Quando può ritenersi configurabile la concretezza ed attualità del pericolo di reiterazione di condotte criminose di cui all’art. 274, c. 1, lett. c), c.p.p.

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(Annullamento con rinvio)

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 274, c. 1, lett. c))

Il fatto

Il Tribunale di Reggio Calabria – Sezione Riesame, rigettava l’appello cautelare presentato dal Pubblico Ministero e, pertanto, veniva confermata l’impugnata decisione del GIP presso il medesimo ufficio giudiziario con la quale era stata negata l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere richiesta dalla pubblica accusa.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria deducendo il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Il GIP prima, ed il giudice del riesame successivamente, ad avviso del ricorrente, avrebbero errato nel ritenere necessario nel caso di specie, ai fini dell’applicazione della misura cautelare a seguito di condanna ai sensi dell’art. 275 c.p.p., comma 1 bis, la sopravvenienza durante il giudizio di merito di ulteriori elementi probatori.

Sostenuta l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, la quale prevede una doppia presunzione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari ed alla adeguatezza della sola misura custodiale, sempre ad avviso del ricorrente, il Tribunale avrebbe pretermesso la citata disposizione non confrontandosi con il relativo contenuto, il che avrebbe determinato una frattura del percorso argomentativo e la sua conseguente illogicità.

In caso di sussistenza di gravi indizi di reato per il delitto di associazione mafiosa, come per l’imputato, il legislatore avrebbe previsto una doppia presunzione, assoluta per quanto riguarda l’adeguatezza della misura coercitiva, relativa circa la sussistenza delle esigenze cautelari. Relativamente all’ipotesi di sussistenza di gravi indizi di reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, la sopra indicata doppia presunzione sarebbe invece relativa.

Ad avviso del PM ricorrente, inoltre, intervenuta una condanna in primo grado, la sussistenza della gravità indiziaria per il delitto associativo, non solo non richiederebbe ulteriore prova della esistenza di esigenze cautelari, emergente dal giudizio, ma il c.d. scudo normativo costituito dall’art. 275 c.p.p., comma 3,  che prenderebbe atto della persistenza ed attualità delle suddette esigenze, in ragione della natura permanente del delitto in questione.

Ne conseguirebbe che, laddove il titolo cautelare riguardi i reati indicati dall’art. 275 c.p.p., comma 3 (tra i quali quelli aggravati dalla L. n. 203 del 1991, art. 7), la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari dovrebbe ritenersi “salvo prova contraria” integrare i caratteri dell’attualità e concretezza del pericolo.

Il giudice, pertanto, il quale applica o conferma la misura cautelare, non avrebbe l’obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula libertatis ma soltanto di valutare le ragioni di esclusione eventualmente evidenziate dall’interessato ovvero evincibili direttamente dagli atti e tali da far venire meno, nel caso concreto, l’operatività della presunzione.

Il Tribunale del riesame avrebbe pertanto errato per la pubblica accusa nel ritenere necessario verificare la attualità delle esigenze cautelari essendo i delitti associativi reati permanenti e nei quali i singoli episodi criminosi avrebbero costituito la manifestazione dell’appartenenza alla societas sceleris la quale permane nel tempo fino al recesso.

Sussisterebbe quindi una specularità tra tale natura del reato addebitato e la presunzione prevista all’art. 275 c.p.p., comma 3, facendo salva l’ipotesi in cui emergano elementi che dimostrino la cessazione dell’associazione ovvero della rescissione dell’associato dei legami con la stessa.

Ciò posto, affermava ancora il PM ricorrente che, anche laddove volesse seguirsi – così come aveva fatto il Tribunale del riesame – l’orientamento giurisprudenziale facente leva sulla verifica dell’attualità delle esigenze cautelari ove intercorra un considerevole lasso di tempo tra l’emissione della misura ed i fatti accertati, la motivazione dell’ordinanza impugnata sarebbe illogica in quanto
quest’ultima avrebbe valorizzato l’assenza di richiesta di misura cautelare nella fase anteriore nonché la non pendenza di processi per fatti precedenti o successivi concludendo per l’insussistenza di elementi dai quali desumere l’attuale intraneità dell’imputato all’associazione così come
analoga valutazione sarebbe stata operata per gli altri imputati (non coinvolti in questo procedimento cautelare).

