Quando può essere dedotta per la prima volta con ricorso per cassazione l’erronea applicazione della recidiva al fine di ottenere la declaratoria di prescrizione del reato

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(Ricorso dichiarato inammissibile)

Il fatto

La Corte d’Appello di Bologna confermava la sentenza pronunciata dal Tribunale di Ravenna nei confronti di un imputato e, ritenuta la contestata recidiva specifica infraquinquennale, aveva affermato la sua penale responsabilità in relazione al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, in relazione all’omesso versamento dell’i.v.a. per un importo di 298.014 Euro relativamente all’anno di imposta 2010.

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Antonio Di Tullio D’Elisiis | 2020 Maggioli Editore

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso l’indicata sentenza, M.A., per il tramite del suo difensore di fiducia, proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi così formulati: 1) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per difetto di motivazione dato che il Tribunale territoriale avrebbe erroneamente rigettato la richiesta di declaratoria dell’intervenuta prescrizione ritenendo sussistente la recidiva, contestata dalla difesa e fornendo sul punto una motivazione lacunosa; 2) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 157 e ss. c.p. laddove la Corte Territoriale non avrebbe dichiarato la prescrizione del reato previa esclusione della contestata recidiva specifica infraquinquennale; assumeva a tal riguardo il ricorrente che la Corte Territoriale avrebbe erroneamente ritenuto sussistente la recidiva sulla base di due precedenti condanne per il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali per fatti che sarebbero stati depenalizzati in quanto le ritenute non versate sarebbero state inferiori alla vigente soglia di punibilità come emerso dalla sentenza ex art. 444 c.p.p. emessa dal G.i.p. del Tribunale di Ravenna il 12 ottobre 2010 e dal decreto penale di condanna del 4 ottobre 200 emesso dal G.i.p. del Tribunale di Ravenna e dalla comunicazione della direzione provinciale dell’I.n.p.s. di Ravenna documenti tutti allegati al ricorso; 3) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter in ordine all’elemento soggettivo del reato visto che la Corte territoriale, nell’affermare che l’imputato non aveva posto in essere azioni sfavorevoli per il patrimonio personale al fine di recuperare la liquidità necessaria, avrebbe preteso una probatio diabolica a fronte, peraltro, di una un’acclarata crisi di liquidità dell’impresa e considerando che l’imputato, come egli aveva dichiarato nel corso dell’esame, aveva impiegato la residua liquidità per pagare i dipendenti onde scongiurarne il licenziamento.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito prima di tutto come i primi due motivi, esaminabili congiuntamente essendo entrambi diretti alla declaratoria di prescrizione previa disapplicazione della contestata recidiva, fossero inammissibili giacché – una volta rilevato che il Tribunale, in sede di determinazione del complessivo trattamento sanzionatorio, aveva ritenuto e applicato la recidiva specifica infraquinquennale in quanto “correttamente contestata” (p. 4 della sentenza di primo grado) mentre, con l’atto di appello, l’imputato aveva contestato l’affermazione della penale responsabilità chiedendo, in subordine, la riduzione della pena, previo riconoscimento delle circostanza attenuanti generiche, da ritenersi prevalenti sulla contestata aggravante della recidiva e, in sede di discussione davanti alla Corte territoriale, la difesa aveva chiesto l’accoglimento dei motivi di appello e, in subordine, la declaratoria di prescrizione del reato – è pacifico, la Suprema Corte, che, rispetto al tema della disapplicazione della recidiva, è funzionale il diverso e più favorevole computo del termine della prescrizione che non sia stato devoluto con i motivi di appello.

Di talché la relativa violazione di legge non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di cassazione ostandovi lo sbarramento posto dall’art. 606 c.p.p., comma 3, ultimo periodo, a tenore del quale il ricorso è inammissibile se è proposto “per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello”.

Oltre a ciò, veniva fatto presente come non potesse nemmeno valorizzarsi la circostanza che la difesa, in sede di conclusioni assunte dinanzi alla Corte d’appello, avesse genericamente chiesto la declaratoria di prescrizione che, nella prospettiva del ricorrente, sarebbe decorsa ma solo previa esclusione della recidiva il che, come detto, ad avviso del Supremo Consesso, avrebbe dovuto formare motivo di appello ossia ciò che non era avvenuto.

In altri termini, secondo gli Ermellini, il ricorrente avrebbe dovuto, con i motivi di appello, contestare in maniera specifica i presupposti integranti la contestata recidiva mediante le produzioni delle pregresse sentenze di condanna ora tardivamente allegate al ricorso e, quindi, irricevibili in sede di legittimità ordinaria.

