Riparazione per l’ingiusta detenzione

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Quando è ammissibile la domanda attinente alla privazione della libertà personale subita in relazione a procedura di estradizione per l’estero?

 In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, è ammissibile la domanda attinente alla privazione della libertà personale subita in relazione a procedura di estradizione per l’estero, sia quando si tratti di una delle ipotesi di cui rispettivamente agli artt. 715 e 716 cod. proc. pen., sia quando si versi nell’ipotesi di cui all’art. 714 cod. proc. pen..

A seconda dei casi può di ingiustizia cd. ‘sostanziale’ (art. 314, co. 1 cod. proc. pen.), rinvenibile quando non sussistevano le condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione, o di ingiustizia cd. ‘formale’ (art. 314, co. 2 cod. proc. pen.), il riconoscimento del diritto presuppone comunque che non sia ravvisabile un comportamento doloso o gravemente colposo dell’istante, fattosi concausa dell’erroneo provvedimento coercitivo.

(Annullamento con rinvio)

(Normativa di riferimento: C.p.p artt. 314, 714, 715, 716)

Il fatto

 La Corte di appello di Milano, con ordinanza, rigettava la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da M. P., in relazione al periodo di detenzione cautelare dal medesimo patito in relazione alla procedura per la sua estradizione per l’estero; richiesta avanzata dopo che la domanda dello Stato estero era stata respinta dalla Corte di Appello di Milano con sentenza emessa il 9.7.2015.

Ad avviso del giudice della riparazione nella specie, difatti, non ricorrevano le condizioni previste dall’art. 314 cod. proc. pen., mancando una pronuncia assolutoria.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione e la richiesta formulata dalla Procura generale

 Avverso tale decisione ricorreva per cassazione il M. a mezzo del difensore di fiducia, avv. R. V., articolando tre motivi, con i quali si deduceva: a) violazione di legge in relazione gli artt. 314, co. 2 e 273, co. 1 cod. proc. pen. asserendo che nel momento in cui era stata richiesta la misura cautelare non vi era alcun elemento di prova a carico dell’estradando; b) violazione di legge in relazione agli artt. 714, co. 2, 274, co. 2 lett. b), 715, co. 2 lett. c) cod. proc. pen. avendo la Corte di Appello omesso di valutare che nel caso di specie l’ordinanza cautelare era stata illegittima per mancanza del pericolo di fuga dell’estradando; pericolo ritenuto sulla base della sola gravità del reato contestato (concorso in omicidio volontario) ed in realtà insussistente, atteso il radicamento del M. sul territorio italiano; c) violazione di legge in relazione agli artt. 275, co. 3 e 714 cod. proc. pen. in quanto la Corte di Appello non aveva tenuto conto delle eccezioni di illegittimità della misura adottata, attinenti alla eccessività della misura della custodia in carcere, potendo le esigenze cautelari essere soddisfatte con misura meno afflittiva.

A sua volta il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione avevo chiesto che venisse dichiarato il ricorso.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

La Cassazione accoglieva il ricorso proposto alla stregua delle seguenti considerazioni.

Si osservava in via pregiudiziale come i motivi proposti dal ricorrente fossero ripetitivi delle osservazioni proposte al giudice della riparazione in funzione di sostegno della richiesta di riparazione mentre, come da giurisprudenza elaborata in sede di legittimità ordinaria, i motivi del ricorso per cassazione devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013 – dep. 26/06/2013, omissis, Rv. 255568); e ciò accade anche quando si riproducano i motivi già prospettati al giudice impugnato, le cui ragioni non vengono considerate dalla mera reiterazione di quelli.

