Quando è configurabile il reato di cui all’art. 473 c.p. nel caso di marchi regolarmente registrati?

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(Annullamento con rinvio)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 473)

Il fatto

La Corte di Appello di Lecce, in riforma di una sentenza emessa dal Tribunale di Lecce, assolveva gli imputati dai reati di ricettazione e detenzione per la vendita di merce con marchio contraffatto loro rispettivamente ascritti perché il fatto non sussiste.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Le parti civili, nella loro rispettiva qualità di titolare e licenziatario di tutti i marchi, proponevano ricorso per Cassazione a mezzo del loro difensore deducendo i seguenti vizi: 1) erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 474 c.p. sostenendosi come la Corte di appello avesse erroneamente escluso la sussistenza del reato di contraffazione ritenendo che il marchio oggetto del giudizio non potesse ingenerare confusione così valorizzando un elemento solo eventuale della fattispecie che non si pone come discrimine per l’integrazione del reato e non applicando “il criterio oggettivo previsto dall’interpretazione autentica della Corte Suprema, secondo cui il reato sussiste quando vi è l’utilizzo illegittimo, totale o parziale, del marchio precedentemente registrato” fermo restando che, a sostegno di siffatto assunto, venivano riportate una serie di sentenze della Corte di Cassazione al fine di evidenziare come l’affidamento del singolo non sia l’oggetto della tutela della norma incriminatrice bensì la fede pubblica, così restando irrilevante l’eventuale grossolanità del falso; 2) vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), osservandosi a tal proposito, premesso che risultavano essere stati acquisiti, quali prove documentali, marchi registrati di notorietà internazionale e di rilevanza autonoma, che erano stati acquisiti al dibattimento le fotografie dei capi di abbigliamento in sequestro, aventi il marchio che riproduceva la campana M. protetta dai marchi registrati prima richiamati; orbene, sulla base di tali premesse, veniva dunque denunciata la contraddittorietà della motivazione rispetto alle emergenze processuali là dove si negava la contraffazione della campana che, invece, emergeva evidente una volta acquisita la registrazione del marchio e alla luce della sua palese riproduzione nel marchio dei beni in sequestro.

Ciò posto, la sentenza impugnata veniva ulteriormente censurata osservandosi come fosse illogica nella parte in cui escludeva il reato sulla base dell’assenza di fatture mentre proprio tale dato dimostrava, per i ricorrenti, l’irregolarità della gestione dei capi d’abbigliamento fermo restando che la decisione impugnata: mancava di motivazione con riguardo al prezzo della merce; affermava contraddittoriamente che la contraffazione era data per scontata dal Tribunale là dove, invece, essa era stata ricavata dal giudice del primo grado con motivazione puntuale che valorizzava i rilievi fotografici dalla cui osservazione ricavava, in particolare, la riproduzione della campana con la stessa forma e dimensione di quella M.; non si confrontava con la sentenza di primo grado; considerava la campana solo una forma così trascurando la normativa in materia di marchi e non tenendo in considerazione che essa, invece, era un marchio registrato; non destrutturava l’impianto probatorio valorizzato nella sentenza di primo grado; che ometteva di motivare sulle statuizioni civili.

