In tema di responsabilità medica, la perdita di chances non si valuta solo in base alla probabilità di vita del paziente, ma anche in relazione alla possibilità di vivere più a lungo e/o con minori sofferenze

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Fatto

Dopo essere stato coinvolto in un incidente stradale, un soggetto veniva ricoverato presso un ospedale romano e ivi veniva sottoposto a splenectomia nonché al successivo esame istologico sull’organo asportato (cioè la milza), dal quale risultava l’esistenza di un linfoma non Hodgkin.

Tuttavia, i sanitari dell’Ospedale non consigliavano al paziente di effettuare il c.d. follow up (cioè il controllo periodico e programmato del linfoma), né – a detta degli attori – indicavano l’esistenza di tale linfoma alla milza nella scheda di dimissioni rilasciata al paziente. Quest’ultimo, pertanto, prendeva conoscenza dell’esistenza del tumore, ormai arrivato in sede polmonare al quarto stadio, soltanto quasi due anni dopo le dimissioni dall’Ospedale. Presa conoscenza del tumore, il paziente si sottoponeva a terapie per circa tre anni, dopodiché decedeva proprio a causa del tumore.

La convivente, i figli, i fratelli e la madre del deceduto, pertanto, agivano in giudizio nei confronti dell’ospedale, chiedendo il risarcimento dei danni correlati alla morte del proprio congiunto, per non aver i sanitari comunicato a quest’ultimo l’esistenza del tumore nonché, in subordine, per la perdita di chances di sopravvivere più a lungo e in maniera migliore, connessa sempre alla mancata informazione di cui sopra. Secondo gli attori, l’omessa informazione tempestiva della sussistenza del tumore aveva impedito al proprio congiunto di poter iniziare le cure circa due anni prima rispetto al momento in cui effettivamente erano iniziate.

La domanda veniva, però, rigettato dal tribunale di Roma, il quale riteneva che – pur non avendo i sanitari informato il paziente circa il necessario follow up del linfoma – all’interno della cartella clinica che era stata consegnata al paziente fosse presente il referto istologico con la diagnosi, la quale avrebbe permesso al paziente di prendere conoscenza della patologia. In ragione di ciò, il tribunale riteneva insussistente un nesso di causalità fra la condotta omissiva dei sanitari e il danno subito dal paziente, in quanto la negligenza di quest’ultimo, nel non prendere visione della cartella clinica, aveva interrotto il nesso eziologico.

Anche la corte di appello di Roma arrivava ad analoga decisione di escludere la sussistenza di un rapporto di causalità fra l’inadempimento dei medici e la morte del paziente e pertanto rigettava il gravame.

I ricorrenti, quindi, adivano la corte di cassazione sostenendo che il giudice di seconde cure avesse errato poiché non aveva valutato che la mancata informazione al paziente avesse impedito a quest’ultimo di gestire in maniera consapevole la propria malattia e di decidere di iniziare preventivamente le cure, le quali avrebbero potuto dare al paziente stesso delle possibilità di prolungare la propria vita oppure di vivere con minore sofferenza il periodo di vita restante.

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E’ possibile affermare che, in assenza dei parametri clinico-assistenziali codificati a far riferimento all’emergenza sanitaria, risulta difficile poter identificare l’errore nella condotta dei sanitari.In caso di contenzioso, appare meno difendibile la posizione delle strutture sanitarie e socio assistenziali, che rispondono non solo per l’operato dei dipendenti, ma anche per carenze strutturali e organizzative, e dovranno rispondere anche per i danni subiti dai dipendenti non adeguatamente forniti di dispositivi di protezione e, soprattutto, non adeguatamente formati.Questa pubblicazione si propone di fornire agli operatori strumenti utili a conoscere i termini della responsabilità medica alla luce della pandemia, anche al fine di approntare efficaci strategie difensive.Fabio M. Donelli Specialista in Ortopedia e Traumatologia, Medicina Legale e delle Assicurazioni e in Medicina dello Sport. Docente nella scuola di Medicina dello Sport dell’Università di Brescia e docente in Scienze Biomediche all’Università degli Studi di Milano. Già professore a contratto in Traumatologia Forense presso l’Università degli Studi di Bologna e tutor in Ortopedia e Traumatologia nel corso di laurea in Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Siena. Responsabile della formazione per l’Associazione Italiana Traumatologia e Ortopedia Geriatrica. Promotore e coordinatore scientifico di corsi in ambito ortogeriatrico, ortopedico-traumatologico e medico- legale.Mario Gabbrielli Specialista in Medicina Legale, già assistente di ruolo presso la USL 30 Area Senese. Già Professore Associato in Medicina Legale presso la Università di Roma La Sapienza. Professore ordinario di Medicina Legale presso la Università di Siena. Direttore della UOC Medicina Legale nella Azienda Ospedaliera Universitaria Senese. Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università di Siena, membro del Comitato Etico della Area Vasta Toscana Sud, Membro del Comitato Regionale Valutazione Sinistri della Regione Toscana, autore di 160 pubblicazioni.