Ad ogni modo, pur a fronte di quanto esposto, ad avviso della Corte, doveva comunque farsi una distinzione a seconda che venga dedotto il vizio della motivazione o la violazione di legge atteso che, in questo secondo caso, essendo irrilevante la motivazione che giustifica l’applicazione della regola íuris (cfr. Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 – dep. 26/10/2017, omissis, Rv. 27145101 e Sez. 5, n. 4173 del 22/02/1994 – dep. 13/04/1994, omissis, Rv. 19799301, per la quale “non sono denunciabili in Cassazione i vizi della motivazione nelle questioni di diritto affrontate dal giudice di merito allorquando sia corretta la soluzione sotto il profilo strettamente giuridico, poiché l’interesse all’impugnazione nasce solo dall’errata soluzione della suddetta questione”), deve ritenersi indifferente tanto la motivazione resa dal giudice quanto la sua confutazione ad opera della parte: l’una e l’altra potrebbero essere errate senza che perciò possa essere ignorata dal giudice di legittimità la sussistente violazione di legge (ed infatti il giudice di legittimità può correggere la motivazione errata posta a base di una corretta applicazione della legge: art. 619 cod. proc. pen.) mentre solo se (ma è il più delle volte) l’applicazione della norma presuppone l’accertamento di fatti, su tale peculiare segmento del percorso logico-giuridico può avere spazio una verifica dell’apparato motivazionale e quindi un più consistente onere di specificità dell’impugnante fermo restando che qualora il ricorrente intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, più violazioni della legge processuale, ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. c, cod. proc. pen., egli ha l’onere di indicare per ciascuna norma che si assume violata in cosa si sia concretizzata la presunta violazione costituente oggetto di doglianza, altrimenti incorrendo nella aspecificità e quindi nella inammissibilità del ricorso (cfr. Sez. 2, n. 25741 del 20/03/2015 – dep. 18/06/2015, omissis, Rv. 264132).

Quanto appena enunciato induceva il Supremo Consesso ad affermare che la violazione di legge può essere riproposta al giudice dell’impugnazione senza necessità di argomentazioni nuove rispetto a quelle già articolate nel precedente grado di giudizio; in tal caso la necessaria specificità del motivo si concreta nella puntuale deduzione delle violazioni di legge, sostanziale o processuale, nonché delle ragioni della loro rilevanza nel caso concreto, mentre non soddisfa il requisito della specificità il mero richiamo delle disposizioni cui quelle si riferiscono (cfr. Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 – dep. 22/02/2017, omissis, Rv. 268823).

Declinando l’argomentazione giuridica al caso di specie, i giudici di Piazza Cavour facevano presente come le doglianze del ricorrente non fossero state vagliate dalla Corte di Appello la quale aveva ritenuto insussistente una condizione logicamente ‘preliminare‘ rispetto a quella del pericolo di fuga (del quale si tratterà in prosieguo), ovvero la ricorrenza di una pronuncia di assoluzione mentre dal canto suo il ricorrente, lamentando che non fosse stata ritenuta l’ingiustizia della detenzione, contestava il presupposto del giudizio, ovvero la ritenuta indispensabilità della pronuncia assolutoria ed, insistendo nella indicazione dell’inesistenza del pericolo di fuga come causa di ingiustizia della detenzione patita, prospettava l’esito precluso dall’erronea applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen..

Posto ciò, si veniva a trattare la questione posta dal ricorso in esame ovvero: se in relazione alla detenzione subita in funzione dell’estradizione sia condizione necessaria della riparazione prevista dall’art. 314 cod. proc. pen. una pronuncia di assoluzione (secondo la prospettazione della Corte di Appello condivisa dal P.G. requirente).

Al riguardo si faceva presente come in punto di fatto giovasse rilevare che, secondo i dati emergenti dal provvedimento qui impugnato, il M. veniva arrestato il 26.3.2015 a fini estradizionali.

Il 27.3.2015 la Corte di Appello convalidava l’arresto e dispose la custodia in carcere. Il 27.5.2015 il Ministero della Giustizia trasmise alla Procura Generale presso la Corte di Appello di Milano la domanda di estradizione dell’Autorità greca presentata il 21.4.2016; essa veniva respinta dalla corte distrettuale con sentenza del 9.7.2015 e seguiva dunque la revoca della misura custodiale. .

Precisato ciò, gli ermellini ritenevano necessario, per dare risposta al quesito, evidenziare l’evoluzione interpretativa conosciuta dall’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione; evoluzione che lo ha condotto ad un più vasto ambito di applicazione, rispetto a quello definito dal legislatore nel dare attuazione alla legge-delega del 16.2.1987, n. 81.

A tal fine si metteva prima di tutto in risalto come, secondo la previsione codicistica, l’indennizzo competa in primo luogo a chi, sottoposto a custodia cautelare, è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, sempre che non abbia concorso con colpa grave o dolo all’adozione del provvedimento restrittivo (comma 1); inoltre compete a chi è stato prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura é stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 cod. proc. pen.  (comma 2) e, alle medesime condizioni, l’indennizzo può essere riconosciuto a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione o sentenza di “non luogo a procedere” (comma 3).