Le doglianze, in particolare, si puntualizzavano sulla irrilevanza delle circostanze poste in rilievo dal giudice del riesame: a) relativamente alla mancata richiesta di una misura cautelare nella fase antecedente al giudizio poichè tale scelta non avrebbe potuto comportare una sorta di “giudicato” sulla inesistenza delle esigenze cautelari dovendosi piuttosto ricollegare tale opzione alla gestione dei tempi del procedimento; b) parimenti nessun elemento avrebbe potuto desumersi dall’assenza di carichi pendenti, in relazione all’arco temporale oggetto di valutazione.

L’imputazione per la condotta associativa sarebbe stata formalmente chiusa al 12.10.2017 con la condanna di primo grado per cui ogni condotta ulteriore la quale non costituisse autonomo reato e sarebbe stata assorbita in tale imputazione e non avrebbe giustificato l’avvio di un ulteriore procedimento.

Per quanto attiene al periodo successivo, il ricorrente sosteneva la necessità di valutare che il tempo rilevante si fosse ridotto a due mesi se si fosse fatto riferimento alla cessazione della permanenza (12.10.2017) e la richiesta cautelare (23.12.2017) ovvero a poco più di un anno se come dies a quo si fosse considerato l’ultima condotta dimostrativa dell’appartenenza alla associazione mafiosa dell’imputato (parte in questo procedimento cautelare).

Orbene, ad avviso dell’autorità requirente, anche volendo tenere conto del periodo di circa un anno impiegato dal GUP per emettere la sua decisione sulla richiesta cautelare e gli ulteriori sette mesi per la decisione dell’impugnazione proposta innanzi al giudice del riesame, il periodo intercorrente tra le ultime manifestazioni di appartenenza all’associazione e la decisione cautelare sarebbe stata inferiore a tre anni e ciò non avrebbe consentito di affermare la sussistenza, nel caso di specie, di un “considerevole lasso di tempo” tra l’illecito e la richiesta cautelare.

Il Tribunale del riesame avrebbe poi errato, ad avviso del PM ricorrente, nel ritenere necessaria, al fine di accertare il pericolo di reiterazione del reato, l’individuazione di elementi comprovanti la attuale appartenenza degli indagati alla societas sceleris non essendo tale posizione ermeneutica conforme al diritto positivo con la conseguenza che la progressiva diminuzione del lasso temporale oggetto di analisi per la valutazione cautelare avrebbe finito con l’identificare il pericolo di recidiva con l’istituto della quasi flagranza di reato; in altri termini, anziché effettuare un giudizio prognostico sulla possibile reiterazione dell’illecito, il giudice del riesame avrebbe effettuato un giudizio di attualità della commissione del delitto per il quale si procede.

Richiedere, inoltre, la sussistenza di elementi che dimostrino la attuale appartenenza all’associazione, significherebbe, secondo il ricorrente, travisare quanto previsto all’art. 274 c.p.p., lett. c).

Viceversa, anche considerando quale data della cessazione della permanenza quella di emissione della sentenza di condanna di primo grado, il Tribunale del riesame avrebbe comunque dovuto valutare l’incidenza del tempo trascorso sulla attualità delle esigenze cautelari e cioè sul pericolo di commissione di nuovi reati della stessa specie: affermava il ricorrente che tale lasso di tempo, nel caso di specie, sarebbe costituito da due mesi con riferimento alla richiesta cautelare e meno di due anni ove si fosse tenuto conto del momento in cui il Tribunale aveva effettuato tale valutazione. Tuttavia, nell’ordinanza impugnata, non sarebbe stato operato alcun esame di questo tipo avendo il giudice del riesame affermato semplicemente l’insussistenza di elementi dai quali desumere l’appartenenza all’associazione in epoca successiva alla condanna di primo grado.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva stimato fondato per le seguenti ragioni.

Si osservava prima di tutto che l’art. 275 c.p.p., comma 1 bis, esprime la preoccupazione del legislatore di “vincolare” il giudice – una volta intervenuta una sentenza di condanna – a tenere conto dei risultati del relativo accertamento nonché di ogni altro eventuale elemento sopravvenuto quali fattori rilevanti ai fini della valutazione della sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., lett. b) e c).