Le argomentazioni sostenute dalla difesa dell’imputato

La difesa dell’imputato depositava memoria difensiva con la quale si deduceva quanto segue: 1) inammissibilità del ricorso per la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 3, e del principio di autosufficienza obiettandosi come entrambi i motivi esposti attenevano a una diversa ricostruzione del merito che, in quanto tale, era inammissibile nel giudizio di legittimità e che il ricorrente, pur lamentandosi del contenuto di specifici atti, ometteva di sostenere la validità degli assunti con la loro completa trascrizione fermo restando che si puntualizzava, comunque, come la posizione del ricorrente non fosse collegata a quella delle parti civili visto che presso il suo negozio non venivano sequestrati capi di abbigliamento accusati d’essere la contraffazione del marchio M. e ove si considerava che le fatture acquisite al processo dimostrano che costui aveva acquistato regolarmente tale merce; 2) infondatezza del motivo di ricorso che denuncia la violazione di legge rilevandosi al riguardo che l’art. 474 c.p. incrimina la riproduzione integrale, in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa di un marchio o di un segno distintivo ovvero la riproduzione parziale ma in modo da poter ingenerare confusione con il segno distintivo protetto, ovvero, ancora, ogni riproduzione che, per quanto non perfetta, sia idonea a dare l’apparenza del marchio originale e, sulla base di tale osservazione, si sosteneva l’insussistenza di tali requisiti nel caso concreto atteso che il marchio utilizzato, da un lato, era inidoneo a creare confusione con i marchi registrati giacché era distinguibile da ciascuno di essi, dall’altro, aveva caratteristiche che gli attribuivano una propria peculiare e distinta identità che lo poneva al di sotto della soglia del c.d. falso grossolano; 3) infondatezza dei lamentati vizi di motivazione posto che la difesa dell’imputato difendeva la correttezza della motivazione osservando che il fascicolo fotografico riguardava i capi di abbigliamento sequestrati presso un negozio dell’imputato e ribadendo che il marchio non era idoneo a ingenerare confusione rimarcandosi al contempo l’infondatezza delle doglianze mosse con riguardo all’omessa motivazione sulle statuizioni civili in realtà assenti in ragione dell’assoluzione.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva ritenuto fondato per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito in via pregiudiziale che i due motivi, attenendo al comune tema dei requisiti richiesti per la configurabilità del delitto di cui all’art. 474 c.p., comma 2, in combinazione con l’art. 473 c.p., potevano essere esaminati congiuntamente.

Premesso ciò, gli Ermellini facevano presente che, pur a fronte del fatto che alcuni punti risultavano essere stati messi in discussione all’esito delle due sentenze di merito e che potevano essere individuati nel fatto che le odierne ricorrenti avevano registrato i loro marchi che il marchio riportato sulla merce sequestrata riproduceva esattamente la forma di detta campana, ma era riempita con scritte differenti rispetto a quelle caratterizzanti il marchio M. e che la circostanza de qua non era stata messa in dubbio neanche dalla difesa dell’imputato che poneva l’accento soltanto sulla necessità che il marchio sia falsificato nella sua interezza al fine di ritenere configurata la contraffazione ovvero sulla necessità che esso sia confondibile, ma non contrastava l’assunto dei ricorrenti nella parte in cui rilevano l’identità tra la campana registrata da M. e la campana utilizzata nel marchio in contestazione, in relazione a questa ricostruzione pacifica del fatto storico in entrambi i gradi di merito, pur tuttavia, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, il Tribunale e la Corte di Appello erano giunte a conclusioni differenti dato che, se il Tribunale aveva ritenuto sussistente una contraffazione osservando che per la sua configurazione “non è necessario che il prodotto in questione abbia un aspetto tale da indurre (o poter indurre) in inganno l’acquirente (non tutelando la norma in questione la buona fede del consumatore), bensì è sufficiente che esso presenti fattezze tali da poter essere manifesta e servile imitazione decisamente riferita dal suindicato teste”, la Corte di appello, dal suo canto, aveva osservato che anche il marchio in contestazione risultava essere stato regolarmente registrato e che esso doveva ritenersi diverso rispetto a quello ritenuto, dalla pubblica accusa, contraffatto proprio in ragione delle scritte contenute all’interno della campana, differenti e non confondibili rispetto a quello delle parti civili fermo restando come i giudici di seconde cure rilevavano altresì come le stesse parti civili non avessero documentato alcuna iniziativa intesa a inibire il marchio così come registrato; che i prodotti in questione venivano venduti dagli imputato “nella ordinaria commercializzazione”, in quanto entrambi “svolgevano regolare attività commerciale con normale esposizione dei capi in vendita”.