A sua volta la limitazione del diritto derivante dalla necessità che il proscioglimento sia pronunciato per ragioni di merito atteso che il quarto comma dell’art. 314, nel disporre che “il diritto alla riparazione é escluso … per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo” aveva portato la prevalente giurisprudenza di legittimità a ritenere che se il provvedimento restrittivo della libertà è fondato su più contestazioni, il proscioglimento con formula non di merito anche da una sola di queste, semprechè autonomamente idonea a legittimare la compressione della libertà, impedisce il sorgere del diritto, irrilevante risultando il proscioglimento dalle altre imputazioni (ex multis, Sez. 4, n. 18343 del 02/03/2007 – dep. 15/05/2007, omissis, Rv. 236411).

Sicchè se ne faceva conseguire come risultasse così non indennizzabile la detenzione che, imposta per reato per il quale intervenga proscioglimento nel merito, sia stata subita anche per reato per il quale venga ritenuta mancante la prescritta condizione di procedibilità (Cass. Sez. 4, n. 5949 del 13.12.2002, rv. 226152); o anche per reato estinto per prescrizione (Cass. Sez. 4, n. 3590 del 04/12/2006 – dep. 31/01/2007, omissis, Rv. 236010).

Oltre a ciò, si metteva in risalto il fatto che, sempre secondo il tenore delle disposizioni, non può essere ottenuto l’indennizzo quando la detenzione subita non abbia avuto funzione cautelare ma sia stata espiata in esecuzione della condanna inflitta con pronuncia definitiva e medesima soluzione ricorre nell’ipotesi in cui venga sofferto un periodo di detenzione cautelare superiore alla pena che risulta inflitta con il giudicato pur evidenziandosi al contempo che queste ed altre limitazioni, insite nel dettato codicistico, fossero state superate dalla giurisprudenza, costituzionale e di legittimità.

A siffatto riguardo si sottolineava come, già con risalenti pronunce, fosse stata adottata una interpretazione estensiva della previsione di cui al terzo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., risolvendo in senso affermativo il dubbio se l’ipotesi di cui al comma 1 si applicasse anche al decreto di archiviazione per manifesta infondatezza della notitia criminis stante il fatto che, secondo la Corte di cassazione, la formulazione dell’art. 314 comma terzo cod. proc. pen. è tale da non permettere di ritenere che il legislatore non abbia tenuto presenti tutti i casi in cui è consentita l’archiviazione e, quindi, sia i casi, disciplinati dall’articolo 411, nei quali “manca una condizione di procedibilità, il reato è estinto o il fatto non è previsto dalla legge come reato“, sia il caso, previsto dall’articolo 408, dell’archiviazione imposta dalla infondatezza della notizia di reato (Sez. 4, n. 1585 del 18/12/1993 – dep. 19/05/1994, omissis, Rv. 197642) mentre, per quanto attiene all’ipotesi di reato estinto per prescrizione, l’orientamento maggioritario, formatosi nella giurisprudenza di legittimità, militante per la insussistenza del diritto, era stato dapprima contrastato da talune pronunce per le quali la detenzione sofferta per reato dichiarato prescritto va tenuta in considerazione e raffrontata, al fine di valutarne la ingiustizia, all’entità della pena che sarebbe stata inflitta in caso di condanna (Cass. Sez. 4, n. 40094 del 6/7/2005, omissis; Cass. sez. 4, n. 36898 dell’8.7.2005, omissis) e dopo fatto presupposto di un sospetto di illegittimità costituzionale dell’art. 314, co. 1 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la riparazione per la detenzione subita in relazione a reato per il quale è intervenuto proscioglimento non nel merito.

Peraltro, osserva la Corte nella decisione in commento, con l’ordinanza di rimessione, la Cassazione aveva ampliato il raggio della questione – sollevata anche a riguardo del comma quarto dell’art. 314 cod. proc. pen., in relazione agli artt. 2, 3, 24, 76 e 77, Cost. – investendo la Corte costituzionale altresì del profilo concernente la mancata previsione del diritto alla riparazione della custodia cautelare sofferta per una durata superiore alla pena inflitta (Cass. Sez. U, n. 25084 del 30/05/2006 – dep. 19/07/2006, omissis, Rv. 234144) e a questo proposito, si faceva presente come avesse rilevanza rimarcare come proprio il giudice delle leggi avesse impresso un impulso decisivo al moto espansivo del diritto, indicando al giudice ordinario la necessità di cogliere, nella diversità delle vicende, il nucleo fondante dell’istituto, rappresentato non già da un particolare esito del procedimento penale quanto dalla oggettiva lesione della libertà personale.

