Accertata la natura probabilmente ospedaliera dell’infezione, spetta alla struttura sanitaria provare di aver rispettato le regole sulla igienizzazione degli ambienti e degli strumenti nonché sulla terapia profilattica pre e post intervento.

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Fatto

Nel caso oggetto di commento, marito e moglie avevano adito il Tribunale di Bologna per far accertare la responsabilità del medico e della struttura sanitaria presso cui la donna aveva eseguito un intervento chirurgico cui era seguita un’infezione.

In particolare, gli attori sostenevano che la donna si era ricoverata presso la struttura sanitaria per un intervento di asportazione di un’ernia, il quale non era riuscito perfettamente in considerazione del fatto che dopo due mesi la signora aveva accusato una sciatalgia bilaterale. In ragione di ciò, la paziente si sottoponeva ad un secondo intervento per recidiva dell’ernia e veniva operata sempre dallo stesso chirurgo. Tuttavia, dopo una settimana dal secondo intervento, veniva accertata una infezione chirurgica da ferito operatoria sulla paziente che la costringeva a sottoporsi a un terzo intervento dove veniva accertata che la ferita operatoria era infetta e che la paziente era positiva al batterio Serratia Marcenscens.

Il Tribunale di Bologna rigettava la domanda risarcitoria degli attori e anche la Corte di Appello di Bologna respingeva il gravame. In particolare, secondo il Collegio felsineo, sulla scorta della CTU che era stata espletata in primo grado, non era stata raggiunta la prova del danno subito dalla paziente e soprattutto del nesso causale tra l’infezione accusata dall’attrice e gli interventi medici cui la stessa si era sottoposta. Secondo i giudici, infatti, non era stato provato il nesso di causalità tra l’insorgenza dell’infezione e l’operato dei sanitari durante gli interventi chirurgici, posto che erano sussistenti altre possibili cause dell’infezione.

Non soddisfatti dell’esito dell’appello, quindi, gli attori hanno promosso ricorso in cassazione, lamentando – per quanto qui di interesse – la violazione da parte dei giudici territoriali del principio di ripartizione dell’onere della prova nei giudizi di responsabilità medica relativi a infezioni nocosomiali.

 

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, ritenendo che la Corte di Appello di Bologna avesse effettivamente applicato erroneamente i principi in tema di ripartizione dell’onere della prova.

Preliminarmente gli Ermellini hanno evidenziato le ragioni che hanno indotto la Corte di Appello a rigettare il gravame. I giudici felsinei avevano accertato la natura contrattuale della responsabilità del medico chirurgo e della struttura sanitaria e poi avevano ritenuto che i danni lamentati dall’attrice non erano riconducibili agli interventi chirurgici oggetto di causa: infatti, il Collegio riteneva che – secondo la CTU – l’infezione potesse avere probabilmente origine nocosomiale, ma vi erano altre possibili cause prevalenti, legate al fatto che la paziente si era curata da sola presso il proprio domicilio per 20 giorni prima di andare in ospedale per l’ultimo intervento dove era stata accertata l’infezione.

La Corte Suprema evidenzia come, secondo la propria consolidata giurisprudenza, nelle cause relative ad inadempimenti di obbligazioni professionali mediche, il danno evento si sostanzia della lesione del diritto alla salute (e non nel mancato rispetto delle leges artis). Pertanto, il paziente danneggiato ha l’onere di provare, anche attraverso l’uso delle presunzioni, la sussistenza di un nesso causale tra l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di nuove patologie e la condotta del sanitario. Una volta che l’attore avrà provato il suddetto ciclo causale, spetterà alla struttura sanitaria e/o al medico convenuti dimostrare che la prestazione è stata eseguita correttamente oppure che vi è stata una causa imprevedibile ed inevitabile che ha reso impossibile eseguire correttamente la prestazione dei convenuti.

Ebbene, secondo gli Ermellini, nel caso di specie, i giudici bolognesi hanno applicato in maniera sbagliata detti principi, nella misura in cui dalla CTU emerge che con alta probabilità l’infezione ha una “genesi nocosomiale” e gli stessi non hanno dato rilievo allo sviluppo dei fatti per come accertati in giudizio. Infatti, nel valutare il nesso causale tra infezione e condotta dei convenuti, i giudici avrebbero dovuto considerare i fatti pacifici che l’attrice si era recata presso la struttura per un primo intervento non riuscito e poi per un secondo intervento correttivo e che, dopo una settimana da detto intervento, era sopraggiunta un’infezione chirurgica della ferita operatoria che aveva costretto la paziente al terzo intervento dove era stata accertata la presenza del batterio.

Pertanto, dal punto di vista della causalità materiale, secondo gli Ermellini, si può ritenere che il secondo intervento è stato reso necessario dal primo intervento, non eseguito correttamente, e che il terzo intervento era stato reso necessario dal fatto che la ferita del secondo intervento si era infettata: conseguentemente, gli attori hanno così provato la causalità tra la condotta del sanitario (cioè l’esecuzione degli interventi chirurgici) e il progressivo aggravamento della patologia della paziente.

Una volta che si ritiene provato detto primo ciclo causale, spettava alla struttura sanitaria e al chirurgo provare che sussisteva un fattore causale alternativo che da solo era idoneo a causare l’infezione nonché che detto fattore era imprevedibile e inevitabile.

Tale secondo ciclo causale, tuttavia non è stato provato. Anzi la stessa CTU in primo grado aveva valutato che vi fosse una correlazione tra l’infezione e gli interventi chirurgici eseguiti e che comunque la origine dell’infezione era con alta probabilità di carattere ospedaliero.

Pertanto, essendo stata causata l’infezione probabilmente da germi e batteri ospedalieri, secondo gli Ermellini, la struttura sanitaria e il medico convenuti, per andare esenti da responsabilità, avrebbero dovuto provare:

  1. di aver adottato tutte le cautele previste dalla leges artis per garantire le condizioni igieniche dei locali dove furono eseguiti gli interventi nonché la profilassi della strumentazione chirurgica che era stata usata durante gli interventi;
  2. di aver praticato alla paziente una corretta terapia profilattica pre e post intervento chirurgico.

Ciò in considerazione del fatto che non può gravare sul paziente l’onere di provare che la struttura sanitaria e il medico abbiano adottato e rispettato i necessari standard di igiene e prevenzione per l’esecuzione di interventi sanitari.

Pertanto, i giudici di merito hanno errato nella misura in cui hanno escluso il nesso di causalità tra infezione e condotta dei sanitari per il semplice fatto che la paziente si fosse curata da sola nei 20 giorni successivi al secondo intervento chirurgico, senza invece aver accertato e valutato se i convenuti avessero rispettato le regole di profilassi durante l’intervento nonché fornito una corretta terapia alla paziente.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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