Corte di Cassazione Penale sez. III 5/5/2005 n. 16879; Pres. Papadia U.

Redazione 05/05/05
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Svolgimento del processo

C. A. e C. E. ricorrono, per ministero del difensore, avverso la sentenza in data 21.11.2002, con cui il Tribunale di Pistoia li condannava, ciascuno alla pena di Euro 1.722,00 di ammenda per il reato, in concorso p.c.p. dagli artt. 14, c. 1 e 51 commi 1 e 2, D.L. 22/97, per avere, in cooperazione fra loro, quali consoci della s.n.c. "F.lli C. di C. A. & E.", effettuato lo scarico e il deposito incontrollato, su un terreno di proprietà, di rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da cumuli di calcinacci provenienti da demolizioni.

I ricorrenti lamentano il mancato riconoscimento, nei fatti loro ascritti, dell’ipotesi di deposito temporaneo di rifiuti, deposito escluso dal Tribunale per l’inosservanza dei tempi di giacenza (art. 6, c. 1, lett. m), punto 3, D.L. 22/97) e per non essere il raggruppamento dei rifiuti stato effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui erano prodotti. Al riguardo, i testi escussi in dibattimento avrebbero reso, al contrario, dichiarazioni favorevoli a supporto della tesi difensiva del deposito temporaneo, con particolare riguardo ai tempi di deposito; quanto al luogo di raccolta dei rifiuti, poi, sarebbe, secondo i ricorrenti, applicabile quanto stabilito dall’art. 58, c.7 – ter, D.L. 22/97, secondo cui i rifiuti provenienti da attività di manutenzione o assistenza sanitaria si considerano prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che svolge tale attività.

In ogni caso, invocano l’errore scusabile, in quanto il parere fornito dalla Provincia di Pistoia, favorevole all’applicabilità del citato art. 58 anche ai rifiuti non sanitari, costituirebbe "elemento positivo estraneo all’agente", idoneo ad indurlo in errore.

Sostengono, inoltre, i ricorrenti che, nella fattispecie, non si tratterebbe di rifiuti alla luce della interpretazione autentica del concetto di rifiuto, fornita dall’art. 14, L. 178/02, con valore di efficacia retroattiva, in quanto si sarebbe in presenza di materiali di risulta edile, provenienti da attività di manutenzione e ristrutturazione svolta dalla Ditta "F.lli C." presso i propri clienti, materiali utilizzati in altro ciclo produttivo o di consumo, senza essere sottoposti ad alcun trattamento preventivo e senza recare pregiudizio all’ambiente. Tale materiale inerte, pertanto, sarebbe stato "ciclicamente" trasportato presso la sede della impresa e da lì nuovamente prelevato per l’effettuazione di lavori di riempimento, senza mai uscire dal ciclo produttivo della ditta stessa.

I ricorrenti, infine, impugnano la sentenza nella parte in cui il giudice ha concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, d’ufficio, sostenendo di avere un concreto interesse alla revoca del beneficio, atteso che l’iscrizione di condanna a pena pecuniaria condizionalmente sospesa non può, ai sensi dell’art. 687 c.p.p. essere eliminata dal casellario giudiziale.

Motivi della decisione

Osserva la Corte che il Tribunale ha correttamente escluso, nella fattispecie, la ricorrenza di un’ipotesi di deposito temporaneo di rifiuti, avendo accertato che il raggruppamento di questi avveniva in luogo diverso da quello in cui venivano prodotti, nonché la mancata sussistenza di tutte le condizioni previste dall’art. 6, lett. m), D.L. 22/97, sia quantitative che temporali, in difetto delle quali si configura, appunto, il ravvisato reato di deposito incontrollato, sanzionato dall’art. 51, c. 2 del citato decreto n° 22 (Cass. III, 2057/03): la motivazione, al riguardo offerta dal Tribunale è esente da censura, in quanto espressa con un logico apparato argomentativo, che, pertanto, si sottrae, per legge, al sindacato della Corte di legittimità (Cass. S.U. 47289/03; S.U.6402/97).