Premesso ciò, nell’analizzare l’excursus giurisprudenziale elaborato in subiecta materia in sede di diritto vivente, si osservava come il arresto che meritava di essere rammentato in questa sede fosse la sentenza n. 310 del 1996, con la quale il Giudice delle leggi aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione rilevandosi come in quell’occasione fosse stato evidenziato che il silenzio, serbato a riguardo di tale evenienza dal legislatore, veniva stimato ingiustificato alla luce del fatto che la detenzione conseguente ad ordine di esecuzione illegittimo offende la libertà della persona in misura non minore della detenzione cautelare ingiusta e che la legge delega lascia trasparire l’intento del legislatore delegante di non introdurre, su questo piano, ingiustificate differenziazioni tra custodia cautelare ed esecuzione di pena detentiva, e ciò anche perché, ricordò la stessa Corte costituzionale – l’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta; art. 5 che la stessa legge delega indica – in uno con le norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale – tra le norme alle quali il nuovo codice si deve adeguare.

L’erosione di questo originario caposaldo, inoltre, aveva conosciuto un ulteriore avanzamento nella successiva sentenza n. 109 del 1999, con la quale venne dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la riparazione anche per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziati di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per la custodia cautelare; e dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva che lo stesso diritto nei medesimi limiti spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insussistenti le condizioni per la convalida e anche qui, ancora una volta la Corte costituzionale sottolineava che nella legge di delegazione fosse ben presente l’esigenza che tutte le offese arrecate alla libertà personale mediante “ingiusta detenzione” siano riparate, indipendentemente dalla durata di queste e quale che sia l’autorità dalla quale la restrizione provenga; e ciò, conformemente all’art. 5, comma quinto, della Cedu, il quale prevede espressamente il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzioni di sorta.

Qualche anno dopo, inoltre, la Corte costituzionale aveva ritenuto ingiustificato anche il limite derivante dalla necessità che sia intervenuto proscioglimento nel merito, dichiarando l’art. 314 cod. proc. pen. costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, nell’ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all’equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni e, dopo tale pronuncia, i giudici di legittimità avevano statuito che il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione spettasse anche quando la durata della custodia cautelare risulti superiore alla misura della pena inflitta con la sentenza di primo grado, alla quale abbia fatto seguito una sentenza di appello dichiarativa della estinzione del reato per prescrizione, precisando che, ai fini della quantificazione dell’indennizzo, non si deve tenere conto della parte di detenzione cautelare patita che corrisponda alla condanna inflitta in primo grado (Sez. U, n. 4187 del 30/10/2008 – dep. 29/01/2009, omissis, Rv. 241855) mentre, con la sentenza n. 230 del 2004, il giudice delle leggi aveva ricondotto all’area di disciplina del comma secondo dell’art. 314 cod. proc. pen. il caso di colui che abbia subito un periodo di custodia cautelare sulla base di un’ordinanza emessa per un fatto per il quale egli era già stato giudicato ovvero aveva addirittura scontato la pena inflitta con precedente sentenza di condanna affermandosi in particolare che la norma non esclude che l’accertamento negativo circa la sussistenza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. consegua in modo implicito ad una sentenza irrevocabile che accerti che l’azione penale non poteva essere esercitata perché preclusa da precedente giudicato, visto che non può non concludersi che anche la misura cautelare disposta per il medesimo fatto per il quale l’imputato era già stato giudicato risulta priva dei requisiti che ne legittimano l’adozione, stante l’evidente nesso di strumentalità dell’azione cautelare rispetto all’azione penale.

Una volta terminata questa panoramica giurisprudenziale, si faceva pertanto presente come risultasse del tutto evidente, quindi, che, secondo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, non la pronuncia di una determinata statuizione condiziona il diritto alla riparazione bensì una oggettiva lesione del diritto fermo restando che, quando il tessuto normativo non offra tutela, va esplorata la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme.

