Corte di Cassazione Penale sez. I 11/3/2009 n. 10767; Pres. Canzio G.

Redazione 11/03/09
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OSSERVA

Con ordinanza in data 9 ottobre 2008 il Tribunale di Reggio Calabria – Sezione per il riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale ha rigettato l’appello presentato da A.D., indagato per i delitti di associazione mafiosa ed omicidio aggravato, contro il provvedimento del GIP in sede in data 11 aprile 2008 che aveva respinto la richiesta dell’indagato di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, ai sensi dell’art. 274 c.p.p., comma 4, in quanto padre di una bambina di un anno e mezzo la cui madre lavorava a (omissis) presso una società cooperativa.

Il Tribunale, premesse le esigenze massime social preventive poichè l’A. rispondeva davanti alla Corte di Assise di Locri dell’omicidio F. oltre che di associazione mafiosa ed era sottoposto al regime speciale di detenzione di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario proprio a causa della sua rilevante pericolosità, ha rilevato che comunque la impossibilità del coniuge di provvedere alla figlia (fra l’altro nata il (omissis) e quindi prossima, già al momento della domanda, al compimento di tre anni), addotta dall’indagato a causa della circostanza che la moglie lavorava, non fosse provata e tanto meno assoluta ben potendo il genitore che lavora ricorrere ad istituti di assistenza ovvero all’ausilio di familiari.

Contro tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell’ A. deducendo violazione dell’art. 275 c.p.p., comma 4, in relazione agli artt. 416 bis, 575 e 577 c.p.p. poichè la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza non era necessariamente collegata alla collocazione dell’indagato ad un livello superiore a quello di manovalanza criminale; per cui, escluse le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, interessava soltanto la impossibilità per la madre di dare assistenza al figlio di età minore di tre anni, il che nella specie era documentato poichè la madre viveva a (omissis) con la figlioletta di un anno e sei mesi e lavorava dalle 8 alle 12 e dalle 15 alle 19.

Il ricorso è manifestamente infondato.

Questa Corte ha ripetutamente affrontato la questione della applicabilità del divieto di custodia in carcere di uno dei genitori di un bambino di età inferiore ai tre anni, ai sensi dell’art. 275 c.p.p., comma 4, qualora l’impedimento addotto dall’altro genitore consista nella attività lavorativa e la ha ripetutamente risolta nel senso che la attività lavorativa del genitore non è di per sè automaticamente impeditiva della possibilità di assicurare assistenza al figlio, anche piccolissimo, poichè il lavoro dell’unico genitore o di entrambi i genitori consente in via generale di prendersi cura dei figli, anche eventualmente con l’aiuto di familiari disponibili o con il ricorso a strutture pubbliche o private abilitate (v. Cass. N. 47073 del 2003, rv. 226978; n. 20233 del 2006, rv. 234659; n. 33850 del 2006, rv. 235194; n. 38067 del 2006, rv. 235757; n. 5664 del 2007, rv. 236128).

Il suddetto orientamento giurisprudenziale si basa sul rilievo che ormai una rilevante percentuale di famiglie italiane è composta da un solo genitore ovvero da entrambi i genitori che lavorano ma non per questo trascurano i figli o li privano di assistenza, considerato anche le provvidenze legislative a favore del genitore che lavora (riduzione dell’orario di lavoro, possibilità di assentarsi dal lavoro in caso di malattia del bambino) e gli istituti sostitutivi ed economici (nidi, scuole dell’infanzia pubbliche e private ecc.) a sostegno della genitorialità. Non è invero sufficiente il lavoro della madre per fare ritenere che la stessa sia assolutamente impedita a prestare assistenza al figlio minore di tre anni, dovendosi altrimenti escludere che tutte le madri di figli in tenera età possano lavorare, occorrendo invece altri e più gravi presupposti per fare ritenere che la madre sia assolutamente impossibilitata a prestare assistenza al figlio. Ed anzi proprio l’uso dell’avverbio "assolutamente" da parte della norma fa riferimento a situazioni gravi ben diverse dalla attività lavorativa ordinaria.

La sentenza ******* (n. 47473 del 2004, rv. 230802) è l’unica che si è posta in consapevole contrasto con il diverso orientamento, sia pure sotto il limitato profilo che il mero richiamo alla possibilità di ricorrere ad istituti pubblici o a parenti non sarebbe, da solo, sufficiente ad escludere la assolutezza dell’impedimento materno, ed ha per questo annullato con rinvio il provvedimento impugnato – motivato sotto il profilo che la attività lavorativa della madre non integrasse un impedimento alla assistenza del figlio "potendo la stessa farvi fronte attraverso altri componenti della famiglia" – pur con il rilievo che poi il giudice del rinvio avrebbe dovuto tenere conto del fatto che la garanzia di educazione, presenza ed assistenza dei figli non è incompatibile con lo svolgimento di una normale attività lavorativa, come peraltro avviene nelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano e che inoltre la funzione assistenziale del padre, ove risulti impossibile quella della madre, è subordinata alla stessa condizione prevista per l’assistenza materna e cioè alla convivenza con prole di età inferiore ai tre anni.

Ciò posto, è evidente che un precedente giurisprudenziale non completamente in linea con la motivazione seguita dal Tribunale non può inficiare la correttezza della ordinanza impugnata la quale ha esattamente rilevato che la sola attività lavorativa dipendente della madre non appare inconciliabile con la assistenza della prole, in assenza di qualsiasi allegazione in merito a particolari caratteristiche di tale attività, idonee a fare apparire la attività particolarmente gravosa, non dedotte dall’interessato davanti al Tribunale e neppure in sede di ricorso con cui si allega soltanto che la attività lavorativa della madre sarebbe di quaranta ore settimanali, il che costituisce la ordinaria durata della attività lavorativa dipendente in (omissis).

La motivazione del provvedimento impugnato appare in sostanza ineccepibile e conforme al parametro normativo di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4, mentre il ricorrente muove censure di mero fatto che non possono trovare ingresso in sede di legittimità in presenza di una motivazione del provvedimento impugnato priva di contraddizioni o di salti logici e che ha fatto corretta applicazione delle disposizioni di legge.

E’ appena il caso di aggiungere che nel frattempo la minore, che, come risulta dal provvedimento impugnato e come dedotto dalla madre nella propria attestazione, è nata il (omissis), ha superato l’età di tre anni.

Il ricorso, in quanto manifestamente infondato sotto tutti i profili addotti, deve essere pertanto dichiarato inammissibile con le conseguenze di legge indicate nel dispositivo (art. 616 c.p.p.).

La cancelleria provvedere all’adempimento previsto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di 1.000,00 Euro alla Cassa delle Ammende.

Dispone che sia trasmessa, a cura della cancelleria, copia del presente provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis.

Redazione