Corte di Cassazione Penale sez. I 29/10/2009 n. 41551; Pres. Giordano U.

Redazione 29/10/09
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OSSERVA

Con sentenza in data 21.11.2008 la Corte di Appello di Reggio Calabria ha accolto la richiesta di revisione presentata il 26.2.2008 da M.G. relativamente alla sentenza n. 1873/02 in data 12.7.2002 del Tribunale di Messina, confermata il 19.11.2004 dalla Corte di Appello di Messina, passata in giudicato il 12.12.2005, e lo ha in conseguenza assolto dal reato di diffamazione per mezzo della stampa per cui aveva riportato in precedenza condanna. Il M. era stato ritenuto colpevole, con la sentenza del 12.7.2002, della offesa alla reputazione di S.B., commessa in (omissis), per avere affermato in una conferenza stampa, riportata nell’articolo pubblicato sul quotidiano Gazzetta del Sud dal titolo " M.: accuse ordite dall’ulivo", fra le altre cose, che lo S., insieme a C.R. e ad P. I., aveva ordito una montagna di accuse che aveva portato in carcere il Presidente della Provincia M.G. e quindi era stato condannato alla pena di Euro 400,00 di multa, oltre che al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, da liquidarsi in separata sede.

Secondo la ricostruzione della sentenza in sede di revisione, S.B. aveva denunciato in data 16.10.1998 M. G., allora Presidente della Provincia – già sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per i reati di corruzione e associazione a delinquere per i quali era stato indagato sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia P.I., registrate dallo S. – per avere sostenuto in una conferenza stampa, poi ripresa sulla carta stampata, di essere stato vittima di un complotto, ordito ai suoi danni dalle sinistre, ed in particolare da C.R., candidato per la Presidenza della Provincia per l’Ulivo, dallo stesso S.B., ex consigliere provinciale, e dal collaboratore di giustizia P.I., i quali avevano costruito una montagna di accuse che lo avevano portato in carcere.

Il Tribunale di Messina aveva fondato il giudizio di responsabilità del M. sulla circostanza che le espressione utilizzate dall’imputato avevano una chiara ed univoca valenza diffamatoria ed erano offensive della reputazione dello S., in quanto travalicavano i limiti della continenza e l’imputato non aveva dato prova della verità dei fatti attribuiti al querelante, per cui non potevano ricondursi ad un legittimo diritto di critica, costituendo invece l’affermazione di un fatto disdicevole e non provato e non potevano neppure trovare giustificazione in un intento di difesa che non poteva spingersi fino all’accusa di altre persone estranee al processo.

Successivamente il M., con sentenza della Corte di Appello di Catania 11.4.2007, definitiva in data 31.10.2007, in totale riforma della sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Ragusa in data 22.7.2003, veniva assolto per insussistenza del fatto dai reati di associazione per delinquere e corruzione scaturiti dalle dichiarazioni del collaboratore P., registrate dallo S. e quindi presentava istanza 26.2.2008 di revisione ai sensi dell’art. 630 c.p.p., lett. a) e lett. c), per inconciliabilità dei fatti posti a base della sentenza di condanna oggetto di revisione con quelli stabiliti con la sentenza definitiva di assoluzione della Corte di Appello di Catania, nonchè per la novità della prova sopravvenuta, costituita dalla sentenza della Corte di Appello di Catania, che aveva incidentalmente accertato la verità dei fatti affermati dal M. nell’intervista.

Alla revisione si opponeva lo S., che si costituiva parte civile anche nel giudizio di revisione, eccependo la mancanza di nesso causale tra la sentenza assolutoria, che era relativa soltanto ad alcuni dei delitti per i quali il M. era stato ripetutamente condannato e la diffamazione aggravata che restava tale, a prescindere dalla assoluzione, nonchè la mancanza del requisito della novità della prova in presenza di un elemento che era già stato esaminato nel processo per la diffamazione e che non poteva quindi essere oggetto ora di diversa valutazione.

