Corte di Cassazione Lavoro 7/11/2007 n. 23162; Pres. Mattone S., Est. Monaci S.

Redazione 07/11/07
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Svolgimento del processo

IL signor S.G., già dipendente delle società Ferrovie dello Stato dal 1963 al 1991, conveniva in giudizio la società stessa esponendo in narrativa di avere svolto in un primo periodo attività di manovale addetto alla composizione dei treni ed alle pulizie, ed in un secondo periodo quella di macchinista con compiti di manovra nel deposito e presso gli scali che in due distinte occasioni, nel 1980 e nel 1983, gli erano state riconosciute come infermità imputabili a causa di servizio rispettivamente un’ulcera bulbare ed una artrosi lombare;

Che ciò nonostante aveva continuato ad essere assegnato alle stesse mansioni;

Che questo comportamento colpevolmente omissivo dell’azienda aveva comportato l’insorgenza di una ulteriore patologia (una particolare forma di angina, l’angina di Prinzmetal);

Che la sua domanda di riconoscimento della dipendenza di questa infermità da causa di servizio era stata rigettata, e che infine che dall’aprile 1991 era stato dichiarato inidoneo allo svolgimento delle proprie mansioni.

Chiedeva perciò che la datrice di lavoro venisse condannata al risarcimento del danno alla salute e del danno morale.

Costituitosi il contraddittorio ed istruita la causa, il Giudice di primo grado accoglieva la domanda.

Con sentenza di appello in data 7 – 15 ottobre 2004 il Tribunale di Roma andava in contrario avviso e rigettava la domanda proposta dal S..

La sentenza riteneva che non potesse addebitarsi all’azienda alcun comportamento colpevole per avere adibito il dipendente a mansioni proprie del profilo di appartenenza, quelle di manovale e di macchinista.

In linea di principio avrebbe potuto riconoscersi una responsabilità dell’azienda per i danni maggiori che si fossero prodotti dopo la conoscenza delle malattie da parte del datore di lavoro, perchè, consapevole dello stato di salute del dipendente, avrebbe dovuto adottare i comportamenti più idonei ad evitare l’aggravamento dello stato patologico denunziato.

Nel caso di specie, però, questo non era avvenuto perchè il lavoratore aveva, denunziato di essere affetto anche da quella specifica malattia soltanto il 23 novembre 1990, e, compiuti gli accertamenti del caso, la datrice di lavoro dopo pochi mesi lo aveva esonerato dalle proprie mansioni e lo aveva, assegnato a compiti meno gravosi.

Il Tribunale riteneva, inoltre, sulla base degli accertamenti peritali, che la nuova affezione non, potesse ricondursi casualmente all’attività lavorativa.

Nè vi erano state aggravamenti delle altre due patologie già riconosciute.

Avverso la sentenza d’appello, che non risulta notificata, il S. ha proposto ricorso per cassazione, con quattro motivi, notificato, in termine, 12 ottobre 2005.

L’intimata società Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. resiste con controricorso notificato, in termine, il 21 novembre agosto 2005.

Entrambe le parti hanno depositato memorie difensive.

Motivi della decisione

1. Nel primo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1092 del 1973, art. 64, e art. 41 c.p., anche in relazione all’art. 2087 c.c., e l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Contesta l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui l’angina lamentata non sarebbe stata collegata casualmente all’attività lavorativa, ed osserva che la dimostrazione del rapporto di causalità fra la malattia non tabellata ed il lavoro poteva anche assumere la consistenza non di certezza storica ma di una elevata probabilità. 2. Con il secondo motivo di impugnazione il S. denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di legge, e specificamente degli artt. 115 e 116 c.p.c., e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Contesta le risultanze dell’accertamento peritale e sostiene che la sentenza era illegittima là dove si era adagiata acriticamente sulle conclusioni del consulente tecnico, che, a sua volta, aveva ignorato le osservazioni medico – legali dell’imputato.

3. Nel terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c., e artt. 2043 e 1218 c.c., così come degli artt. 32 e 41 Cost., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Lamenta che il Tribunale abbia violato le norme che imponevano all’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore e di adottare tutte le misure idonee a preservare i lavoratori da qualsiasi lesione.

Il Giudice, invece, aveva omesso di prendere dettagliatamente in esame le risultanze istruttorie e di trame le logiche conclusioni.

4. Infine, con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di legge e specificamente dell’art. 2087 c.c..

Lamenta specificamente che il tribunale avesse preso in considerazione solamente il danno fisico, ma non il danno biologico.