Alla luce di questo passaggio argomentativo, gli ermellini osservavano come, con specifico riferimento alla indennizzabilità della detenzione patita nell’ambito della procedura di estradizione passiva, la disciplina codicistica risultasse silente sicché sembrava apparire legittima la deduzione che non sia ammissibile l’indennizzo [per l’estradizione attiva dispone il comma dell’art. 722-bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 5, co. 1 lett. e) d.lgs. n. 149/2017].

Tuttavia, pur a fronte di tale rilievo giuridico, la Corte evidenzia come occorresse tener conto della sentenza del 9.6.2004, n. 231 della Corte costituzionale con la quale era stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 24 della Costituzione nella parte in cui, in tema di estradizione passiva, non prevede la riparazione per ingiusta detenzione nel caso di arresto provvisorio e di applicazione provvisoria di misura custodiale su domanda dello Stato estero che si accerti carente di giurisdizione dato che, in quell’occasione, delle leggi aveva rilevato come fosse possibile dare alla norma una interpretazione in senso conforme al fondamento solidaristico della riparazione per l’ingiusta detenzione in ragione della quale il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione va ricollegato alla presenza di una oggettiva lesione della libertà personale, comunque ingiusta alla stregua di una valutazione ‘ex post’ e, pertanto, anche qualora tale lesione derivi da un titolo di detenzione che trovi origine nell’ambito della procedura di estradizione.

Con tale ricostruzione ermeneutica, i giudici della Cassazione reputavano che si potesse trovare soluzione al quesito che era stato posto della stessa Sezione della Corte deputata a decidere nel caso di specie, e che aveva espresso il dubbio di costituzionalità per l’irragionevole disparità di trattamento tra chi sia privato della libertà personale in base a provvedimento illegittimo perché privo delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. e chi ne sia privato su richiesta di uno Stato estero in virtù di provvedimento oggettivamente illegittimo stante il fatto che la Corte remittente aveva rilevato anche l’apparente contrasto della norma denunciata con il principio di solidarietà e di inviolabilità della libertà personale che, se violata, va ristorata, e con il precetto costituzionale che demanda alla legge di prevedere condizioni e modi per la riparazione degli errori giudiziari, senza limitarne in alcun modo la tipologia (Sez. 4, n. 18250 del 26/02/2003 – dep. 17/04/2003, omissis, Rv. 224513).

Orbene, si evidenziava, a questo punto della disamina, come la pronuncia della Corte costituzionale avesse reso non più sostenibile l’orientamento in precedenza espresso dal giudice di legittimità, secondo il quale “per l’esplicita esclusione dell’applicazione dei parametri previsti dall’art. 273 e 280 cod. proc. pen. operata dall’art. 714 comma 2 cod. proc. pen., l’arresto a fini estradizionali non può dar luogo al diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione” (Sez. 6, n. 1648 del 22/04/1997 – dep. 27/05/1997, omissis, Rv. 208145; Sez. 6, n. 31130 del 08/07/2003 – dep. 23/07/2003, omissis, Rv. 226208) ed, infatti, nelle decisioni successive, invero esigue di numero, la Corte di Cassazione aveva ritenuto ammissibile la richiesta di riparazione attinente a detenzione subita nell’ambito di procedure estradizionali.

In particolare, tra le sentenze citate in questa pronuncia, viene menzionato quell’arresto giurisprudenziale con cui, prendendo in esame la questione “se la misura coercitiva a fini estradizionali perda efficacia nel caso in cui lo Stato richiedente non prenda in consegna l’estradando nel termine di legge a causa della sospensione dell’efficacia, disposta dal giudice amministrativo, del provvedimento ministeriale di concessione dell’estradizione“, veniva espressa a chiare lettere l’adesione alla prospettiva interpretativa indicata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 231/2004, ribadendo come nei confronti dei soggetti di cui è richiesta l’estradizione gli estremi dell’ingiusta detenzione possono e debbono comunque essere valutati, ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione, ma non sulla base dei parametri ricavabili dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen., la cui applicabilità è esclusa esplicitamente dall’art. 714, comma 2, cod. proc. pen., bensì “verificando se risulta ex post accertata l’insussistenza delle specifiche condizioni di applicabilità delle misure coercitive, per tali soggetti individuate a norma del comma 3 dell’art. 714 cod. proc. pen. nelle “condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione“.