Quanto, poi, in particolare, al luogo di raccolta dei rifiuti, va osservato che non è applicabile alla fattispecie quanto stabilito dall’art. 58, c. 7 – ter, D.L. 22/97, secondo cui i rifiuti provenienti da attività di manutenzione o assistenza sanitaria si considerano prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che svolge tali attività, dovendosi, secondo una corretta interpretazione, anche alla luce della "ratio" della norma, ritenere che la qualifica di "sanitaria" deve essere riferita non solo alla attività di "assistenza", ma anche a quella di "manutenzione".

Il legislatore, in proposito, ha voluto evidentemente, in considerazione della particolare natura delle sudette attività, privilegiare, nel caso in cui le prestazioni del personale sanitario delle strutture pubbliche e private vengono svolte ed erogate all’esterno delle stesse, il dato oggettivo costituito dall’individuazione del momento genetico dell’attività di produzione dei rifiuti, anziché quello, funzionale, fondato sull’individuazione del luogo in cui si svolgono le attività di manutenzione o assistenza sanitaria.

Inoltre, l’erronea interpretazione della legge, è anch’essa ignoranza inescusabile della legge stessa, ai sensi e per gli effetti dell’art. 5 c.p. e ciò anche nell’ipotesi che l’erronea interpretazione sia confortata da pareri dell’autorità amministrativa (cfr. Cass. 2970/78), come nella fattispecie sarebbe avvenuto.

I materiali di cui all’oggetto non possono essere, poi, esclusi dall’ambito dei rifiuti, come il ricorrente pretenderebbe, proprio alla stregua dell’invocato art. 14, D.L 138/02, convertito in l. 178/02 – che ha fornito l’interpretazione autentica del concetto di rifiuto – essendo mancata, nel caso concreto, la prova della effettiva riutilizzazione degli stessi in relazione alla volontà o all’obbligo di disfarsene (Cfr. sentenza, pagg. 5 – 6). Infatti, la prova del riutilizzo deve essere obiettiva, univoca e completa, non potendosi tener conto solo delle affermazioni o delle intenzioni dell’interessato, posto che i rifiuti richiedono un corretto e tempestivo recupero – se possibile e dimostrato -, oppure il loro smaltimento in modo compatibile con la salute e l’ambiente, interessi primari della società (Cass. III, 11007/99).

Per le esposte ragioni, le censure fin qui esaminate non meritano accoglimento, poiché infondate: diversa valutazione deve essere, invece, fatta per la censura riguardante la concessione d’ufficio della sospensione condizionale della pena; infatti, nell’ambito del potere discrezionale riconosciutogli dall’art. 163 c.p., il giudice può anche d’ufficio concedere il beneficio suddetto, facendo prevalere su un contrario interesse dell’imputato l’utilità che discende dalla funzione rieducativa insita nel beneficio in questione. Di tale prevalente utilità il giudice è, però, tenuto a fornire concreta dimostrazione, ciò che ha omesso di fare (Cass. 357/99). In effetti, il beneficio è stato concesso in relazione alla pena dell’ammenda e l’imputato ha certamente interesse alla revoca dello stesso, atteso che l’iscrizione di condanna a pena pecuniaria, condizionalmente sospesa, non può, ai sensi dell’art. 687, c.p.p., essere eliminata dal casellario giudiziale: interesse, questo, che sicuramente prevale su quello connesso alla funzione rieducativa della pena, avuto riguardo al caso specifico.

Pertanto, la sentenza impugnata deve essere senza rinvio annullata limitatamente alla concessione della sospensione condizionale della pena, beneficio che viene revocato dalla Corte, in quanto statuizione non implicante valutazioni di merito, mentre il ricorso, per le ragioni sopra esposte, va rigettato nel resto.

P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla concessione della sospensione condizionale della pena, che revoca; rigetta nel resto il ricorso.

Redazione