La questione posta dal ricorrente, d’altronde, sempre ad avviso dei giudici di piazza Cavour, non rientrava tra quelle rilevabili d’ufficio in quanto non si era in presenza di una “pena illegale” perché il ricorrente si sarebbe limitato a contestare il merito della ritenuta recidiva la cui disciplina non era stata oggetto di modifica in melius da parte di interventi del legislatore ovvero di pronunce della Corte costituzionale tenuto conto altresì del fatto di come sia stato affermato in sede nomofilattica il principio secondo cui l’errore di diritto contenuto nella sentenza di primo grado riguardante le modalità di calcolo della pena, comunque fissata entro i limiti edittali ed in assenza di modifiche normative incidenti sulla determinazione della stessa, non può essere prospettato per la prima volta con ricorso per cassazione, nè è rilevabile d’ufficio, ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 2, non potendosi ritenere nel suo complesso la pena irrogata all’imputato “illegale” (Sez. 2, Sentenza n. 14307 del 14/03/2017) e ciò vale, evidentemente, secondo la Suprema Corte, anche nel caso in cui l’asserito errore concernente la sussistenza della recidiva abbia rilevanza non solo ai fini della determinazione della pena ma anche, come effetto riflesso, con riguardo al calcolo della prescrizione.

Pertanto, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, veniva affermato il seguente principio: non può essere dedotta per la prima volta con ricorso per cassazione l’erronea applicazione della recidiva al fine di ottenere la declaratoria di prescrizione del reato, in assenza di modifiche normative o di pronunce della Corte costituzionale che ne abbia modificato in melius la portata precettiva.

Quanto, poi, all’omessa motivazione in relazione alla richiesta di prescrizione avanzata dalla difesa in sede di conclusioni, essa, per il Supremo Consesso, era stata evidentemente esclusa dalla Corte territoriale stante la contestazione e l’applicazione della recidiva.

Ciò posto, anche il terzo motivo veniva stimato manifestamente infondato in quanto meramente riproduttivo di una doglianza già rigettata dalla Corte d’appello con motivazione immune da vizi logici o giuridici.

La questione della sussistenza del dolo relativamente al delitto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, invece, veniva affrontata alle luce delle argomentazioni sviluppate dalle Sezioni Unite di nella sentenza n. 37424 del 28/03/2013.

Nella motivazione di quell’importante decisione, mai sconfessata sul punto, veniva fatto presente come le Sezioni Unite abbiano operato una approfondita disamina dell’elemento soggettivo del delitto in esame (par. 6) osservando che, mentre molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. n. 74 del 2000, richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà non emerge dal testo del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, che è punito a titolo di dolo generico, per la cui integrazione è, perciò, sufficiente la consapevolezza, in capo all’agente, di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, consapevolezza che deve investire anche la soglia di punibilità la quale, contribuendo a definirne il disvalore, è un elemento costitutivo del fatto.

Veniva per di più evidenziato come le Sezioni Unite abbiano precisato quanto segue: “la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di Euro cinquantamila, entro il termine lungo previsto. Il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. L’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nella seconda metà del 2006) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta”.

In tale tracciato motivazionale, la Suprema Corte, nella decisione qui in commento, ne ravvisava un’interpretazione pianamente in linea con quanto costantemente affermato dalla Corte di legittimità in relazione alla fattispecie parallela di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis, secondo cui, di regola, non essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte all’esigenza predetta (Sez. 3, n. 37528 del 12/06/2013) e ciò non significava per la Corte che, in astratto, fossero possibili casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato – in cui possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria dato che è tuttavia necessario che siano assolti precisi oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, devono investire non solo l’aspetto circa la non imputabilità al sostituto d’imposta della crisi economica, che improvvisamente avrebbe interessato l’impresa, ma anche che detta crisi non possa essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014 – dep. 15/05/2014; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013) e quindi occorre la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013; Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015).

Orbene, a fronte di tale approdo ermeneutico, i giudici di piazza Cavour osservavano come, nel caso di specie, la Corte territoriale si fosse attenuta ai principi ora richiamati correttamente osservando, per un verso, l’assoluta genericità della prova della situazione di sofferenza economica,sorretta non da specifica documentazione ma dalle sole dichiarazioni dell’imputato e della di lui moglie e, per altro verso, che l’imputato non aveva fornito prova di aver cercato di ovviarvi anche a discapito delle proprie risorse personali e, in ogni caso, aveva utilizzato la liquidità, non per onorare il debito fiscale, bensì per il pagamento della retribuzioni dei dipendenti, di talché si sarebbe trattata di una scelta libera, e quindi consapevole, che integrava il dolo.

Conclusioni

La decisione in oggetto è assai interessante in quanto in essa è ivi chiarito quando può essere dedotta per la prima volta con ricorso per cassazione l’erronea applicazione della recidiva al fine di ottenere la declaratoria di prescrizione del reato.

Invero, in tale pronuncia, affermandosi il principio di diritto secondo il quale non può essere dedotta per la prima volta con ricorso per cassazione l’erronea applicazione della recidiva al fine di ottenere la declaratoria di prescrizione del reato, in assenza di modifiche normative o di pronunce della Corte costituzionale che ne abbia modificato in melius la portata precettiva, si rende evidente, argomentando a contrario, che la deducibilità circa questa erronea applicazione in sede di legittimità ordinaria può avvenire solo ove ricorra una di queste situazioni.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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