invocato dal ricorrente.
In considerazione delle circostanze sopra esposte, deve ritenersi infondata anche l’altra censura, sollevata dal ricorrente sotto il profilo causale, afferente l’omessa considerazione da parte dei giudici di merito di possibili fattori alternativi, quale causa della morte, laddove sarebbe rimasto insoluto il problema relativo alla genesi delle patologie polmonari parenchimatose e del versamento pleurico abbondante e bilaterale rinvenute nella salma e del loro possibile apporto causale alla morte del paziente. E’ principio consolidato di questa giurisprudenza (v., tra le tante, Sezione 4^, 6 novembre 2007, ********) che, pur a fronte di una ipotesi alternativa nella ricostruzione della causalità, che sia plausibile (cioè, seppur ritenuta improbabile, non consista in una ricostruzione immotivata e di natura meramente congetturale), è comunque consentito al giudice di escludere tale ipotesi non solo in base ad una dichiarata e motivata affidabilità di una delle ipotesi formulate, ma tenendo anche conto delle evidenze probatorie esistenti nel processo che consentano di negare, in termini di elevata credibilità razionale, l’ipotesi alternativa: ciò che consente di uscire dalle secche della valutazione probabilistica e di pervenire ad una conclusione che supera il limite costituito dal ragionevole dubbio, come è avvenuto nel caso in esame.
Alla luce di tali considerazioni, rileva il Collegio che la sentenza impugnata ha adeguatamente affrontato, sia in fatto, sia in diritto, anche il problema dell’esistenza del nesso di causalità, risolvendolo in senso positivo.
In conclusione, la sentenza, non solo non presenta i lamentati vizi motivazionali – che, per quanto detto all’inizio, sarebbero, comunque, irrilevanti -, ma con evidenza dimostra che la condotta colposa del Dott. F. ha contribuito a determinare la morte del paziente, così escludendo l’esistenza di circostanze idonee ad escludere "con evidenza" l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale o la non commissione da parte dell’imputato, emergenti dagli atti in modo assolutamente incontestabile, da consentire l’applicazione del richiamato art. 129 c.p.p., comma 2, con la conseguente pronuncia liberatoria.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione