Corte di Cassazione Penale sez. IV 13/10/2009 n. 39959; Pres. Mocali P.

Redazione 13/10/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

G.G. veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt. 113 e 449 c.p., secondo la seguente contestazione: perchè quale amministratore del condominio sito in (omissis) ai civici numeri (omissis), concorreva, con R.I., Z.M. e V.A. – il R. quale legale rappresentante della pizzeria (omissis), lo Z. quale incaricato dal R. del riposizionamento della canna fumaria della pizzeria, il V. quale tecnico incaricato, a dire del R., di verificare la corretta esecuzione del lavoro – a cagionare, per colpa, un vasto incendio, al tetto e sottotetto dello stabile del predetto condominio, che si propagava all’intero edificio; canna fumaria a proposito della quale, con relazione peritale a firma dell’ing. L. datata (omissis) indirizzata al G., il detto perito aveva segnalato che non erano state seguite le indicazioni previste nel progetto originario illustrato nell’assemblea condominiale (in particolare, la canna fumaria risultava quasi completamente sprovvista di qualsiasi limitazione del calore prodotto, con conseguente possibilità di incendi); colpa consistita in negligenza e violazione degli obblighi e dei doveri correlati all’ufficio ricoperto: sia avendo omesso, a seguito della suddetta segnalazione, di controllare e verificare la corretta esecuzione dei lavori risultati eseguiti in modo non idoneo attraverso l’utilizzo di un tubo flessibile non coibentato, posizionato peraltro in aderenza al sottotetto ed in violazione al Regolamento Locale di Igiene Tipo del Comune di Lecco, sia avendo omesso, per lungo tempo, di attivarsi per rimuovere la suddetta situazione di pericolo interessando le Autorità, gli organi competenti ed il gestore della pizzeria (omissis).

Il Tribunale di Lecco assolveva il V., e condannava R., Z. e G. alle rispettive pene ritenute di giustizia, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite.

Interponevano appello i tre imputati condannati; la Corte d’Appello di Milano concedeva al G. il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, confermando nel resto l’impugnata sentenza, disattendendo nel merito le tesi difensive prospettate dagli appellanti. Con riferimento alla posizione del G., la Corte territoriale dava conto del proprio convincimento, circa la ritenuta colpevolezza dello stesso, con argomentazioni che possono cosi sintetizzarsi: a) la canna fumaria della pizzeria, di proprietà esclusiva del gestore ( R.) di tale esercizio e/o del proprietario ( B.) dei relativi locali, intercettava nel suo tragitto parti comuni dell’edificio di cui il G. era amministratore; b) rilevava la posizione di garanzia del G. il quale aveva non solo l’obbligo di eseguire le deliberazioni dell’assemblea dei condomini, ma altresì, ai sensi dell’art. 1130 c.c., l’obbligo di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio; c) a fronte di deliberazioni assembleari e relazioni tecniche che prospettavano il pericolo di incendio del solaio condominiale e della copertura dell’edificio, l’amministratore G., anzichè attivarsi nei confronti del R., gestore della pizzeria, adottando i provvedimenti necessari ed eventualmente agire in via di urgenza (ex artt. 1133 e 1131 c.c.) nei confronti del medesimo, a tutela delle parti comuni dell’edificio minacciate dal pericolo di incendio, era rimasto inerte per circa un anno; d) le diffide degli enti pubblici non esoneravano l’amministratore dal suo ruolo di garante: il Comune aveva esercitato un potere autoritativo collaterale o additivo riconducibile a fonte diversa: anzi, proprio quelle diffide avrebbero dovuto ancor più stimolare il G. ad assumere le opportune e necessarie iniziative; e) siffatta colpevole inerzia aveva avuto un ruolo casualmente incidente sulla produzione dell’evento, cooperando con la condotta non meno colposa del R. e dello Z. della quale il G. era ben consapevole in virtù del suo ruolo e per quanto si era discusso da lungo tempo nelle assemblee di condominio.

Ha proposto ricorso per Cassazione il G. deducendo violazione dell’art. 40 c.p., e vizio motivazionale in ordine all’affermazione di colpevolezza con censure che possono così riassumersi: a) insussistenza per il G. di qualsiasi obbligo di intervenire per impedire l’evento posto che il cattivo posizionamento della canna fumaria doveva ritenersi riconducibile al proprietario della stessa, non costituendo una proprietà condominiale; dopo le verifiche effettuate sulla canna fumaria dal tecnico di fiducia del condominio, ing. L., l’assemblea condominiale aveva invitato formalmente il proprietario dei locali della pizzeria, ********, a rimuovere la situazione di pericolo ritenendolo responsabile di eventuali danni, mentre alcun mandato era stato conferito al G. affinchè si attivasse nelle sedi competenti per la messa a norma dell’opera; il ********** aveva invitato sia il geom. V. che il R. ad ottemperare a quanto ingiunto dal Comune di Lecco, circa l’opera "de qua", con diffida del (omissis); non essendo mutata la situazione, per la mancanza di qualsiasi intervento, ed a seguito di ulteriore sopralluogo e di una comunicazione della ASL, sollecitata dallo stesso G., il Comune con diffida del (omissis) aveva assegnato al Dott. B. ed al R. il termine di 15 giorni – poi prorogato di ulteriori 20 giorni – per adeguare la canna fumaria alla sua messa in sicurezza, con l’avvertimento che in caso di inerzia il Comune avrebbe proceduto secondo legge: in sostanza, il G. era solo un terzo come qualsiasi altro condomino, non gravato dell’obbligo di impedire l’evento; b) avrebbe errato la Corte di merito nell’attribuire una posizione di garanzia al G. che invece non la rivestiva, tenuto conto delle funzioni dell’amministratore condominiale e dei suoi poteri, tali da ricondurre l’obbligo dell’amministratore stesso alla sola protezione per le parti comuni o per gli impianti comuni dell’edificio, anche in base a principi enunciati dalla Suprema Corte in materia: la canna fumaria responsabile del sinistro non era condominiale, ed anche il fenomeno di surriscaldamento che aveva determinato l’incendio rientrava nell’ambito del privato, essendo risultato accertato che l’incendio era stato determinato dalla combustione di residui di fuliggine del condotto fumario del forno pertinente alla pizzeria gestita dal R.; c) alcun mandato era stato conferito dal condominio al G., tenuto conto del verbale dell’assemblea condominiale del (omissis) secondo cui, in caso di esito negativo della transazione tra il ******** ed il R., il G., previa nuova perizia ad opera dell’ing. L., avrebbe dovuto informare gli organi competenti; d) peraltro qualsiasi ulteriore sollecitazione da parte del G. sarebbe stata del tutto superflua, posto che ASL e Comune erano al corrente della situazione, ed in particolare il Comune si era attivato specificamente con intimazioni nei confronti del Dott. B. e del R.: il che avrebbe comunque comportato il venir meno di eventuali condotte omissive censurabili da parte dell’amministratore; nè rileverebbe che la parte finale della canna fumaria attraversasse il sottotetto, posto che la canna stessa non cessava di essere di proprietà del singolo "per essere i suoi percorsi contigui o interni rispetto a proprietà comuni" (pag. 13 del ricorso): la stessa diffida del Comune di Lecco aveva avuto quale destinatario il solo ********, ed ulteriori intimazioni erano state trasmesse al G. solo per conoscenza; e) quanto all’accusa mossa al G., di aver omesso di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti le parti comuni dell’edificio, l’impostazione dei giudici di merito sarebbe errata poichè quanto prescritto all’amministratore dall’assemblea condominiale del (omissis) era stato automaticamente attuato dalla attivazione del Sindaco e della ASL secondo la volontà espressa dai condomini nella delibera stessa; f) le omissioni del dottor B. e del R. non avrebbero determinato l’insorgenza di una responsabilità concorsuale del G., trattandosi di condotte autonome ed indipendenti, e l’intervento del Comune di Lecco avrebbe interrotto ogni rapporto di causalità; g) nella vicenda "de qua" avrebbe dovuto essere implicato a pieno titolo il dottor B., quale proprietario dei locali affittati al R. nonchè della canna fumaria: di tal che, nel caso di riaffermata responsabilità del G., dovrebbe essere "concorsualmente ribadita, ovviamente senza alcuna conseguenza di carattere penale, ma unicamente in via di principio, la corresponsabilità del ********, se non altro ai fini meramente civilistici" (così testualmente a pag. 16 del ricorso).

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è meritevole di accoglimento nei termini di seguito precisati, risultando sussistente la denunciata violazione dell’art. 40 c.p., sia pure sotto profili non direttamente evidenziati dal ricorrente, quale ha svolto considerazioni finalizzate prevalentemente a dimostrare l’asserita insussistenza di una posizione di garanzia per il G..

