In caso di morte di un paziente per un’infezione successiva a un intervento chirurgico, grava sulla struttura sanitaria l’onere della prova di aver fatto tutto il possibile per sterilizzare l’ambiente operatorio

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Fatto

I congiunti di una paziente deceduta a causa di un’infezione, dopo un intervento chirurgico eseguito presso l’ospedale di Torino, avevano convenuto in giudizio il nosocomio al fine di ottenere il risarcimento dei danni per la morte della loro, rispettivamente, moglie e madre.

In particolare, nel maggio del 2009, la paziente si era sottoposta ad un intervento chirurgico per la riduzione di una frattura della rotula e dopo circa un paio di settimane dalla dimissione, veniva riscontrata sulla stessa un’infezione batterica da stafilococco aureo, che la costringeva ad un nuovo ricovero presso l’ospedale. Durante il secondo ricovero, inizialmente la paziente veniva sottoposta a cura antibiotica, che però – dopo una ventina di giorni – veniva sospesa a causa di un’allergia cutanea scatenata dal medicinale e – dopo l’esecuzione di alcuni prelievi emoculturali ed esami, la paziente veniva dimessa dall’ospedale (circa un mese dopo il ricovero), senza che venisse prescritta alcuna terapia antibiotica. Tuttavia, poiché l’infezione persisteva, cinque giorni dopo la seconda dimissione, la paziente veniva nuovamente ricoverata all’ospedale. Qualche giorno dopo il terzo ricovero, la paziente veniva sottoposta ad un nuovo intervento chirurgico per revisionare il focolaio della frattura ed il giorno successivo decedeva a causa del peggioramento delle sue condizioni.

I congiunti avevano, pertanto, invocato, dinanzi al tribunale di Torino, la responsabilità della struttura sanitaria, ritenendo: in primo luogo, che l’infezione batterica, che aveva condotto alla morte la propria congiunta, fosse stata contratta durante il primo intervento chirurgico per colpa della struttura sanitaria; in secondo luogo, che l’ospedale non avesse adeguatamente curato l’infezione dopo che la stessa era stata contratta.

Il tribunale di Torino rigettava la domanda risarcitoria ed analoga decisione era presa anche dalla Corte territoriale piemontese, dopo che uno degli attori aveva impugnato la sentenza di primo grado. La Corte d’Appello riteneva infondati i motivi di appello, in considerazione del fatto che la struttura sanitaria aveva rispettato le linee guida in materia di profilassi antibiotica ed aveva correttamente somministrato alla paziente un antibiotico nel periodo temporale precedente all’intervento indicato dalle stesse linee guida. Per quanto riguardava, invece, la doglianza dell’appellante circa la non corretta gestione dell’infezione batterica ormai in atto, la corte di appello di Torino riteneva che la situazione clinica della paziente non poteva far ritenere alla struttura sanitaria che l’infezione batterica fosse molto approfondita e pertanto non era ravvisabile una responsabilità dell’ospedale nella causazione della sepsi, conseguente all’infezione, per cui era derivata la morte della paziente.

L’attore ha promosso ricorso in cassazione avverso la sentenza di secondo grado, sollevando due motivi di erroneità della stessa e chiedendone conseguentemente la cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, annullando la sentenza di secondo grado e rinviando nuovamente la causa dinanzi alla Corte di appello di Torino per una nuova decisione che tenga conto dei principi indicati dalla stessa Cassazione.

Prima di passare all’esame dei motivi di ricorso, gli ermellini hanno ricordato che l’orientamento ormai consolidato in materia di nesso di causalità e di ripartizione dell’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale medica, stabilisce che l’attore danneggiato debba provare l’esistenza del nesso di causalità fra l’aggravamento della propria patologia o l’insorgenza di nuove patologie e la condotta posta in essere dal sanitario (tale prova, tra l’altro, può essere fornita anche attraverso presunzioni). Nel caso in cui il danneggiato abbia adempiuto al suddetto onere probatorio, graverà poi sul convenuto danneggiante l’onere di provare l’esistenza di una causa imprevedibile ed inevitabile che abbia reso impossibile eseguire correttamente la prestazione cui egli era tenuto.