La Corte di Appello di Reggio Calabria, esclusa la sussistenza di un conflitto di giudicati, ha accolto la richiesta di revisione sotto il profilo di cui all’art. 630 c.p.p., lett. c), ritenendo che la prova nuova – consistente nel giudicato della Corte di Appello di Catania, che aveva accertato la assoluta inaffidabilità del dichiarante P. il quale era riuscito ad intrufolarsi negli uffici provinciali spacciandosi per intermediario e procacciatore di appalti pubblici, ma, deluso nelle sue aspettative dal M., aveva poi coltivato un piano vendicativo nei confronti del M., sfociato nella chiamata in correità di quest’ultimo in relazione a comuni progetti di corrutela, smentiti però dalla mancata assegnazione di incarichi da parte del M. al P. – fosse idonea ad inficiare l’accusa posta a fondamento della sentenza di condanna per diffamazione poichè era rimasto altresì accertato che P., deluso dal M., aveva cercato soluzioni di ripiego incontrando gli avversari politici del M., S. e C. (che avevano registrato segretamente i colloqui intrattenuti con P.), che gli avevano fatto credere, senza che ciò fosse vero, di averlo denunciato, al solo fine di intimorirlo e di spingerlo alla denuncia nei confronti del M.. Da tali elementi la Corte di Appello di Reggio Calabria ha desunto che il M. non diceva il falso, o comunque era legittimamente convinto di non dirlo, durante la conferenza stampa, dal momento che la circostanza che le accuse provenissero dal P. e fossero state registrate dai suoi avversari politici C. e S., nel corso di reiterati incontri, potevano indurlo a ritenere che effettivamente essi fossero partecipi di un complotto ordito ai suoi danni per motivi di rivalità politica e non poteva neppure ritenersi che i toni usati dal M. esorbitassero dai limiti della continenza poichè nell’intervista aveva usato un linguaggio corretto e le sue accuse erano inserite, in modo pertinente, in un contesto teso a dimostrare la ingiustizia della sua detenzione carceraria che egli riteneva, a ragione, come emerso successivamente, conseguenza di accuse false; il che imponeva di ritenere insussistente, alla luce degli elementi di novità apportati dalla sentenza della Corte di Appello di Catania, l’elemento oggettivo del reato di diffamazione aggravata a carico del M..

Contro la sentenza hanno presentato ricorso in data 4 aprile 2009 ***** personalmente ed in data 6 aprile 2009 i suoi difensori nominati procuratori speciali, questi ultimi anche in ordine alla statuizioni civili derivanti dalla sentenza impugnata, chiedendo l’annullamento senza rinvio della detta sentenza e lamentando con due separati motivi:

– violazione dell’art. 631 c.p.p. e art. 630 c.p.p., lett. c):

erroneamente era stata ritenuta ammissibile la istanza di revisione basata sulla sentenza della Corte di Appello di Catania, valutata idonea a contrastare l’accusa, trattandosi al contrario di sentenza irrilevante ai fini di un proscioglimento del M. per il reato di diffamazione, poichè, anche se il P. era stato ritenuto in altra sede individuo non affidabile così da comportare la assoluzione del M. dai reati di associazione e di corruzione che si fondavano, per gran parte, su quelle accuse, ciò non era in grado di confutare la condanna del M. per il reato di diffamazione e non lo sarebbe stata neppure se avesse accertato la sussistenza di un vero e proprio complotto ai danni del M., poichè quest’ultimo era stato condannato per avere attribuito allo S. fatti e qualità disdicevoli (fra l’altro definendo lo S. unitamente ad altri, nel corso della conferenza stampa, "compagni di merenda", facente parte di una "brigata", coautore di un "patto leonino" a suo danno) che non avevano alcun rapporto con la inattendibilità del P., così superando il limite della continenza, il cui rispetto era sempre richiesto affinchè si potesse invocare la scriminante di cui all’art. 51 c.p.;

– inosservanza od erronea applicazione degli artt. 595 e 51 c.p., art. 21 Cost., nonchè manifesta illogicità della motivazione della sentenza: erroneamente era stata ritenuta sussistente la esimente dell’esercizio di un diritto lesivo della altrui reputazione in assenza dei presupposti individuati dalla giurisprudenza consolidata di legittimità ed in particolare in violazione dei principi della verità della notizia e del rigoroso controllo della attendibilità della fonte e della continenza, consistente nella correttezza della esposizione dei fatti in modo che siano vietate gratuite aggressioni dell’altrui reputazione; la verità era infatti cosa diversa dalla verosimiglianza dei fatti narrati ed era quella che risultava al momento in cui la notizia veniva diffusa (quando cioè il M. non aveva alcuna prova dell’assunto complotto e si trattava di soggettive supposizioni che andavano a ledere la reputazione dei suoi avversari politici) e non quella accertata successivamente e nella specie non accertata neppure successivamente poichè, se P. era inaffidabile, lo era su tutto e non soltanto quando accusava M.;

il limite della continenza non era stato rispettato poichè le dichiarazioni rese alla stampa e da questa riportate virgolettate (compagni di merende ed altro) avevano una univoca valenza diffamatoria e risultavano eccessive ed aggressive dell’interesse morale della persona, trascendendo in attacchi personali diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale del soggetto criticato, sfera tutelata penalmente.

