La domanda risarcitoria per violazione del consenso informato presuppone che il paziente/attore alleghi e provi che se fosse stato adeguatamente informato non si sarebbe sottoposto al trattamento sanitario

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Fatto

Un paziente, che si era sottoposto all’impianto di protesi alle valvole cardiache, unitamente ai propri familiari (coniuge e figli), aveva convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Venezia, l’Ospedale di Padova, il medico che aveva eseguito l’intervento e il Ministero della Salute. L’attore sosteneva di essersi sottoposto, nel 2001, ad un intervento di sostituzione delle valvole cardiache naturali con delle protesi meccaniche, prodotte in Brasile, che successivamente si erano rivelate gravemente difettate, conseguentemente chiedeva il risarcimento dei danni subiti – per quanto qui di interesse – per il mancato assolvimento da parte dei convenuti dell’obbligo di fornire al paziente il preventivo consenso informato circa l’intervento chirurgico eseguito.

Dopo la CTU svolta in primo grado, il Tribunale aveva rigettato la domanda attorea non affrontando la questione del mancato consenso informato e i familiari del paziente (che nel frattempo era morto) avevano promosso appello, che veniva però rigettato dalla corte territoriale veneta.

In particolare, la Corte di Appello di Venezia rilevava come, in primo grado, gli attori avessero posto la questione del mancato consenso informato, anche se era stata soltanto accennata, e che la stessa non era stata esaminata dal Tribunale, ma che nel merito la doglianza era infondata perché il medico – se avesse reso l’informazione dovuta al paziente – avrebbe dovuto riferire che le valvole avevano la certificazione CE e avevano superato tutti i test, conseguentemente il paziente avrebbe sicuramente prestato comunque il proprio consenso all’intervento.

Gli attori hanno quindi introdotto ricorso in Cassazione facendo valere (per quanto qui di interesse) un motivo di impugnazione fondato sul fatto che, perché potesse ritenersi effettivamente rispettato il diritto all’autodeterminazione del paziente, avrebbe dovuto informarlo anche dei possibili rischi connessi all’uso di quelle valvole (cioè che le stesse erano di muova generazione e non erano mai state utilizzate prima su altri pazienti), in modo che il paziente stesso avrebbe potuto valutare diverse proposte terapeutiche presso altre strutture sanitarie.

Circa il consenso informato, inoltre, anche il medico e la struttura sanitaria convenuti hanno fatto valere un motivo nel proprio ricorso incidentale, evidenziando come gli attori in primo grado non avessero ben esplicitato la loro domanda risarcitoria per violazione del consenso informato e comunque non avevano impugnato con l’appello l’omessa pronuncia del tribunale.

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La decisione della Corte di Cassazione

La corte di cassazione ha ritenuto infondati, sia il motivo formulato nel ricorso incidentale dai convenuti, che il motivo avanzato dai ricorrenti.

Per quanto attiene al motivo fatto valere dai convenuti, gli ermellini hanno evidenziato che gli attori avevano allegato in primo grado la mancanza del consenso informato circa il tipo di protesi da impiantare sul paziente e tale allegazione è sufficiente per ritenersi proposta la questione e la conseguente domanda risarcitoria. Infatti, ha ricordato la Cassazione, in materia di risarcimento danni, vige il principio dell’unitarietà del diritto al risarcimento e conseguentemente, sul piano processuale, la unitarietà della liquidazione. In altri termini, poiché il diritto al risarcimento danni è uno soltanto, indipendentemente dalle varie voci di danno, anche la domanda non può essere frazionata, pertanto, se un soggetto agisce in giudizio chiedendo il risarcimento dei danni derivanti dalla condotta posta in essere da un altro soggetto, la domanda riguarderà e comprenderà tutte le possibili conseguenze pregiudizievoli che derivano dalla condotta stigmatizzata.

Ebbene, nel momento in cui gli attori hanno rilevato in primo grado che al paziente non fosse stato richiesto il consenso informato per l’impianto delle valvole, tale affermazione sostanzia una allegazione sufficiente a far ritenere compresa nella domanda risarcitoria anche la richiesta di indennizzo per la mancata prestazione del consenso informato. Ciò detto, i giudici della suprema corte hanno rilevato come per far valere il vizio dell’omessa pronuncia, la parte deve soltanto limitarsi a ribadire, nel gravame, la richiesta che non è stata esaminata in primo grado, senza che sia necessario l’uso di formule sacramentali. Ebbene, nel caso di specie, secondo la Cassazione, gli appellanti avevano assolto l’onere di cui sopra poiché avevano dedotto che le valvole erano state impiantate “senza aver preventivamente informato i pazienti … sulla possibilità di preferire ad esse … valvole già in uso e adeguatamente sperimentate”.

Non avendo accolto il motivo dei ricorrenti incidentali, la Suprema Corte è passata conseguentemente ad esaminare il motivo sollevato dai ricorrenti principali, ritenendo anch’esso infondato.

In particolare, gli Ermellini hanno evidenziato come i giudici di merito avessero sostenuto che il consenso informato non poteva essere esteso fino a dove informare il paziente circa il tipo di valvola da impiantare, poiché si trattava di un aspetto tecnico, e che comunque in tal caso il medico avrebbe comunque dovuto dire che le valvole avevano la certificazione CE, erano state verificate da una ditta tedesca specializzata e avevano superato tutti i test e che, conseguentemente il paziente avrebbe prestato probabilmente il consenso. Sulla base di tale motivazione, i ricorrenti hanno impugnato la sentenza sostenendo che, se il medico avesse reso le informazioni dovute, il paziente avrebbe potuto valutare se acconsentire all’intervento e se farlo presso altra struttura.

Su tale premessa, i giudici supremi hanno evidenziato come i ricorrenti lamentano il diritto all’autodeterminazione del paziente (senza che vi sia stata una lesione del bene salute), pertanto, per poter ottenere il relativo risarcimento, gli stessi devono dimostrare, non soltanto che il medico non ha fornito al paziente le informazioni dovute circa il trattamento sanitario, ma devono anche allegare e dimostrare che il paziente, una volta che avesse acquisito l’informazione dal medico, avrebbe rifiutato il trattamento stesso. Tale prova, inoltre, aggiunge la Suprema Corte, può essere fornita in qualsiasi modo, anche per presunzioni e attraverso il notorio.

Ebbene, nel caso di specie, i ricorrenti non hanno allegato che il paziente, se correttamente preventivamente informato, non si sarebbe sottoposto all’intervento, ma soltanto che egli avrebbe potuto valutare se rivolgersi ad altra struttura. Pertanto, secondo gli Ermellini, la mera eventualità che il paziente si sarebbe rivolto ad altra struttura per eseguire l’intervento o altri trattamenti non è equiparabile al rifiuto della prestazione sanitaria, che integra il necessario requisito per poter configurare il nesso di causalità tra l’omessa informazione e la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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