Si vuole sostanzialmente chiamare il giudice ad un esame in progress delle suddette esigenze in rapporto con l’adeguatezza delle misure applicabili nel caso specifico, evitando dunque una cristallizzazione delle emergenze probatorie che abbiano – ma non necessariamente – costituito oggetto di un precedente giudizio cautelare.

L’organo giudicante, su istanza del P.M., deve tenere conto “anche” – e dunque non esclusivamente – dell’esito del procedimento (rectius la condanna), delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti dai quali possa emergere che, successivamente alla sentenza, risulti sussistenza un periculum libertatis, sub specie pericolo di fuga e/o la reiterazione della condotta criminosa.

Il legislatore detta in questo modo criteri normativi aggiuntivi, ma non esclusivi, i quali devono guidare il giudice nell’operazione di verifica stimolata dalla pubblica accusa.

La sussistenza delle esigenze di cui all’art. 274 c.p.p., lett. b) e c), in altri termini, deve essere considerata non solo alla luce degli elementi che nel corso delle indagini preliminari sono stati ritenuti insufficienti (con eventuale rigetto dell’istanza del P.M. di applicazione di una misura coercitiva) ma anche di quelli sopravvenuti e costituiti, in particolare, dall’esito del procedimento e dalle accertate modalità del fatto.

Ciò posto, gli Ermellini rilevavano altresì che la possibilità di applicare per la prima volta, dopo la pronuncia di una sentenza di condanna, una misura cautelare personale consente, ove ne sussistano i presupposti, l’operatività delle presunzioni previste dall’art. 275 c.p.p., comma 3 (Cass., Sez. I, 24 aprile 2003, n. 20398) dal momento che, sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato la rilevanza, ai fini della valutazione cautelare, del fattore temporale: l’art. 275 c.p.p., comma 1 bis, consente al giudice di adottare una misura custodiale a carico dell’imputato anche a distanza di mesi dalla pronuncia di merito purché la motivazione dia conto dell’esistenza delle esigenze di cautela malgrado il tempo trascorso dalla commissione del fatto ed a condizione che non affermi apoditticamente l’esistenza del pericolo di fuga in ragione della sola entità della pena inflitta.

Il sinergico operare della regola del tempo trascorso e dei requisiti di attualità e concretezza delle esigenze di cui all’art. 274 c.p.p., inoltre, circoscrive il potere coercitivo del giudice della condanna, imponendogli una rigorosa e puntuale motivazione sul pericolo di recidiva anche in presenza di un’associazione mafiosa.

Il riferimento al “tempo trascorso dalla commissione del reato” di cui all’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c), impone dunque al giudice di motivare sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al tempo intercorrente tra tale momento e la decisione sulla misura cautelare giacché, ad una maggiore distanza temporale dai fatti, viene fatto corrispondere un affievolimento delle esigenze cautelari (Cass., S.U., 24 settembre 2009, n. 40538).

Oltre a ciò, veniva evidenziato che, in materia cautelare, la presunzione relativa dei pericula libertatis di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, deve pertanto essere coniugata con l’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c), sicché l’interprete è chiamato ad una lettura della norma diretta a valorizzare quegli elementi che, oggetto di deduzione difensiva o comunque contenuti in atti, siano idonei a revocare in dubbio la ripetibilità del contributo causale offerto dall’indagato e, quindi, la sua pericolosità, altrimenti presunta (Cass., Sez. V, 23 settembre 2016, n. 52628; Cass., Sez. V, 19 luglio 2016, n. 36569; Cass., Sez. IV, 27 gennaio 2016, n. 20987; Cass., Sez. VI, 18 settembre 2015, n. 42630; Cass., Sez. VI, 2 marzo 2015, n. 12669).

L’arco temporale trascorso dai fatti, ove rilevante nella sua estensione, può dunque integrare l’elemento negativo utile al superamento della presunzione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari ove si tratti di “tempo silente” ossia non segnato da condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità che ove, invece, risultino presenti, non faranno che confermare o comunque non incrinare il quadro presuntivo di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, fermo restando che si è in ogni caso escluso, onde evitare pericolosi automatismi, che il mero dato oggettivo del tempo trascorso dal compimento delle condotte illecite addebitate possa costituire un elemento di per sé solo sufficiente a consentire il superamento della presunzione suddetta tenuto conto della specifica natura di reato permanente della partecipazione ad associazione di stampo mafioso, soprattutto ove sia accertata la perdurante vitalità dell’organismo criminoso, richiedendosi l’indicazione anche di elementi dimostrativi della dissociazione o comunque dell’allontanamento in senso fisico o delinquenziale da parte dell’affiliato-imputato (Cass., Sez., I, 9 febbraio 2017, n. 13132).