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La decisione della Corte di Cassazione

Per quanto interessa in questa sede, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, ritenendo che la corte di appello, prendendo posizione sulla domanda risarcitoria per la perdita di chances, in realtà ne abbia motivato il rigetto con una motivazione soltanto apparente.

Preliminarmente, gli ermellini ripercorrono i principi in materia di perdita di chances nelle ipotesi di responsabilità medica. A tal proposito, la corte di cassazione ricorda che la perdita di chances è configurabile come la privazione della possibilità per il paziente di conseguire un risultato vantaggioso, consistente in una maggiore durata della vita oppure di avere minori sofferenze fino al momento della morte, che tuttavia è soltanto eventuale. Anche questo pregiudizio, come tutti gli altri danni, per poter essere risarcito, comporta l’accertamento dell’esistenza di un nesso di causalità con la condotta del sanitario (sia essa commissiva che omissiva). Inoltre, tale accertamento del nesso di causalità deve essere effettuato utilizzando il criterio probabilistico tipico del giudizio civile (cioè il 50% +1). Infine, il diritto al risarcimento per la perdita della chance può sussistere soltanto se si ritiene altresì che le possibilità di conseguire il risultato vantaggioso per il paziente fossero apprezzabili, serie e consistenti; mentre non si può dare luogo al risarcimento qualora la possibilità sia talmente ipotetica ed astratta che non può essere valutata dal punto di vista probabilistico. Per quanto riguarda la quantificazione del danno da perdita di chances, la corte di cassazione conferma che la stessa deve avvenire attraverso il criterio quantitativo, valutando le peculiarità del caso concreto e quindi tenendo conto delle caratteristiche che aveva la chance persa dal paziente nonché il grado di apprezzabilità, serietà e consistenza della possibilità stessa.

Ciò premesso, gli ermellini sono passati ad analizzare la motivazione della corte territoriale romana, evidenziando come quest’ultima avesse accertato l’inadempimento dei sanitari, che si era sostanziato nell’aver questi omesso di fornire al paziente indicazioni circa la necessità di sottoporre a controllo periodico e programmato il linfoma, ma aveva escluso la sussistenza del nesso di causalità tra detto inadempimento e la morte del paziente, in quanto questi era morto dopo cinque anni da quando il tumore era stato individuato e pertanto dopo il termine di prognosi di sopravvivenza indicato dalle statistiche mediche in presenza di linfoma alla milza.

In altri termini, secondo la corte di cassazione, i giudici di secondo grado hanno motivato il rigetto della domanda di risarcimento per la perdita di chances, sostenendo che anche qualora il linfoma fosse stato trattato nei due anni precedenti rispetto a quanto effettuato dal paziente (e cioè dal momento in cui lo stesso era stato accertato dai sanitari dell’Ospedale convenuto) non sarebbero state modificate in aumento le possibilità di sopravvivenza del paziente.

Tuttavia, tale motivazione non prende in considerazione il fatto che, l’inizio precoce delle cure avrebbe potuto permettere al paziente di prolungare la propria vita (rispetto ai cinque anni dall’accertamento del tumore) e di migliorare, dal punto di vista delle sofferenze subite, il residuo periodo di vita.

In altri termini, secondo gli ermellini, la corte territoriale romana non ha esaminato la possibilità che, qualora il paziente fosse stato tempestivamente informato dell’esistenza del linfoma alla milza e conseguentemente avesse svolto il controllo periodico del tumore, avrebbe potuto ottenere un vantaggio consistente appunto nel prolungamento della vita oppure nel miglioramento delle sue condizioni.

Il giudice di merito, invece, avrebbe dovuto valutare l’esistenza della possibilità per il paziente di curare più precocemente il linfoma oppure di seguire comunque un percorso diagnostico e terapeutico diverso e soprattutto di verificare se il paziente avrebbe potuto determinarsi in maniera diversa rispetto all’esistenza della malattia. Infatti, la domanda risarcitoria per la perdita di chances, comporta per il giudice l’obbligo di valutare l’esistenza della possibilità per il paziente di sottoporsi a regolare i controlli, che avrebbero permesso una diagnosi più precoce e conseguentemente un trattamento più precoce della malattia, nonché se questi avrebbero potuto determinare una diversa evoluzione della malattia e quindi una maggiore sopravvivenza del paziente o un miglioramento delle sue condizioni di vita basata.

In considerazione del fatto che la corte di appello non ha effettuato tale valutazione, gli ermellini hanno ritenuto che la loro sentenza non contenesse una reale motivazione in ordine al rigetto della domanda risarcitoria per perdita di chances e conseguentemente l’ha cassata, rimandando la decisione nuovamente alla corte territoriale romana.

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Sentenza collegata

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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