Tal che, dato che, per le Sezioni Unite, “al di fuori del limite indicato, non v’è ulteriore spazio per l’esperimento dell’azione di riparazione per l’ingiusta detenzione a fini estradizionali” e da ciò se ne faceva discendere il principio in base al quale, “ in caso di sentenza irrevocabile favorevole all’estradizione, la detenzione eventualmente patita a tal fine dall’estradando non può considerarsi ingiusta e non può costituire, pertanto, titolo per un favorevole epilogo della procedura di cui agli artt. 314 e 315 cod. proc. pen.” (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011 – dep. 17/02/2012), se ne faceva conseguire come il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, occorsa nell’ambito di una procedura di estradizione passiva, si coordini a condizioni peculiari e, precisamente, la prima di esse è che non deve essere stata pronunciata sentenza irrevocabile favorevole all’estradizione mentre non assume invece alcun rilievo che non sia stata emessa, ed abbia assunto forza di giudicato, una delle pronunce alle quali fa riferimento l’art. 314, co. 1 e 3 cod. proc. pen..

Inoltre, diversamente da quanto ritenuto da Sez. 6, n. 21748 del 13/05/2008, il diritto alla riparazione non presuppone che la detenzione sia stata instaurata in violazione degli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. e, per le ipotesi di misure coercitive da adottare nei confronti della persona “della quale è domandata l’estradizione“, la ragione risiede nella esplicita esclusione dell’applicabilità di tali norme, operata dal solo art. 714 cod. proc. pen. così come la sussistenza di gravi indizi assume indiretta valenza, in forza della previsione dell’art. 705 cod. proc. pen., che detta le condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione.

Invece, per quanto concerne l’arresto da parte della polizia giudiziaria (art. 716 cod. proc. pen.) e l’applicazione provvisoria di misure cautelari nei confronti della persona la cui domanda di estradizione non sia ancora pervenuta (disciplinata dall’art. 715 cod. proc. pen.), la Corte prendeva atto come non fosse rinvenibile analoga previsione ma, avuto riguardo alla struttura degli istituti, appare irragionevole ritenere, sempre a detta dei giudici di Piazza Cavour, che debbano trovare applicazione gli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. in ipotesi caratterizzate da una delibazione che, salvo per il profilo concernente il pericolo di fuga, attiene a condizioni meramente procedurali (ovvero che lo Stato estero abbia dichiarato che nei confronti della persona è stato emesso provvedimento restrittivo della libertà personale ovvero sentenza di condanna a pena detentiva e che intende presentare domanda di estradizione; che esso abbia fornito la descrizione dei fatti, la specificazione del reato e delle pene previste per lo stesso, nonché gli elementi per l’esatta identificazione della persona) tenuto conto altresì del fatto che l’espressa previsione di un giudizio ‘sostanziale‘, limitato alla ricorrenza del pericolo di fuga, conferma l’estraneità ad esso della verifica delle condizioni previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen..

Da ciò si addiveniva alla conclusione secondo la quale, anche per le ipotesi disciplinate dall’art. 715 cod. proc. pen. e dall’art. 716 cod. proc. pen., non assumono rilievo le condizioni poste per l’adozione di misure coercitive dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen..

Sicché, alla luce di quanto sin qui esposto, veniva ribadito il costante insegnamento della giurisprudenza della Suprema Corte per il quale le misure coercitive, disposte nell’ambito di una procedura di estradizione passiva, trovano nel pericolo di fuga il presupposto atto a giustificare l’applicazione del provvedimento limitativo della libertà personale fermo restando che esso può essere inteso come pericolo di allontanamento dell’estradando dal territorio dello Stato richiesto, con conseguente rischio di inosservanza dell’obbligo assunto a livello internazionale di assicurarne la consegna al Paese richiedente mentre la sua sussistenza deve essere motivatamente fondata su elementi concreti, che abbiano cioè uno stretto legame nella realtà di fatto e che non siano basati su presunzioni o preconcette valutazioni di ordine generale, richiedendosi dunque che le circostanze prese in esame siano specifiche e rivelatrici di una vera propensione e di una reale possibilità di allontanamento clandestino da parte dell’estradando (Sez. 6, n. 28758 del 09/04/2008 – dep. 10/07/2008, omissis, Rv. 240322).