Certamente è condivisibile l’assunto dei giudici del merito secondo cui, in via di principio generale, l’amministratore di un condominio è titolare di un obbligo di garanzia, quanto alla conservazione delle parti comuni dell’edificio condominiale: non può invero in altro modo interpretarsi il chiaro dettato dell’art. 1130 c.c., comma 1, n. 4. D’altra parte in tal senso si è già espressa questa Corte, sia in sede penale che in sede civile, enunciando i seguenti principi: "La responsabilità penale dell’amministratore di condominio va considerata e risolta nell’ambito del capoverso dell’art. 40 c.p., che stabilisce che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Per rispondere del mancato impedimento di un evento è, cioè, necessaria, in forza di tale norma, l’esistenza di un obbligo giuridico di attivarsi allo scopo: detto obbligo può nascere da qualsiasi ramo del diritto, e quindi anche dal diritto privato, e specificamente da una convenzione che da tale diritto sia prevista e regolata com’è nel rapporto di rappresentanza volontaria intercorrente fra il condominio e l’amministratore" (Terza Sezione Penale, n. 4676 del 14/03/1975 Ud. – dep. 14/04/1976 – Rv. 133249); "Sussiste la "legitimatio ad causam" e "ad processum" dell’amministratore del condominio, senza bisogno di alcuna autorizzazione, allorquando egli agisca a tutela di beni condominiali, giacchè i poteri gli vengono direttamente dalla legge e precisamente dall’art. 1130 c.c., n. 4, che gli pone addirittura come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, potere-dovere da intendersi non limitato agli atti cautelativi ed urgenti ma esteso a tutti gli atti miranti a mantenere l’esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti nella specie l’amministratore del condominio aveva agito nei confronti di terzi che avevano allacciato gli scarichi dei loro immobili nella condotta fognaria dell’edificio condominiale" (Seconda Sezione Civile, n. 6494 del 06/11/1986, Rv. 448662).

Il G. era dunque titolare dell’obbligo di garanzia, in relazione alla conservazione delle parti comuni (tetto e sottotetto) dello stabile di via (omissis); nè rileva, ovviamente, che, per quanto concerne il pericolo di incendio riconducibile al difetto di installazione della canna fumaria, questa non appartenesse al condominio, bensì a terzi: ed invero, l’obbligo di intervento da parte di un amministratore di un condominio, a tutela delle parti comuni dell’edificio condominiale, prescinde dalla provenienza del pericolo.

Ciò posto, mette conto sottolineare che, avuto riguardo al capo di imputazione quale formulato a carico del G., nei confronti di quest’ultimo sono stati ipotizzati profili di condotta colposa omissiva. Di tal che, bisogna verificare – in relazione alla denuncia di violazione dell’art. 40 c.p., dedotta con il ricorso – se i giudici del merito, muovendo dal presupposto della titolarità per il G. dell’obbligo di garanzia, hanno individuato la specifica condotta che il G. stesso avrebbe dovuto porre in essere in concreto, e se hanno poi accertato la sussistenza del nesso di causalità tra la omissione e l’evento.

Come è noto, il tema del nesso di causalità in relazione al reato colposo per condotta omissiva, oltre ad essere stato oggetto di un vivace dibattito in dottrina, aveva anche determinato un contrasto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, che, non avendo trovato spontanea composizione, aveva reso necessario – sia pure con specifico riferimento alla materia della colpa professionale del medico – l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Queste ultime si sono quindi pronunciate nel 2002 con la sentenza n. 27/2002 (ud. 10 luglio 2002, ric. ********) con la quale sono stati individuati i criteri da seguire perchè possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, e sono stati enunciati taluni principi che, pur affermati, come detto, con specifico riferimento alla responsabilità colposa (per condotta omissiva) del medico chirurgo, valgono evidentemente in generale per quel che riguarda la ricostruzione del nesso causale – quale elemento costitutivo del reato – in qualsiasi caso di reato colposo per condotta omissiva. I principi enucleabili dalla sentenza ******** possono così riassumersi: 1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento "hic et nunc", questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica"; 3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la c.d. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare. Può dunque affermarsi che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi interpretativi delineatisi nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, maggiormente verso quello più rigoroso (favorevole alla necessità dell’accertamento del nesso causale in termini di certezza) delineatosi in tempi più recenti. L’articolato percorso motivazionale seguito nella sentenza ********, induce a ritenere che le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità (quale "condicio sine qua non" di cui agli artt. 40 e 41 c.p.) in termini di "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica", abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva (storica e scientifica), risultante da elementi probatori di per sè altrettanto inconfutabili sul piano della oggetti vita, bensì alla "certezza processuale" che, in quanto tale, non può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie: "certezza" che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico – analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dall’art. 192 c.p.p., comma 2, – che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva "al di là di ogni ragionevole dubbio" (vale a dire, appunto, con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica"). Invero, non pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto esprimere allorquando – con riferimento alla colpa professionale del sanitario – hanno testualmente affermato che deve risultare "giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica".

In applicazione dei principi di diritti enunciati da questa Corte, quali appena ricordati, i giudici del merito, ai fini dell’affermazione di colpevolezza del G. in ordine al reato ascrittogli, avrebbero dovuto dunque procedere ad un duplice accertamento: 1 ) individuare la condotta in concreto esigibile dal G. in relazione alla posizione di garanzia dello stesso; 2) accertare se, una volta posta in essere dal G. la condotta così individuata, e (secondo la contestazione) colposamente omessa, l’evento non si sarebbe verificato: e ciò al fine di poter giungere, sulla base del compendio probatorio disponibile – ed esclusa altresì l’interferenza di fattori alternativi – alla conclusione che la condotta omissiva del G. era stata condizione necessaria dell’evento con "alto o elevato grado di credibilità razionale"o "probabilità logica" (c.d. giudizio controfattuale).

