Le false indicazioni o le omissioni che integrano l’elemento oggettivo devono essere sorrette dal dolo generico

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(Ricorso rigettato)

(Riferimento normativo: D.pr., 30.05.2002, n. 115)

Il fatto

Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto aveva condannato un imputato alla pena di anni uno mesi otto di reclusione ed euro 1.000 di multa in relazione al reato di cui all’art. 95 Dpr. 115/2002 per avere esposto falsi dati reddituali nella istanza di ammissione al gratuito patrocinio depositata presso la cancelleria del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, falsità relativa sia ai componenti del proprio nucleo familiare, sia alla certificazione di non abbienza, atteso che in considerazione dei redditi percepiti dal nucleo familiare (pari ad euro 30.596,15 in relazione all’anno 2013) il ricorrente non avrebbe avuto diritto al beneficio risultando superato il limite previsto dall’art. 79 lett. c) D.P.R. 115/2002.

 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo i seguenti motivi: 1) violazione di legge nell’applicazione della norma incriminatrice atteso che l’imputato era stato indotto a formulare la richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato dall’erroneo convincimento sulla composizione del proprio stato di famiglia atteso che il comune di residenza gli aveva riconosciuto ed attestato che lui era titolare di autonomo stato di famiglia, sia pure presso l’abitazione familiare e pertanto lo stesso confidava sul fatto di non dovere indicare gli altri familiari e i loro relativi redditi, tenuto altresì conto che al momento dell’accertamento lo stesso era in stato di detenzione; 2) violazione di legge processuale, carenza degli elementi costitutivi del reato e travisamento della prova in relazione alla ricostruzione dello stato di famiglia dell’imputato, sia pure in via presuntiva, sulla base delle dichiarazioni fornite agli accertatori da parte della madre di questi, dichiarazioni inutilizzabili in quanto assunte al di fuori del dibattimento che fotografavano peraltro un momento diverso da quello che avrebbe dovuto essere considerato ai fini della verifica della situazione reddituale del richiedente e, comunque, in termini assolutamente incongrui ed imprecisi rispetto a quelli richiesti dalla natura di accertamento da compiersi; 3) vizio di motivazione in ordine ai criteri valutativi che avrebbero dovuto essere improntati gli obblighi motivazionali del decidente, sia per non avere considerato le difese avanzate in sede di appello dalla difesa dell’imputato, sia per avere improntato la struttura argomentativa agli accertamenti posti in essere dai verbalizzanti presso l’abitazione del ricorrente, pervenendo a motivazione genericamente e scarnamente motivata; 4) vizio di motivazione in ordine alla congruità del trattamento sanzionatorio.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

La Suprema Corte riteneva come i motivi sopra richiamati fossero infondati anche perché, in parte, tesi ad ottenere una rilettura degli elementi di prova, già adeguatamente valutati dai giudici di merito che non è consentita in sede di legittimità in guisa tale da dovere essere tutti rigettati.

Si osservava in particolare che le censure, concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio e dell’attribuzione dello stesso alla persona dell’imputata, non fossero proponibili nel giudizio di legittimità quando la struttura motivazionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.

Più nel dettaglio, veniva fatto presente come il ricorso, in concreto, non si fosse confrontato appieno con la motivazione della sentenza impugnata che appariva essere, per la Corte di legittimità, logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità.

La Corte territoriale, difatti, per la Suprema Corte, aveva già chiaramente confutato, nel provvedimento impugnato, tutte le tesi proposte innanzi alla Cassazione, evidenziando che la richiesta di ammissione riportava dati reddituali assolutamente incompleti, dovendo gli stessi estendersi a tutti i componenti del nucleo familiare, stante la chiara dizione degli art. 76 e 79 DPR 115/2002 e che pertanto, anche qualora si fosse trattato di errore sulla norma extra penale, nondimeno lo stesso non sarebbe mai potuto essere ritenuto un errore scusabile in ragione dell’assoluta carenza di un quid pluris idoneo a trarre in inganno il prevenuto rilevandosi al contempo che, in tema di patrocinio a spese dello Stato, le false indicazioni o le omissioni, anche parziali, che integrano l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 95, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, devono essere sorrette dal dolo generico, rigorosamente provato che esclude la responsabilità per un difetto di controllo, di per sé integrante condotta colposa, e salva l’ipotesi del dolo eventuale (sez. 4, 5.6.2019; 11.1.2018).