Tal che se ne faceva conseguire che, sebbene in linea generale il fattore temporale costituisce un elemento che deve essere obbligatoriamente tenuto in considerazione nella delibazione della fondatezza dell’istanza di applicazione della misura cautelare, secondo la previsione di cui all’art. 292 c.p.p., comma 2 lett. c), laddove operi la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, spetta all’indagato/l’imputato indicare concreti elementi dimostrativi dell’insussistenza di qualsiasi pericolo legato al mantenimento del proprio stato di libertà.

Difatti, come già evidenziato in precedenti pronunce della Cassazione, per quanto attiene ai compiti delibativi e giustificativi del giudice, la presunzione relativa di pericolosità sociale prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3, inverte gli ordinari poli del ragionamento giustificativo nel senso che il giudice, che applica o che conferma la misura cautelare, non ha un obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula libertatis ma soltanto di tenere conto delle ragioni di esclusione, eventualmente evidenziate dalla parte o ex actis, tali da smentire, nel caso concreto, l’effetto della presunzione (Cass., Sez. VI, 20 aprile 2016, n. 23012 del 20/4/2016; Cass., Sez. I, 21 ottobre 2015, n. 5787; Cass., Sez. I, 6 ottobre 2015, n. 45657) mentre sarà invece onere dell’indagato/l’imputato allegare elementi di segno contrario in grado di superare la presunzione, dei quali l’organo giudicante è tenuto a valutare la esistenza e l’efficacia rappresentativa, in funzione dell’esclusione delle esigenze cautelari.

In sintesi, il Supremo Consesso affermava che la presunzione menzionata tende ad affievolirsi, ma non ad annullarsi, nel caso in cui un non irrilevante arco temporale separi il momento di consumazione del reato da quello dell’intervento cautelare.

Precisato ciò, si faceva inoltre presente come il suddetto orientamento abbia riguardato anche il reato associativo di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 operando anche per esso, in forza del rinvio all’art. 51 c.p.p., comma 3 bis, la presunzione relativa in ordine alla sussistenza dell’esigenze cautelari. Richiamando quanto rilevato dal Giudice delle Leggi (Corte Cost., sent. n. 231 del 2011) evidenziandosi come tale fattispecie, caratterizzata unicamente dai reati-fine, possa presentare forme e connotazioni non necessariamente dotate di quella stabilità tendenzialmente permanente rispetto ad altri fenomeni associativi, come quelli di cui all’art. 416-bis c.p., sicché la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari deve confrontarsi con il suo progressivo affievolimento con il passaggio del tempo (Cass., Sez. VI, 28 dicembre 2017, n. 3096; Cass., Sez. III, 19 gennaio 2016, n. 17110; Cass., Sez. VI, 2 dicembre 2015, n. 1406) fermo restando però che, anche per tale ipotesi criminosa, il fattore temporale, sebbene sia idoneo ad incidere sulla presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, non può ritenersi avente tout court forza demolitoria della pericolosità del soggetto soprattutto nei casi in cui, in applicazione del comma 1 bis del medesimo articolo, il giudice è chiamato a tenere conto anche di ulteriori dati quali l’esito del procedimento, le modalità del fatto (così come risultanti dagli accertamenti in sentenza) nonché di ulteriori elementi sopravvenuti che consentano comunque di ritenere sussistenti le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., lett. b) e c).