5. Il ricorso non è fondato, e non può trovare accoglimento.

I diversi motivi, connessi tra loro, debbono essere esaminati unitariamente.

Una parte delle censure del ricorrente è inammissibile perchè si risolvono, in realtà nella riproposizione di questioni di fatto, non suscettibili di un nuovo esame in questa fase di legittimità.

Per questo sono inammissibili sia il primo motivo, con cui il ricorrente ripropone la questione dell’esistenza di un nesso di causalità tra la specifica forma di angina da cui è affetto e l’attività lavorativa svolta, sia il secondo motivo con cui contesta le risultanze dell’accertamento peritale disposto dal Tribunale, come pure, almeno in parte, il terzo motivo con cui ribadisce l’esistenza di una colpa della società datrice di lavoro per non aver tutelato la salute del dipendente.

6. Il terzo motivo, oltre che parzialmente inammissibile, è anche infondato.

Come, infatti, sottolineato più volte dalla giurisprudenza di questa Corte, sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di "neminem laedere" espresso dall’art. 2043 c.c., (la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico – fisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 c.c., ad integrazione "ex lege" delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione determina l’insorgenza di una responsabilità contrattuale).

Conseguentemente, il danno biologico – inteso come danno all’integrità psico – fisica della persona in sè considerata, a prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione – può in astratto conseguire sia all’una che all’altra responsabilità. Qualora la responsabilità fatta valere sia quella contrattuale, dalla natura dell’illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico – fisica del lavoratore) non deriva affatto che si versi in fattispecie di responsabilità oggettiva (fondata sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all’espletamento della prestazione lavorativa), ma occorre pur sempre l’elemento della colpa ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa – che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana – va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall’art. 1218 c.c., (diverso da quello di cui all’art. 2043 c.c.), cosicchè grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione, mentre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psico – fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa." (Cass. civ., 24 febbraio 2006, n. 4184; nello stesso senso, 5 marzo 2002, n. 3162; 7 novembre 2000, n. 14469; 5 febbraio 2000, n. 1307).

E’ necessario, inoltre, "che siano ravvisabili, nella condotta del datore di lavoro, profili di colpa cui far risalire il danno all’integrità fisica patito dal dipendente", e, di conseguenza, "quando l’espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l’aggravamento di una preesistente malattia, non può ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l’integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest’ultimo e dell’incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli." (Cass. civ, 22 aprile 1997, n. 3455).

7. Perciò il lavoratore che chiede un risarcimento ai sensi dell’art. 2087 c.c., deve provare innanzi tutta l’esistenza di un nesso di causalità tra la prestazione lavorativa e la malattia dedotta.

Solo allora, in caso positivo, il datore di lavoro dovrà provare di avere fatto tutto quanto necessario per evitare l’insorgenza dell’affezione, e, eventualmente, l’aggravamento di essa. Secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, che lo ha dimostrato attraverso una motivazione puntuale, completa e convincente partendo dalle risultanze peritali, nel caso di specie il lavoratore non ha dimostrato l’esistenza di un nesso di causalità tra l’evento dannoso e lo svolgimento della prestazione lavorativa (e, di conseguenza, il datore di lavoro non era tenuto a fornire la prova liberatoria di avere ottemperato all’obbligo di protezione), mentre nella condotta del datore di lavoro non sono emersi profili di colpa cui far risalire il danno patito dal dipendente, anche perchè è risultato che una volta avuta conoscenza della malattia l’azienda ha provveduto ad assegnare il dipendente ad altre mansioni.

8. La sentenza ha chiarito, inoltre, sempre sulla base delle risultanze peritali, che le altre due malattie che invece erano state riconosciute come dipendenti da causa di servizio, vale a dire l’ulcera bulbare e l’artrosi cervicale, non avevano subito aggravamenti, e che, in particolare, l’artrosi non comportava compromissioni funzionali significative, mentre l’ulcera duodenale non era in atto, ma guarita.

9. Il quarto motivo, con cui il ricorrente lamenta che il Giudice d’appello non avrebbe tenuto conto del danno all’integrità psicofisica, ma solamente del danno fisico, è assorbito dal rigetto dei motivi precedenti.

10. Il ricorso perciò deve essere rigettato.

Le spese, liquidate nella misura indicata nel dispositivo, seguono la soccombenza a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese che liquida in Euro 35.00, oltre ad Euro 1.500,00, (millecinquecento/00) per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA.

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