Orbene, a fronte di siffatto approdo ermeneutico, si evidenziava come il giudice di appello, con motivazione (stimata dalla Cassazione) assolutamente coerente, avesse invero escluso nella specie la ricorrenza di un difetto di controllo laddove le dichiarazioni false e incomplete attenevano a circostanze (componenti del nucleo familiare e redditi dagli stessi percepiti) che rientravano nella sfera di diretto controllo e di personale gestione del prevenuto afferendo le stesse alla omessa inclusione nella autocertificazione di familiari conviventi, percettori di reddito che contribuivano a concorrere ai bisogni e alle esigenze di sostentamento della famiglia tenuto conto altresì del fatto che, per un verso, il ricorrente non aveva allegato alcun fatto impeditivo che avesse potuto influito sulla sua sfera soggettiva e decisionale tale da indurlo in errore in relazione al contenuto della dichiarazione allegata a sostegno della richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello stato (sez. 4, 11.7.2018), per altro verso, erano reputate altresì manifestamente infondate le argomentazioni del ricorrente che assumeva di essere esclusivo componente del proprio nucleo familiare atteso che presso il domicilio dallo stesso indicato  i controlli fatti eseguire dall’autorità giudiziaria avevano consentito di rinvenire un nucleo familiare (composto da dieci persone, tutti prossimi congiunti dell’imputato) percettore di plurime risorse reddituali e titolare di beni patrimoniali che il ricorrente avrebbe dovuto indicare nell’autocertificazione prevista dall’art. 79 comma 3 D.P.R. 115/2002 in quanto risorse idonee a concorrere al reddito legale fissato ai fini del riconoscimento del beneficio.

Oltre a ciò, veniva inoltre osservato come a nulla rilevasse la circostanza che il ricorrente, al momento dell’accertamento, risultasse detenuto, privo di redditi e titolare di autonomo nucleo familiare atteso che, a norma dell’art. 79, comma 1, lett. b), d.P.R. n.115 del 2002, l’istanza deve contenere «le generalità dell’interessato e dei componenti la famiglia anagrafica…», nonché “dichiarazione sostitutiva di certificazione …con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini determinato secondo le modalità indicate dall’art. 6” mentre la ratio della norma è quella di considerare, ai sensi dell’art. 76, comma 1, stesso testo normativo, il reddito, quale condizione per l’ammissione al beneficio, «costituito dalla somma dei redditi conseguiti… da ogni componente della famiglia, compreso l’istante».

Da ciò se ne faceva conseguire come dovesse ritenersi sussistente un obbligo dell’istante di produrre una certificazione anagrafica o documentazione equipollente e, comunque, di esplicitare la composizione della sua famiglia, quanto meno quale situazione di fatto comportante la presenza di persone con lui conviventi reputandosi come, non solo tali dati fossero stati omessi nella dichiarazione fidefaciente dell’imputato, ma questi, come correttamente evidenziato dal giudice di appello in motivazione, pure conoscendo la propria situazione anagrafica e familiare, in quanto non aveva mai disconosciuto di abitare presso il domicilio ove era stato operato il controllo dal personale delegato dal giudice, si era avvalso delle risultanze anagrafiche del proprio stato di famiglia che erano evidentemente errate e parziali atteso che le risultanze anagrafiche indicate in imputazione erano aggiornate all’anno fiscale di riferimento sulla base della disciplina degli art.76 e 79 D.P.R. 115/2002.

Sulla base di detti argomenti, per gli Ermellini, risultava essere logicamente avversato anche il secondo motivo di ricorso in quanto il giudizio espresso dal giudice di merito sulla sussistenza di un unico nucleo familiare nel quale andava inserito il ricorrente, sia pure per un certo periodo detenuto, non risultava essere stato fondato sulle informazioni rese dai prossimi congiunti del ricorrente, identificati presso il domicilio indicato nell’istanza, quanto dal fatto che presso detto domicilio, di cui lo stesso ricorrente aveva indicato gli estremi nella richiesta, era insediato un nucleo familiare, diverso da quello dell’imputato, ma composto dai prossimi congiunti dello stesso e, da qui, se ne desumeva la logica inferenza che il ricorrente, proprio perché privo di redditi autonomi, potesse contare, in tutto o in parte sul contributo degli altri familiari che con esso convivevano, in ciò fondandosi, fino a prova contraria, il fondamento dell’onere di allegazione previsto dalla disciplina de quo, non essendo sufficiente allegare il mero dato di una condizione di “non abbienza” dovendo lo stesso essere accompagnato dalla indicazione degli eventuali familiari conviventi che concorrono a costituire il limite di reddito che giustifica l’ammissione.