All’opposto, se l’ingiustizia della detenzione patita in via provvisoria ex art. 715 cod. proc. pen. o ex art. 716 cod. proc. pen. non può essere data dalla insussistenza delle condizioni di cui agli artt. 273 e 280 cod. proc. pen., ad opinione della Cassazione, non sembra che possa valere per tali ipotesi il canone indicato dalle SU, vale a dire la insussistenza delle condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione e ciò, da un lato, per la ridotta base di giudizio del giudice nazionale chiamato ad applicare tali disposizioni, dall’altro, per la possibilità che, ove la domanda di estradizione non venga presentata dallo Stato estero, non sia oggettivamente possibile verificare la insussistenza delle condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione e dunque, in virtù di tali considerazioni giuridiche, si postulava come il diritto alla riparazione per la detenzione subita a fini estradizionali andasse accertato tenendo presente la varietà delle situazioni.

Oltre a ciò, si evidenziava al contempo come la Corte costituzionale, nell’occuparsi, con la sentenza n. 109/1999, della applicabilità dell’istituto della riparazione ai casi di adozione di misure pre-cautelari (arresto in flagranza e fermo), aveva ravvisato l’illegittimità costituzionale sia del comma 1 che del comma 2 dell’art. 314 cod. proc. pen., così prospettando la possibilità che potesse trovare spazio anche per quelle misure tanto l’ipotesi di ingiustizia sostanziale che quella di ingiustizia formale rilevando in particolar modo che, quando l’arresto o il fermo non siano convalidati, si determina una situazione speculare a quella regolata dall’art. 314, co. 2, con la conseguenza che la mancata convalida rende di per sé illegittima la privazione della libertà.

A sua volta la Cassazione, tenendo ben presenti tali statuizioni, aveva distinto l’ipotesi in cui si faccia valere l’ingiustizia formale del titolo custodiale pre-cautelare e della eventuale convalida, da quella in cui si prospetta la sostanziale ingiustizia di una detenzione per essere stati prosciolti (Sez. 4, n. 6337 de 22.12.2015, dep. il 17.2.2016, omissis).

Di talchè se ne faceva conseguire come, ove all’arresto eseguito ai sensi dell’art. 716 cod. proc. pen. non sia seguita la convalida, purchè la statuizione sia divenuta definitiva, il diritto alla riparazione non richiede altra condizione positiva così come la medesima evenienza processuale ricorre per l’applicazione provvisoria della misura coercitiva ai sensi dell’art. 715 cod. proc. pen., ove essa sia stata revocata ai sensi del comma 6 del medesimo articolo o definitivamente annullata a seguito del ricorso previsto dall’art. 719 cod. proc. pen..

Per contro, quando alle misure pre-cautelari sia seguita la prosecuzione del vincolo perché presentata la domanda di estradizione, o quando la misura venga adottata ai sensi dell’art. 714 cod. proc. pen., la Corte osserva, in questa pronuncia, come si venga a determinare una situazione speculare a quella prevista dall’art. 314, co. 1 cod. proc. pen. e il diritto alla riparazione è condizionato alla pronuncia di una sentenza sfavorevole alla estradizione (ferma restando la ipotizzabilità di un’ingiustizia formale nel caso in cui la misura adottata venga ritenuta illegittima con decisione irrevocabile).

Continuando questa disamina di ordine prettamente procedurale, gli ermellini facevano però come non fosse stato affrontato espressamente il tema della rilevanza di un eventuale comportamento doloso o gravemente colposo dell’istante, che sia stato quanto meno concausa dell’adozione e del mantenimento del vincolo coercitivo provvisorio visto che, solo nella sentenza n. 2678/2009 emessa in sede di legittimità ordinaria, la questione risultava essere stato soltanto evocata, ma per sostenere che essa era estranea al tema della decisione, non venendo in considerazione l’ipotesi di una (in)validità del titolo restrittivo originario (nella specie il M.A.E. emesso dall’A.G. di M.) fermo restando che, in quella occasione, la Corte non si era mostrata incline a ripudiare la ordinaria condizione ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, avendo essa affermato che una presunta colpa dell’istante, precedente alla adozione della misura, sarebbe stata irrilevante (non già ‘non richiesta‘).