Con comunicazione pervenuta il 14.9.2008 S.B. personalmente ha rilevato di non avere ricevuto la comunicazione della fissazione dell’odierna udienza e che per sua volontà i difensori non sarebbero stati presenti in udienza.

All’odierna udienza si è presentato il solo Procuratore Generale presso questa Corte che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Il rilievo in ordine alla mancata notificazione della fissazione dell’odierna udienza allo S. personalmente è inconferente poichè, a norma del combinato disposto di cui all’art. 610 c.p., comma 5 e art. 613 c.p.p., commi 2 e 4, che riguardano specificamente il giudizio di Cassazione, la parte personalmente ha diritto all’avviso solo se non assistita dal difensore di fiducia mentre nella specie la parte – comunque a conoscenza della precisa data dell’udienza indicata nella nota fatta pervenire dalla stessa in data 14.9.2009 – era rappresentata ed assistita da ben due difensori, ************************* e ***********************, entrambi del foro di Siracusa, nominati suoi difensori e procuratori speciali con mandato professionale e procura speciale in calce al ricorso depositato il 6 aprile 2009, che hanno ricevuto la notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza.

Il ricorso, sottoscritto dai difensori dello S. e depositato il 6 aprile 2006, al contrario di quello inizialmente presentato dalla parte personalmente, è ammissibile poichè contiene il riferimento agli effetti civili che vuole conseguire e proviene da avvocati iscritti all’albo speciale presso la Corte di Cassazione (v. Cass. n. 25525 del 2008, rv. 240646; Cass. n. 5070 del 2006 rv. 233273).

Lo stesso è peraltro infondato e deve essere come tale rigettato.

La verità dei fatti affermati dal M. nell’intervista con riguardo alla tesi del complotto ordito ai suoi danni dai suoi avversari politici, fra cui S., è stata ritenuta accertata dalla sentenza impugnata, con giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, sulla base del giudicato penale della Corte di Appello di Catania dell’11.4.2007 che aveva assolto S. per totale insussistenza del fatto dai reati di associazione per delinquere e corruzione scaturiti dalle dichiarazioni del collaboratore P., che erano state registrate dallo S. al fine di costituire la prova a carico del suo antagonista M. il quale era stato sottoposto a misura cautelare in base a quelle registrazioni.

Si trattava di una prova sicuramente nuova in quanto integrata dai nuovi accertamenti svolti nel processo per associazione per delinquere e corruzione a carico dello S., che avevano portato alla sua assoluzione definitiva, non solo in termini di nuove valutazione, ma anche di nuovi fatti quali l’accertamento del piano vendicativo nei confronti del M. ordito dal P. ed agevolato dagli avversari politici del M. ( S. e C.) che avevano fatto credere a P., senza che ciò fosse vero, di averlo denunciato al solo fine di spingerlo alla denuncia contro il M..

La circostanza che, durante la conferenza stampa, unitamente alla esposizione della tesi del complotto (chiaramente emersa una volta che il M. era stato scarcerato, anche se accertata con sentenza definitiva anni dopo e di cui il M. poteva quindi parlare in quel momento in termini di certezza soggettiva, poi però diventata oggettiva e quindi "vera" in sede di accertamento giudiziale definitivo), il M. avesse aggiunto delle espressioni "pesanti" nei confronti de suoi accusatori (quali "compagni di merenda", "brigata" ecc.) non appare idoneo al superamento del limite della "continenza" (costituente, unitamente ai principi della pertinenza e della verità, le condizioni per l’esercizio legittimo dei diritti di critica e di cronaca) poichè il diritto di critica presenta una sua necessaria elasticità e non è necessariamente escluso dall’uso di un epiteto infamante, dovendo la valutazione del giudice di merito soppesare se il ricorso ad aggettivi o frasi particolarmente aspri sia o meno funzionale alla eventuale assoluta gravità oggettiva della situazione rappresentata (v, Cass. sez. 5 n. 11950 del 2005, rv. 231711); come nel caso in esame in cui non appare manifestamente illogica la valutazione del giudice di merito in ordine alla pertinenza delle espressioni adottate nel momento in cui il M. era stato appena scarcerato dopo avere subito un periodo di ingiusta detenzione e si trovava quindi in uno stato di agitazione che giustificava quelle espressioni sicuramente "pesanti", ma che non costituivano attacchi personali o gratuiti alla sfera morale dei soggetti, svincolati dalla situazione rappresentata, in quanto invece specificamente funzionali ad illustrare la tesi del complotto che presupponeva più soggetti (compagni o brigata) intenti ad attività illecite contro l’avversario politico.

Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (art. 616 c.p.p.).

P.Q.M.

LA CORTE SEZIONE PRIMA PENALE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione