Corte di Cassazione Penale sez. IV 15/5/2008 n. 19524; Pres. Battisti M.

Redazione 15/05/08
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FATTO E DIRITTO

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Catania, in riforma della sentenza emessa in primo grado, riteneva B. A. responsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno dell’operaio V.G., deceduto a seguito di folgorazione durante i lavori di costruzione abusiva di un capannone.

Trattavasi di un infortunio mortale sul lavoro occorso in data (omissis), contestato al B., nella qualità di amministratore unico della società omonima che gestiva un’azienda agricola, la cui attività precipua era la lavorazione e commercializzazione di agrumi e prodotti ortofrutticoli.

Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione B. A., articolando i seguenti motivi.

Con il primo motivo, deduce l’erronea applicazione della legge processuale penale con riferimento alla L. n. 286 del 2002, art. 4 sostenendo che erroneamente i giudici di appello avevano ritenuto l’ammissibilità dell’appello tardivamente proposto dal PM senza applicare la medesima normativa al decreto di citazione notificato all’imputato soltanto in data 1.4.2003 e, quindi, appena 6 giorni liberi prima.

Per lo stesso motivo impugna l’ordinanza pronunciata fuori udienza – della quale aveva avuto conoscenza soltanto al deposito della sentenza – con la quale era stata revocata l’ordinanza che aveva rimesso in termini l’imputato per la proposizione dell’appello incidentale, dichiarato successivamente inammissibile perchè tardivo.

Con il secondo e terzo motivo, lamenta la mancata corrispondenza della motivazione alla imputazione e la mancanza della motivazione in ordine alle questioni sottoposte alla Corte di merito con l’appello incidentale.

La censura viene fondata essenzialmente sul rilievo che il giudicante non avrebbe tenuto conto, contrariamente al giudice di primo grado, della circostanza che il capannone, durante la costruzione del quale l’operaio aveva perso la vita, era oggetto di una costruzione abusiva e che l’attività illecita non rientrava nell’oggetto sociale della ditta di cui il B. era amministratore.

L’illiceità dell’atto spezzerebbe, ad avviso del difensore, il rapporto ordinario tra datore di lavoro e dipendente, come del resto, ritenuto dal giudice di primo grado, il quale aveva rilevato che la mancata individuazione del soggetto che aveva conferito l’incarico della costruzione abusiva non consentiva di accertare chi esercitasse in quella circostanza particolare la funzione di garanzia e quindi in capo a chi sussistesse l’obbligo di controllo e di sorveglianza dell’operato altrui.

Tutti i motivi sono manifestamente infondati e non meritano accoglimento.

Con riferimento al primo motivo, di carattere procedurale, afferente la ritenuta erronea interpretazione del D.L. 4 novembre 2002, n. 245, art. 4, convertito in L. 27 dicembre 2002, n. 286, da parte dei giudici di appello, che ne avevano escluso l’applicabilità ai termini di comparizione tra la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza e la data dell’udienza stessa.

Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità (v.

Sezione 2^, 14 giugno 2005, Saperi ed altro), condivisa da questo Collegio, la sospensione dei termini disposta dalla richiamata disposizione, per le zone colpite da eventi sismici riguarda solo quelli comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione in scadenza nel periodo di emergenza e, pertanto, non si applica ai termini dilatori al cui decorso non è ricollegabile alcuna causa di prescrizione o decadenza. Ne consegue che è rituale la notifica del decreto di citazione che sia stata eseguita durante il periodo di sospensione, purchè nel rispetto del termine minimo di comparizione. Poichè nel caso in esame la notifica è stata eseguita il 14.3.2003 per l’udienza dinanzi alla Corte di appello del 7.4.2003, risulta rispettato il termine minimo di 20 giorni previsto dall’art. 601 c.p.p., comma 3, con la conseguente ritualità della notifica.

Lo stresso principio ricavabile dal citato art. 4 è stato correttamente applicato dai giudici di appello, allorchè con la sentenza impugnata hanno revocato l’ordinanza del 3 luglio 2003, con la quale avevano rimesso in termini l’imputato al fine di proporre appello incidentale ritenuto invece tardivo perchè comunque proposto oltre i termini previsti dall’art. 595 c.p.p..

Anche gli altri motivi, strettamente connessi, sono manifestamente infondati. In sintesi, secondo il ricorrente, la posizione di garanzia dell’imputato sarebbe venuta meno perchè l’attività di costruzione del capannone durante la quale il dipendente aveva perso la vita era illegittima.

In proposito valgono le seguenti considerazioni.

La giurisprudenza di questa Corte (v. Sezione 4^, 14 novembre 2007, *****) ritiene che la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi che fanno capo a tale posizione.

La prima categoria concerne la posizione di garanzia cd. di protezione che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l’integrità: tipici gli obblighi che gravano sui genitori, sui medici ecc. in relazione ai beni della vita e dell’incolumità personale ma anche di altri beni (per es., per i genitori, l’integrità sessuale dei minori).

Come è evidente l’ambito elettivo di questi obblighi è quello familiare ma l’obbligo di protezione può derivare anche dall’assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base contrattuale (per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare uno scalatore inesperto) sia unilateralmente (il medico che prende in carico il paziente in stato di incoscienza).

La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia cd. di controllo che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto: questa categoria riguarda tutti i casi di esercizio di attività pericolose – che trova il fondamento normativo nell’art. 2050 cod. civ. – il dovere di prevenzione incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di infortuni sul lavoro o di malattie professionali, le regole che disciplinano la circolazione stradale ecc..

Il più delle volte questi obblighi di controllo sono ricollegati all’esistenza di un "potere di organizzazione o di disposizione relativo a cose o situazioni potenzialmente pericolose", come nel caso indicato del datore di lavoro o come nel caso degli appartenenti ad amministrazioni pubbliche cui sono attribuiti compiti di prevenzione e soccorso in relazione ad eventi riguardanti la pubblica incolumità.

A ciò va aggiunto, con particolare riferimento alla tutela delle condizioni di lavoro, che in forza della disposizione generale di cui all’art. 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro.

E’ altresì da sottolineare che l’art. 2087 c.c. non configura una sorta di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, dovendo detta responsabilità pur sempre ricollegarsi alla violazione di obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dall’esperienza e dalle conoscenze tecniche, e non potendosi automaticamente desumere l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate dal solo fatto del verificarsi del danno.

Ne consegue che il datore di lavoro, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera.

In altri termini, il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell’art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 c.p., comma 2, (v. Sezione 4^, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri).

E’ in questo quadro normativo che si pone correttamente la sentenza impugnata, laddove ravvisa la colpa, e il conseguente nesso eziologico con l’evento dannoso, del datore di lavoro, attraverso il seguente percorso argomentativo: il capannone in corso di costruzione si trovava sul terreno di proprietà dell’imputato e doveva essere utilizzato quale magazzino dell’azienda agricola ivi esistente, della quale il B. era amministratore unico; l’irrilevanza del fatto che l’attività lavorativa nel corso della quale il V. aveva perso la vita non rientrasse nell’attività propria dell’azienda agricola ivi esistente (avente ad oggetto la lavorazione e la commercializzazione di agrumi e prodotti ortofrutticoli), essendo in ogni caso la costruzione del capannone funzionale e necessaria all’attività dell’azienda; l’inesistenza di una espressa ed inequivoca delega di funzioni idonea a mandare esente da responsabilità il datore di lavoro.

Da quanto in precedenza esposto non si comprende come si possa negare che al B. fosse attribuita una posizione di garanzia in relazione alla tutela della salute e della vita del lavoratore, essendosi l’incidente verificato all’interno del luogo di lavoro e nel corso di un’attività svolta nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, quale era la costruzione di un capannone da adibire a magazzino.

E’ vero che il giudice di primo grado aveva assolto l’imputato dal reato contestatogli sostenendo tra l’altro l’insussistenza di elementi sufficienti per affermare che il B. fosse a conoscenza della costruzione del nuovo capannone, ma i giudici di appello, valorizzando il contenuto della documentazione in atti (il piano di sicurezza predisposto dallo stesso imputato proprio in funzione della costruzione di quel capannone prevedeva espressamente il divieto di esecuzione dei lavori in prossimità delle linee elettriche) e le dichiarazioni testimoniali del figlio e del fratello del B., i quali confermavano che l’iniziativa dell’opera e la responsabilità della esecuzione dei lavori erano riconducigli all’imputato.

Alla luce di tali premesse è evidente la manifesta infondatezza della censura con la quale il ricorrente si suole della mancata corrispondenza della motivazione al capo di imputazione.

Sul punto va preliminarmente sottolineato che non può sostenersi, con la difesa, che la Corte di merito, evidenziando quale profilo di colpa l’avere permesso lo svolgimento dell’attività abusiva di costruzione del capannone, avrebbe individuato una condotta colposa non contestata con il capo di imputazione, laddove era stato addebitato al B., nella qualità di amministratore unico della ditta, di aver fatto eseguire lavori edili in prossimità di una linea elettrica aerea a distanza inferiore di 5 metri dalla costruzione.

Siffatta censura non tiene conto che tra la formulazione dell’addebito contestato al B. ed il profilo di colpa ritenuto in sentenza è agevolmente individuabile un nucleo comune, riconducibile in ogni caso all’omesso controllo ed alla omessa vigilanza in ordine alla adozione di idonee misure protettive da parte del dipendente.

Tale conclusione è sorretta dalla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di effettiva difesa.

Tale principio non è invece violato quando nei fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza (cfr, tra le tante, Sezione 4^, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri; nonchè Sezione 4^, 23 gennaio 2007, ******* ed altro). Ciò che nella specie deve ritenersi per quanto sopra esposto, con la conseguenza che va escluso la sussistenza di pregiudizi per le scelte difensive dell’imputato.

Nè è validamente sostenibile la pretesa interruzione del nesso eziologico tra datore di lavoro e dipendente, argomentata sul rilievo che l’illiceità dell’atto, posto in essere dal dipendente su richiesta del datore di lavoro, spezzerebbe il citato rapporto di lavoro, essendo esclusivamente espressione di una condotta fondate su timore riverenziale o violenza privata.

Tale interpretazione non è assolutamente condivisibile poichè dimentica di considerare che a fondamento del giudizio di responsabilità i giudici di appello hanno correttamente posto la violazione da parte del B. della regola cautelare che gli imponeva di controllare e di vigilare che le misure di prevenzione, peraltro contenute nel piano di sicurezza dallo stesso predisposto, fossero in concreto messe in uso dal dipendente.

Manifestamente infondata, infine, è la doglianza afferente la mancanza della motivazione in ordine alle questioni sottoposte al giudice dell’impugnazione con l’appello incidentale, essendo stato lo stesso dichiarato inammissibile perchè tardivo.

Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (v. sentenza Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del medesimo al pagamento delle spese del procedimento e di una somma, che congruamente si determina in mille Euro, in favore della Cassa delle ammende, nonchè alla rifusione delle spese di questo grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, in favore delle costituite parti civili, ivi indicate.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende nonchè della somma di Euro 2.500,00, oltre spese generali, IVA e CPA in favore delle costituite parti civili V.V., N.M., in proprio e nella qualità di esercente la potestà sui figli minori V.S. e M..

Redazione