Riparazione per l’ingiusta detenzione e l’atteggiamento dell’indagato in sede di interrogatorio

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Quando, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il silenzio, la reticenza e il mendacio dell’indagato in sede di interrogatorio possono costituire elementi valutabili ai fini della riparazione, sotto il profilo del dolo e della colpa grave

Indice:

Il fatto

La Corte di Appello di Lecce rigettava una domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione, patita dapprima in carcere e poi agli arresti domiciliari, per un’accusa di partecipazione ad un’associazione dedita al traffico di stupefacenti e di due episodi di cessione di dette sostanze.

In particolare, secondo la prospettazione accusatoria, il richiedente era il custode del prezzo della cessione consegnatogli dagli altri indagati.

Il processo di primo grado si concludeva con sentenza di assoluzione.

In sede di interrogatorio di garanzia, l’indagato si era avvalso della facoltà di non rispondere ma, quattro mesi dopo, tuttavia, costui rendeva interrogatorio al pubblico ministero ove forniva spiegazioni sui fatti a lui contestati e depositava memoria difensiva.

Sull’argomento, vedasi: Quali sono le cause ostative al risarcimento per ingiusta detenzione 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato, l’istante proponeva, per il tramite del suo legale, ricorso per Cassazione con cui erano dedotti i seguenti motivi: 1) violazione dell’art. 314 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in relazione alla condizione di applicabilità della causa ostativa; 2) violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo al dolo o alla colpa grave.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era ritenuto meritevole di accoglimento per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito prima di tutto che, in materia di riparazione per ingiusta detenzione, la colpa, che vale ad escludere l’indennizzo è rappresentata dalla violazione di regole, da una condotta macroscopicamente negligente o imprudente dalla quale può insorgere, grazie all’efficienza sinergica di un errore dell’Autorità giudiziaria, una misura restrittiva della libertà personale.

Il concetto di colpa che assume rilievo quale condizione ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, pur tuttavia, non si identifica con la “colpa penale” venendo in rilievo la sola componente oggettiva della stessa, nel senso di condotta che, secondo il parametro dell’id quod plerumque accidit, possa aver creato una situazione di prevedibile e doveroso intervento dell’Autorità giudiziaria.

Anche la prevedibilità, di conseguenza, va intesa in senso oggettivo, quindi, non come giudizio di prevedibilità del singolo soggetto agente, ma come prevedibilità secondo l’anzidetto parametro dell’id

quod plerumque accidit, in relazione alla possibilità che la condotta possa dare luogo ad un intervento coercitivo dell’Autorità giudiziaria.

È sufficiente, pertanto, per gli Ermellini, considerare quanto compiuto dall’interessato sul piano materiale, traendo ciò origine dal fondamento solidaristico dell’indennizzo, per cui la colpa grave costituisce il punto di equilibrio tra gli antagonisti interessi in campo, dovendosi, inoltre, considerare che il giudice della riparazione, per stabilire se chi ha patito la detenzione vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili al fine di stabilire, con valutazione ex ante – e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’Autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (Sez. 4, n. 9212 del 13/11/2013).

La valutazione del giudice della riparazione, insomma, per il Supremo Consesso, si svolge su un piano diverso, autonomo rispetto a quello del giudice del processo penale, ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione (Sez. U, n. 43 del 13/12/1995).

Oltre a ciò, era altresì fatto presente che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione – atteso che, a norma dell’art. 314 cod. proc. pen., il dolo o la colpa grave, idonei ad escludere l’indennizzo per ingiusta detenzione, devono sostanziarsi in comportamenti specifici che abbiano “dato causa” o abbiano “concorso a dare causa” all’instaurazione dello stato privativo della libertà -, è ineludibile l’accertamento del rapporto causale tra tali condotte e il provvedimento restrittivo della libertà personale.

Orbene, a fronte di tale quadro ermeneutico, i giudici di piazza Cavour notavano come la Corte territoriale avesse disatteso i principi più sopra menzionati non avendo affatto individuato i profili di colpa ostativi all’invocato indennizzo.

Detto questo, infine, quanto all’iniziale esercizio della facoltà di non rispondere, preso atto di come sia stato costantemente affermato dalla Corte di legittimità che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il silenzio, la reticenza e il mendacio dell’indagato in sede di interrogatorio, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, possono costituire elementi valutabili ai fini della riparazione, sotto il profilo del dolo o della colpa grave, nel caso in cui egli sia in grado di indicare specifiche circostanze, non note all’organo inquirente, idonee a prospettare una logica spiegazione al fine di escludere o caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa, che determinarono l’emissione del provvedimento cautelare (ex multis Sez. 4, n. 25252 del 20/05/2016; Sez. 4, n. 4159 del 09/12/2008), la Cassazione riteneva come nel caso di specie, proprio il successivo interrogatorio, reso su richiesta, nonché il contestuale deposito di una memoria difensiva con numerosi allegati, mediante la quale erano state offerte all’Autorità procedente spiegazioni alternative a quella accusatoria, avesse comportato l’adempimento della funzione di portare a conoscenza dell’Autorità giudiziaria fatti ad essa non noti e tali da inquadrare la condotta dell’indagato in una prospettiva che ne escludeva la rilevanza ai fini della colpa.

Si imponeva, pertanto, per il Supremo Consesso, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio, per nuovo giudizio, alla Corte di Appello di Lecce.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito quando, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il silenzio, la reticenza e il mendacio dell’indagato in sede di interrogatorio possono costituire elementi valutabili ai fini della riparazione sotto il profilo del dolo o della colpa grave.

Difatti, in tale pronuncia, si afferma, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il silenzio, la reticenza e il mendacio dell’indagato in sede di interrogatorio, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, possono costituire elementi valutabili ai fini della riparazione, sotto il profilo del dolo o della colpa grave, nel caso in cui egli sia in grado di indicare specifiche circostanze, non note all’organo inquirente, idonee a prospettare una logica spiegazione al fine di escludere o caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa, che determinarono l’emissione del provvedimento cautelare.

Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione allo scopo di stabilire se il comportamento “silente” dell’imputato possa configurare o meno una condizione ostativa per quanto attiene la riparazione per l’ingiusta detenzione.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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