Da ciò se ne faceva conseguire che, in seguito ad una sentenza di condanna per i reati inclusi nel perimetro operativo dell’art. 275 c.p.p., comma 3, qualora l’organo giudicante, su istanza del P.M., sia chiamato a decidere sull’applicabilità o meno di una misura cautelare personale custodiale e dunque sulla sussistenza di un periculum libertatis (art. 274 c.p.p., lett. b) e c), non potrà la motivazione dell’ordinanza fondarsi esclusivamente sul tempo trascorso tra la condotta accertata e l’istanza cautelare nè, tantomeno, sulla mera gravità del reato determinante la condanna.
Il giudice, invero, deve tenere conto degli effetti derivanti dal regime presuntivo calando nella fattispecie concreta gli elementi che il legislatore, mediante l’art. 275 c.p.p., comma 1 bis, dispone siano oggetto di un esame in progress senza tenere conto di un eventuale precedente giudicato cautelare ed è dunque imprescindibile, per il Supremo Consesso, una valutazione complessiva che tenga conto delle peculiarità del caso specifico alla luce degli accertamenti di fatto e di diritto contenuti nella sentenza di condanna nonché degli ulteriori elementi a disposizione anche dunque esterni al processo, ed utili a rafforzare, ovvero affievolire la presunzione in ordine ai pericula libertatis e, di conseguenza, la tendenziale dissonanza con l’attualità e l’intensità dell’esigenza cautelare comporta un rigoroso obbligo di motivazione sia in relazione a detta attualità, ma non può escluderne, sic et simpliciter, la sussistenza (Cass., Sez. 4, 12 marzo 2015, n. 24478).

Relativamente alle singole esigenze cautelari, si notava, inoltre, come la Suprema Corte avesse precisato che, sebbene la legge richieda che il pericolo di fuga (art. 274 c.p.p., comma 1, lett. b) oltre che concreto, sia anche attuale, il requisito dell’attualità non deve intendersi come necessaria esistenza di condotte materiali che rivelino l’inizio dell’allontanamento o che siano comunque espressione di fatti ad esso prodromici essendo sufficiente accertare, con giudizio prognostico verificabile, perché ancorato alla concreta situazione di vita del soggetto, alle sue frequentazioni, ai precedenti penali, alle pendenze giudiziarie e, più in generale, a specifici elementi vicini nel tempo, l’esistenza di un effettivo e prevedibilmente prossimo pericolo di allontanamento, che richieda un tempestivo intervento cautelare (Cass., Sez. VI, 27 settembre 2018, n. 48103; Cass., Sez. V, 6 luglio 2015, n. 7270).

L’art. 274 c.p.p., lett. c), a sua volta richiede che il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato sia specificamente valutato dal giudice emittente la misura cautelare avendo riguardo alla sopravvivenza del pericolo di recidiva al momento della adozione della misura in relazione al tempo trascorso dal fatto contestato, nonché alle peculiarità della vicenda cautelare evidenziandosi pur tuttavia che, come la giurisprudenza della Cassazione ha di recente affermato, non è però possibile enfatizzare oltremodo la portata innovativa delle modifiche introdotte nel 2015 con riguardo all’attualità del pericolo di recidiva, che parte della giurisprudenza e la dottrina riteneva attributo implicito della “concretezza” richiesta dalla disposizione citata per la sua configurabilità visto che il requisito della concretezza non può identificarsi, nel regime ante-riforma, con quello dell’attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati bensì con quello dell’esistenza di elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’imputato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede (Cass., Sez. V, 24 settembre 2015, n. 43083; Cass., Sez. VI, 5 aprile 2013, n. 28618; Cass., Sez. I, 3 giugno 2009, n. 25214) mentre, successivamente alla modifica legislativa intervenuta nel 2015, è stato precisato in sede nomofilattica che, per poter affermare la concretezza ed attualità del pericolo di reiterazione di condotte criminose, non è più sufficiente ritenere – con certezza o alta probabilità – che l’imputato torni a delinquere ove se ne presenti l’occasione, ma è altresì necessario prevedere  – negli stessi termini di certezza o alta probabilità- che un’occasione per compiere nuovi delitti si possa presentare effettivamente (Cass., Sez. III, 19 maggio 2015, n. 37087).

Le Sezioni Unite, dal canto loro, sebbene incidenter tantum, hanno affermato che, in ordine all’alta probabilità del determinarsi di occasioni favorevoli alla commissione di nuovi reati, è corretta la valutazione del giudice la quale tenga conto delle circostanze di fatto in cui era maturato il delitto nonché della personalità trasgressiva del prevenuto desunta dalla condotta pregressa espressiva di un’apprezzabile ribellione ai precetti dell’autorità (Cass., S.U., 28 aprile 2016, n. 20769).

Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, gli Ermellini osservavano come, nel caso di specie, il giudice del riesame, così come precedentemente il GIP, risultasse aver sostanzialmente fondato la motivazione su un iter logico-giuridico non conforme a quello sopra descritto e derivante dal regime presuntivo di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3.

Il Tribunale de libertate, difatti, aveva posto l’accento, in modo particolare, sui seguenti elementi: la mancata applicazione di una misura cautelare personale nella fase precedente al giudizio di condanna ed il decorso del tempo tra la condotta addebitata e la richiesta della pubblica accusa.
Ebbene, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, il primo elemento è evidentemente in contrasto con l’art. 275 c.p.p., comma 1 bis, dato che il giudice è chiamato ad un giudizio cautelare “in progress” che non tenga conto dell’applicazione o meno, ai medesimi soggetti, di una misura cautelare nella fase processuale precedente alla sentenza di condanna e, dunque, nessun rilievo può essere riconosciuto all’eventuale “giudicato cautelare” formatosi antecedentemente e, tantomeno, alla mancata precedente richiesta da parte della pubblica accusa tenuto conto altresì del fatto che il Tribunale non sembrava, inoltre, avere preso in esame le modalità con le quali il fatto di reato era stato commesso dai tre imputati ampiamente descritto nella estesa decisione di primo grado – nè teneva conto della personalità dei medesimi e del contesto socio-ambientale nei quali essi erano inseriti, a ciò dovendosi aggiungere anche la continua vitalità dell’organizzazione mafiosa mentre tali aspetti avrebbero dovuto costituire oggetto di una valutazione globale da parte del giudice del riesame, e del GIP prima, in ragione dell’obbligo in tali termini posto in capo agli stessi dall’art. 275 c.p.p., comma 1 bis.

Tali deficit motivazionali, in netta violazione con le disposizioni di leggi sopra riportate (art. 275 c.p.p., commi 1 bis e 3), di conseguenza non consentivano, per la Corte, di poter ritenere determinante, al fine di escludere l’esistenza delle esigenze cautelari, la distanza temporale tra le condotte addebitate – oggetto di condanna – e la richiesta della pubblica accusa non potendosi infatti ritenere realizzato – come invece risulta aver fatto il giudice del riesame – un sostanziale capovolgimento del regime presuntivo nel senso della inesistenza delle suddette esigenze, non risultando d’altronde, nel caso de quo, la distanza temporale avere un’estensione tale da escludere, in termini di certezza o alta probabilità, l’esistenza presunta di un periculum libertatis sicché non si sarebbe potuto escludere, sic et simpliciter, l’eventuale carattere recessivo del c.d. tempo silente rispetto ad ulteriori elementi peculiari della fattispecie concreta (Cass., Sez. V, 23 maggio 2018, n. 1368).

Non esplicava, infine, per il Supremo Consesso, alcuna incidenza, rispetto all’attuale fase incidentale cautelare di legittimità, l’intervenuta decisione di secondo grado in quanto fatto successivo all’impugnazione della decisione gravata.

La Corte di Cassazione, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, annullava l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Reggio Calabria, sezione per il riesame.

Conclusioni

La sentenza in questione è assai interessante specialmente nella parte in cui viene evidenziato in che modo deve essere intesa la concretezza ed attualità del pericolo di reiterazione di condotte criminose di cui all’art. 274, c. 1, lett. c), c.p.p..

Difatti, alla luce delle modifiche del 2015 (art. 1, c. 1, legge, 16 aprile 2015, n. 47) con cui è stata modificata questa norma procedurale inserendo il requisito della attualità, viene in tale decisione postulato che, per poter affermare la concretezza ed attualità del pericolo di reiterazione di condotte criminose, non è più sufficiente ritenere – con certezza o alta probabilità – che l’imputato torni a delinquere ove se ne presenti l’occasione, ma è altresì necessario prevedere  – negli stessi termini di certezza o alta probabilità – che un’occasione per compiere nuovi delitti si possa presentare effettivamente  dal momento che il requisito della concretezza non può identificarsi, nel regime ante-riforma, con quello dell’attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati bensì con quello dell’esistenza di elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’imputato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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