Ciò premesso, il giudice della suprema corte hanno rilevato come, nel caso di specie, non vi fosse alcun dubbio circa le cause che hanno determinato la morte della paziente. Infatti, dall’istruttoria svolta nel giudizio di merito è emerso che pochi giorni dopo l’esecuzione dell’intervento chirurgico presso l’ospedale, la paziente aveva manifestato dei segni di una infezione, poco dopo accertata come derivante da stafilococco aureo. Inoltre, è stato accertato che la morte della paziente sia stata causata da uno shock settico, dovuto al progredire dell’infezione da stafilococco aureo. In altri termini, secondo gli ermellini risulta ormai fatto incontrovertibile che l’infezione abbia condotto alla morte della paziente.

Sulla base di tale ricostruzione di fatto, i giudici hanno quindi applicato i principi esposti nella premessa.

Per quanto riguarda l’onere probatorio gravante sul danneggiato di dimostrare il nesso di causalità tra la patologia e la condotta della struttura sanitaria, gli ermellini hanno ritenuto che, nel caso di specie, non sia emerso nei giudizi di merito alcuna possibile diversa causa dell’infezione. Pertanto, si può ritenere che l’attore abbia dimostrato, in via presuntiva, che il contagio della paziente sia avvenuto all’interno dell’ospedale, probabilmente durante l’intervento chirurgico dalla stessa subito.

Ritenuto, quindi, assolto l’onere probatorio del danneggiato, la Corte ha analizzato la posizione del danneggiante convenuto.

In primo luogo, gli ermellini hanno ritenuto che gravasse sulla struttura sanitaria una responsabilità contrattuale nei confronti della paziente, sorta nel momento in cui la stessa era stata ricoverata presso l’ospedale per eseguire l’intervento chirurgico, la quale imponeva alla struttura, non solo di eseguire la prestazione sanitaria richiesta, ma anche di garantire che l’attrezzatura chirurgica impiegata e la sala operatoria dove era stato effettuato l’intervento fossero assolutamente sterili.

Ciò detto, secondo i giudici della suprema corte, è noto che lo stafilococco aureo abbia abbastanza frequentemente origine nocosomiale e che per tale ragione esso sia particolarmente resistente agli antibiotici. Pertanto, proprio tali consapevolezze impongono alla struttura sanitaria una particolare attenzione che tutto l’ambiente operatorio sia sterile. In altri termini, poiché è noto che tale batterio trovi la sua origine e si sviluppi all’interno degli ospedali, non si può ritenere che l’insorgere di un’infezione durante o a seguito di un intervento chirurgico sia un fatto eccezionale o un fatto imprevedibile, idoneo ad escludere quindi la responsabilità della struttura sanitaria. Conseguentemente, l’unico modo per la struttura di andare esente da responsabilità in casi del genere è quello di dimostrare di aver effettuato tutto quello che era necessario per garantire una perfetta igiene della sala operatoria e degli strumenti utilizzati per l’intervento chirurgico.

In considerazione di tutto quanto sopra, i giudici della corte suprema hanno ritenuto che sia del tutto irrilevante il rispetto o meno delle linee guida circa la profilassi antibiotica da eseguire prima di un intervento chirurgico. Infatti, proseguono gli ermellini, indipendentemente dal rispetto delle linee guida, rimane il dato di fatto che l’infezione sulla paziente si è manifestata soltanto pochi giorni dopo l’intervento chirurgico; pertanto, tale circostanza induce a ritenere (a livello presuntivo) che qualcosa non sia stato eseguito correttamente in sala operatoria durante l’intervento chirurgico.

Infine gli ermellini concludono, riassumendo che una volta che il paziente danneggiato abbia dimostrato la sussistenza del nesso di causalità fra l’infezione e il ricovero ospedaliero, spetta alla struttura sanitaria dimostrare il venir meno di detto nesso di causalità, dimostrando di avere eseguito in maniera corretta l’attività di sterilizzazione dell’ambiente operatorio. Poiché nel caso di specie  la struttura non ha dimostrato ciò, la Corte ha accolto il ricorso e cassato la sentenza di merito che non aveva correttamente valutato tale aspetto.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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