Ciò posto, non resta ora che verificare se, nel caso che ne occupa, l’"iter" argomentativo seguito dai giudici di seconda istanza – posto a fondamento del convincimento della responsabilità del G. – sia in sintonia con i principi di cui sopra affermati dalle Sezioni Unite.

La risposta è negativa.

In primo luogo, la Corte territoriale, avendo individuato nel verbale dell’assemblea condominiale del (omissis) un elemento probatorio idoneo a dimostrare la esistenza di una concreta ed attuale condizione di pericolo tale da rendere doveroso un intervento del G. riconducibile alla posizione di garanzia di quest’ultimo, avrebbe dovuto puntualmente indicare le circostanze di fatto, desumibili da detto verbale, rivelatrici di una situazione di allarme, avvertita come tale anche dai condomini, in presenza della quale il G. avrebbe dovuto attivarsi a tutela delle parti comuni dell’edificio esposte al pericolo derivante dalla difettosa posa in opera della canna fumaria: tenendo conto, al riguardo, del testo completo del verbale in argomento (richiamato dal ricorrente), e non della sola parziale formulazione evidenziata a pag. 13 dell’impugnata sentenza, nonchè valutando la stessa volontà dell’assemblea condominiale quale desumibile da tale verbale. Sulla base degli elementi di valutazione così raccolti, la Corte distrettuale avrebbe dovuto poi specificamente indicare quale sarebbe stata in concreto la specifica condotta esigibile dal G.: un’azione giudiziaria (e quale?), il diretto e più pregnante coinvolgimento di Autorità locali (peraltro già a conoscenza della situazione, per come si rileva dagli atti), una diffida (ed in quali termini?) nei confronti del titolare della pizzeria e del proprietario dei locali della stessa, o altro ancora. In proposito, la Corte d’Appello ha ipotizzato due condotte asseritamente esigibili dal G. – una delle quali, peraltro, solo come eventuale – sottolineando (cfr. pag. 13 della sentenza) che il G. era rimasto inerte per circa un anno "anzichè attivarsi immediatamente presso R. prendendo i provvedimenti necessari (art. 1133 c.c.) ed eventualmente agire in giudizio in via di urgenza (neppur necessitava di previa investitura assembleare: art. 1131 c.p.)".

Ancor più evidente appare poi il vuoto motivazionale, nell’impugnata sentenza, in punto di accertamento del nesso causale, elemento costitutivo del reato.

Ed invero, una volta individuata la condotta (ritenuta) doverosa del G., in base ai criteri di accertamento ed ai canoni interpretativi indicati dalle Sezioni Unite con la sentenza ********, i giudici del merito avrebbero poi dovuto procedere al giudizio controfattuale, e verificare quindi – indicando compiutamente le ragioni del convincimento espresso, onde consentire a questa Corte di poter effettuare il controllo di legittimità sul contesto giustificativo della decisione – se sussistevano le condizioni per poter giungere alla conclusione, sulla base del compendio probatorio disponibile, ed esclusa altresì l’interferenza di fattori alternativi, che la condotta omissiva del G. era stata condizione necessaria dell’evento con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica". In proposito, la Corte ha ritenuto di poter motivare la ritenuta sussistenza del nesso causale così testualmente esprimendosi: "Tale colpevole inerzia ebbe dunque un ruolo casualmente incidente sulla produzione dell’evento dannoso, "cooperando" con la condotta non meno colposa di R. e Z., di cui si è detto, della quale G. era ben consapevole in virtù del suo ruolo e per quanto s’era ormai da lungo tempo dibattuto nelle assemblee di condominio" (pag. 14 della sentenza). Non può certo dirsi che la Corte d’Appello abbia puntualmente seguito il rigoroso schema motivazionale richiesto dalle Sezioni Unite: appare di tutta evidenza, "ictu oculi", che, al riguardo, si tratta di una motivazione apparente, caratterizzata da formulazioni assertive.

Resta solo da aggiungere, per mera completezza argomentativa, che le doglianze del ricorrente relative al mancato coinvolgimento del dottor B. nella vicenda "de qua", in alcun modo potrebbero rilevare in questa sede di legittimità, trattandosi di mera "quaestio facti".

Conclusivamente, l’impugnata sentenza deve essere annullata, con rinvio, per nuovo esame, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano che si atterrà ai principi di diritto sopra enunciati, e provvederà altresì alla regolamentazione delle spese tra le parti.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano cui rimette anche la regolazione delle spese tra le parti.

Così deciso in Roma, il 23 settembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2009

Redazione