A tale proposito veniva osservato come fosse stato affermato, sempre in sede nomofilattica, che, “ai fini dell’ammissibilità al gratuito patrocinio l’autocertificazione dell’istante ha valenza probatoria e il giudice non può entrare nel merito della medesima per valutarne la attendibilità, dovendosi limitare alla verifica dei redditi esposti e concedere in base ad essi il beneficio, il quale potrà essere revocato solo a seguito dell’analisi negativa effettuata dall’intendente di finanza, cui il giudice deve trasmettere copia dell’istanza con l’autocertificazione e la documentazione allegata” (sez. IV, 14.10.1999; sez. I, 3.6.2003).

Oltre a ciò, veniva inoltre fatto presente, a maggiore chiarimento di una tale impostazione, che, ai sensi dell’art. 76 co. 2 D.L.vo 30.5.2002 n.115, assume precipua rilevanza, ai fini del giudizio di ammissibilità o di conferma del beneficio del patrocinio a spese dello Stato, il dato formale della convivenza emergente dalla residenza anagrafica che costituisce comunque un significativo dato probatorio affermandosi altresì che, in base agli stessi principi emergenti dalla normativa statale e ai fini del giudizio sulla condizione di non abbienza, vi è l’obbligo per il giudice di esaminare le prove che confermino o confutino la sostanziale e fattuale percezione e condivisione di redditi tra familiari idonea ad incidere sulla predetta condizione fermo restando come tale valutazione fosse stata adeguatamente compiuta nel caso di specie sulla base delle risultanze anagrafiche, della condizione di impossidenza del ricorrente, del domicilio da questo indicato nella istanza di ammissione e della pluralità di fonti reddituali percepiti dai componenti del nucleo familiare del ricorrente in relazione all’anno di riferimento.

Orbene, in tale contesto, per i giudici di piazza Cavour, le sommarie informazioni assunte dalla madre dell’imputato, come indicate dal giudice di appello, non facevano altro che confortare l’inferenza fondata sui dati anagrafici che l’imputato avrebbe dovuto inserire sulla ricorrenza di congiunti conviventi con esso e di fonti reddituali che precludevano l’accesso al beneficio.

Ciò posto, il terzo motivo di ricorso risultava, per la Corte di legittimità, assorbito da tali considerazioni.

Difatti, a fronte delle logiche argomentazioni del giudice di appello, per gli Ermellini, il ricorrente si era limitato a sostenere che si era trattato di un errore determinato da dimenticanza incolpevole, che peraltro si traduce in ignoranza, inescusabile, sulla relativa disciplina, laddove, ai fini del gratuito patrocinio, ai sensi dell’art.76 citato, vanno riportati i redditi del nucleo familiare convivente (comma 2).

Tal che se ne faceva discendere come la responsabilità del prevenuto non derivasse dal fatto di essersi dichiarato consapevole delle conseguenze anche penali della falsità eventualmente contenute nella propria dichiarazione, bensì dalla violazione dell’art. 95 D.Lgs 115/2002 che fa derivare la sanzione penale dalla falsità totale e parziale, nonchè dalle omissioni della dichiarazione sostitutiva della certificazione (Sez. 4, 12.2.2015 n. 14011; sez. 6, 31.3.2015).

Manifestamente infondato e generico, infine, era stimato anche il quarto motivo di ricorso relativo al trattamento sanzionatorio atteso che il giudice di appello aveva fornito adeguata e non illogica evidenza delle ragioni per cui aveva inteso modulare il trattamento sanzionatorio al di sopra del minimo edittale, evidenziando il comportamento insidioso e dolosamente utilitaristico del ricorrente che aveva utilizzato fraudolentemente la inesattezza di una risultanza anagrafica della cui erroneità egli era consapevole.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante specialmente nella parte in cui è chiarito, citandosi un precedente conforme, che le false indicazioni o le omissioni, anche parziali, che integrano l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 95, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, devono essere sorrette dal dolo generico.

Ciò posto, sempre in tale provvedimento, è altresì precisato che tale elemento soggettivo deve essere “rigorosamente provato” a nulla rilevando la responsabilità per un difetto di controllo di per sé integrante condotta colposa.

Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di verificare la sussistenza o meno di tale elemento costitutivo inerente siffatta fattispecie criminosa.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale decisione, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su questa tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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