Ebbene, in relazione a tale precipuo profilo di criticità rituale, la Cassazione, in questa pronuncia, affermava come, anche nelle ipotesi di cui agli artt. 714, 715 e 716 cod. proc. pen. assumesse rilievo il comportamento avuto dall’istante e ciò in ragione del fatto che, affrontando il contrasto giurisprudenziale che si era determinato in merito alla rilevanza della ‘colpa ostativa’ non solo nei casi di ingiustizia ‘sostanziale‘ (art. 314, co. 1 cod. proc. pen.) ma anche nei casi di ingiustizia ‘formale‘ di cui al secondo comma di tale articolo, le Sezioni Unite avevano precisato che “l’elemento della accertata ingiustizia della custodia patita, che caratterizza entrambe le ipotesi del diritto alla equa riparazione (diverse solo per le ragioni che integrano l’ingiustizia stessa) ne disvela il comune fondamento e ne impone una comune disciplina quanto alle condizioni che ne legittimano il riconoscimento e di conseguenza, tale ricostruzione, conforme alla logica del principio solidaristico, implica in definitiva l’oggettiva inerenza al diritto in questione, in ogni sua estrinsecazione, del limite della non interferenza causale della condotta del soggetto passivo della custodia”(Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010 – dep. 30/08/2010, omissis, Rv. 247663).

Da ciò se ne faceva conseguire la necessità, per il giudice della riparazione chiamato a valutare l’ingiustizia della detenzione subita a fini estradizionali, di accertare se ricorra o meno la condizione ostativa al riconoscimento del diritto, concretantesi nella condotta dolosa o gravemente colposa della persona causa concorrente dell’instaurazione e della protrazione del vincolo.

Si evidenziava infine che, se fosse del tutto evidente che, quando si tratta delle ipotesi di cui agli artt. 715 e 716 cod. proc. pen., tale condotta potrà inerire essenzialmente al presupposto del pericolo di fuga, invece, quando all’arresto o all’applicazione provvisoria della misura sia seguita la presentazione della domanda di estradizione, potrà trovare piena esplicazione il principio posto dalle SU: il giudice della riparazione dovrà verificare, al fine di valutare l’ingiustizia della detenzione, se il giudice sia incorso in errore ravvisando “ragioni per ritenere che non sussistono le condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione” (art. 714, co. 3, con riferimento all’art. 705, co. 3 cod. proc. pen.) e se tale errore abbia trovato causa anche in un comportamento doloso o gravemente colposo dell’estradando.

Tal che, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, gli ermellini addivenivano a formulare i seguenti principi di diritto: “In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, è ammissibile la domanda attinente alla privazione della libertà personale subita in relazione a procedura di estradizione per l’estero, sia quando si tratti di una delle ipotesi di cui rispettivamente agli artt. 715 e 716 cod. proc. pen., sia quando si versi nell’ipotesi di cui all’art. 714 cod. proc. pen..

A seconda dei casi può trattarsi di ingiustizia cd. ‘sostanziale’ (art. 314, co. 1 cod. proc. pen.), rinvenibile quando non sussistevano le condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione, o di ingiustizia cd. ‘formale’ (art. 314, co. 2 cod. proc. pen.) ed il riconoscimento del diritto presuppone comunque che non sia ravvisabile un comportamento doloso o gravemente colposo dell’istante, fattosi concausa dell’erroneo provvedimento coercitivo”.

Conclusioni

 La sentenza in esame è sicuramente condivisibile in quanto il frutto di un argomentazione giuridica ancorata su un attento esame dei dati normativi e della giurisprudenza elaborata in subiecta materia (sia di legittimità ordinaria, che quella costituzionale).

Va da sé dunque come, in casi analoghi a quello trattato in questa pronuncia, sia possibile avanzare domanda per la riparazione per l’ingiusta detenzione, anche nel caso di privazione della libertà personale subita in relazione a procedura di estradizione per l’estero, sia quando si tratti di una delle ipotesi di cui rispettivamente agli artt. 715 e 716 cod. proc. pen., sia quando si versi nell’ipotesi di cui all’art. 714 cod. proc. pen. fermo restando che,  a seconda dei casi di ingiustizia cd. ‘sostanziale‘ (art. 314, co. 1 cod. proc. pen.) o di ingiustizia cd. ‘formale‘ (art. 314, co. 2 cod. proc. pen.), il riconoscimento del diritto presuppone comunque che non sia ravvisabile un comportamento doloso o gravemente colposo dell’istante, fattosi concausa dell’erroneo provvedimento coercitivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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