I medici non rispondono del contagio del paziente con sangue infetto se la trasfusione era necessaria per salvargli la vita

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Avv. Pier Paolo Muià – Dott.ssa Maria Muià

Corte di Cassazione, Ordinanza n.15867 del 13 giugno 2019.

Precedenti giurisprudenziali: Cass., 3, n. 2998 del 16/2/2016; Cass., 3, n.24074 del 13/10/2017; Cass., 3, n. 2369 del 31/1/2018; Cass., 3, n. 17022 del 28/6/2018; Cass., 3, n. 19199 del 19/7/2018.

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Nel 2005 un paziente dell’Ospedale locale e i suoi genitori agivano in giudizio in primo grado, nei confronti del Ministero della salute, della Regione Veneto nonché il Comune locale e la relativa USL, per chiedere il risarcimento dei danni subiti, a seguito della contrazione, nel 1974, da parte dell’attore di una malattia epatica dovuta al contagio avvenuto a causa di una trasfusione con sangue infetto a seguito di una operazione chirurgica a un ginocchio. In particolare, riferivano gli attori che nel 1974 l’allora quattordicenne paziente si era sottoposto ad una operazione chirurgica al ginocchio ed essendosi trovato in pericolo di vita subito dopo l’operazione, i medici dell’ospedale, senza aver prima acquisito il consenso informato dei genitori, avevano effettuato la trasfusione di quattro sacche di sangue. Dopo molti anni da dette trasfusioni, il paziente aveva sviluppato una malattia epatica che era derivata dal virus, contenuto all’interno del sangue che era stato usato per la trasfusione, ed era poi degenerato in cirrosi. I convenuti si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto della domanda per intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno, essendo trascorsi oltre 30 anni della verificazione dell’evento e chiedendo comunque lo svolgimento di una CTU affinché valutasse la sussistenza del nesso di causalità tra la trasfusione e il contagio del virus.

Il tribunale rigettava la domanda di risarcimento danni promossa dagli attori e compensava le spese legali tra le parti.

I danneggiati, tuttavia, decidevano di impugnare la sentenza di primo grado, chiedendone la riforma. La Corte di Appello di Venezia, tuttavia, rigettava l’appello e confermava la sentenza del Tribunale, in quanto, aderendo alle conclusioni cui era giunta la CTU, valutava corretta dal punto di vista diagnostico e terapeutico la decisione di compiere la trasfusione del sangue perché avrebbe permesso (come ha fatto) di salvare la vita al paziente ed inoltre perché il contagio con virus HCV non avrebbe potuto comunque essere evitato neanche con l’ordinaria diligenza (secondo le conoscenze mediche del tempo). In altri termini, la corte veneziana di seconde cure riteneva che il contagio non avrebbe potuto essere evitato e che lo stesso costituisse comunque il male minore rispetto al pericolo di morte del paziente. Per quanto riguarda, invece, la violazione del diritto al consenso informato del paziente, la Corte d’appello riteneva che non vi era stata alcuna lesione poiché non poteva ritenersi che il paziente stesso, se fosse stato informato dei rischi del contagio e del pericolo di morte, avrebbe scelto di non effettuare la trasfusione.

Gli attori, pertanto, non soddisfatti della decisione, ricorrevano in Cassazione chiedendo la riforma della sentenza di merito e fondando la propria richiesta, per quanto qui di interesse, su due motivi: la mancata dimostrazione che il trattamento trasfusionale sarebbe stato corretto e la violazione del consenso informato del paziente.

La decisione della Corte di Cassazione

La corte di cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza di secondo grado, non condividendo nessuno dei due motivi proposti dai ricorrenti.

In particolare, gli ermellini, con riferimento al primo motivo di ricorso, hanno ritenuto che la CTU avesse accertato sia il nesso di causalità tra la trasfusione e il contagio, sia il fatto che detta trasfusione non avrebbe potuto essere rinviata senza causare la morte del paziente. In considerazione di tale doppio accertamento, il giudice di merito ha correttamente ritenuto che le condizioni di salute del paziente escludevano la possibilità di non effettuare la trasfusione. Pertanto, secondo gli Ermellini, la responsabilità dei sanitari per il contagio è scriminata dallo stato di necessità in cui versava il paziente. La Corte di Cassazione ha così confermato che l’evento dannoso era da ritenersi inevitabile e conseguentemente non può essere imputato alla struttura sanitaria.

Anche con riferimento al secondo motivo di ricorso, la Cassazione ne ha escluso la fondatezza. In particolare, gli Ermellini hanno ritenuto che il giudice di appello avesse correttamente dato conto del fatto che il paziente versava in gravissime condizioni e che la trasfusione apparisse un intervento terapeutico salvavita secondo le conoscenze mediche dell’epoca, nonché del fatto che, proprio in considerazione di ciò, quand’anche i genitori del paziente minorenne fossero stati informati della suddetta terapia, avrebbero certamente prestato il loro consenso. Secondo la Corte di Cassazione, quindi, la decisione di merito appare conforme all’orientamento della stessa Suprema Corte, secondo cui:

  1. è a carico del paziente la prova che sia stato leso il suo diritto a esprimere il proprio consenso informato all’intervento terapeutico, in particolare dimostrando che, se il paziente fosse stato informato dei rischi e delle conseguenze, avrebbe rifiutato il trattamento terapeutico (anche se tale prova può essere data anche attraverso delle presunzioni);
  2. il mancato assolvimento di detto onere probatorio, determina che, la pur accertata violazione dell’obbligo di informazione, non può considerarsi come causa del danno alla salute subito dal paziente.

Per dette ragioni, quindi, la Suprema corte di cassazione ha rigettato il ricorso promosso dal paziente danneggiato e dai suoi familiari, compensando però le spese legali del giudizio tra le parti in causa poiché ha ritenuto che ne sussistessero le ragioni in considerazione della materia trattata.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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