Orbene, alla luce di tali passaggi motivazionali, il Supremo Consesso osservava come la circostanza della registrazione del marchio, valorizzata dalla Corte di appello, fosse un dato indifferente ai fini della configurazione del reato in ragione del carattere autonomo del diritto penale e in forza del costante orientamento della Corte di Cassazione che ha pacificamente affermato che il reato di cui all’art. 473, c.p., nel caso di marchi regolarmente registrati, può ritenersi astrattamente sussistente ove siano ravvisabili i connotati della condotta descritta dalla norma incriminatrice ora richiamata (Sez. 5, Sentenza n. 51754 del 02/10/2018; Sez. 1, Sentenza n. 30774 del 09/09/2015; Sez. 5, Sentenza n. 10193 del 09/03/2006) ossia la materiale contraffazione o alterazione dell’altrui marchio (Sez. 1, Sentenza n. 30774 del 09/09/2015; Sez. 5, Sentenza n. 10193 del 09/03/2006) o, ancora, la materiale contraffazione o alterazione dell’altrui marchio fermo restando, per un verso, come sia stato inoltre chiarito che tali due condotte consistono, rispettivamente, nella riproduzione integrale o nella riproduzione parziale del marchio originale, con la precisazione che, in tale ultimo caso, la riproduzione deve essere di consistenza comunque idonea a creare la confusione con il marchio originale (Sez. 5, n. 38068 del 09/03/2006), per altro verso, come si debba ulteriormente precisare che il requisito di confondibilità affermato dal richiamato orientamento giurisprudenziale non va riferito al momento dell’acquisto e alla prospettiva dell’acquirente, ma va verificato nel rapporto di comparazione con il marchio genuino e ciò in quanto “l’interesse del singolo acquirente, infatti, non rappresenta l’oggetto della tutela giuridica apprestata dalla norma penale di riferimento dato che, come affermato dal prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, l’interesse giuridico tutelato dagli artt. 473 e 474 c.p., è innanzitutto (…) la pubblica fede in senso oggettivo, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione, e non l’affidamento del singolo, sicché, ai fini dell’integrazione dei reati non è necessaria la realizzazione di una situazione tale da indurre il cliente in errore sulla genuinità del prodotto (Sez. 5, Sentenza n. 18289 del 27/01/2016; Sez. 2, Sentenza n. 28423 del 27/04/2012; Sez. 2, Sentenza n. 28423 del 27/04/2012).

Oltre a ciò, veniva ulteriormente specificato che “il reato di cui all’art. 473 c.p., ha natura di reato plurioffensivo, destinato a tutelare non solo quel particolare bene giuridico, di natura immateriale e collettiva, rappresentato dalla pubblica fede, ma anche altri beni meritevoli di protezione, quali le privative sui marchi registrati, l’interesse alla regolarità del commercio e dell’industria e, più in generale, l’economia nazionale, secondo una condivisibile tendenza volta ad assicurare effettività ai principi costituzionali in materia di iniziativa economica e di proprietà privata” (Sez. 5, Sentenza n. 18289 del 27/01/2016; sulla portata plurioffensiva dei reati contro la fede pubblica in generale, cfr. Sezioni Unite, Sentenza n. 46982 del 25/10/2007).

La Suprema Corte, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, ribadiva che, ai fini della configurabilità del reato di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni (art. 473 c.p.), nessun rilievo spiega la cosiddetta contraffazione grossolana, considerato che il bene tutelato in via principale e diretta dalla fattispecie incriminatrice, non è la libera determinazione dell’acquirente, ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell’ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione trattandosi, pertanto, di un reato di pericolo per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell’inganno e nemmeno ricorre l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno, similmente a quanto richiesto per l’ipotesi del reato di cui all’art. 474 c.p., considerato che ferma la diversità della condotta caratterizzanti le due fattispecie, la “res” oggetto della condotta è la medesima, di guisa che ricorrendo la “eadem ratio” si applica analogo principio (Sez. 5, Sentenza n. 10193 del 09/03/2006; Sez. 5, Sentenza n. 5260 del 11/12/2013).

Ciò posto, l’individuazione esclusivamente del marchio oggettivamente inteso quale bene giuridico protetto in via secondaria a sua volta importava, per il Supremo Consesso, l’irrilevanza dei contesti commerciali nei quali i prodotti con il marchio contraffatto vengono diffusi ovvero le modalità della loro circolazione fermo restando che, con particolare riferimento alle modalità di comparazione dei marchi, al fine della valutazione del requisito della confondibilità inteso nel senso sopra precisato, risultava utile fare riferimento ai principi fissati dalla Cassazione civile che a sua volta ha spiegato che “in tema di tutela del marchio, l’apprezzamento sulla confondibilità fra segni distintivi similari deve essere compiuto (…) non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, con riguardo, cioè, all’insieme degli elementi salienti – grafici, fonetici e visivi -, nonché tenendo conto che, ove si tratti di marchio “forte” (…), detta tutela si caratterizza per una maggiore incisività, rispetto a quella dei marchi “deboli”, poiché rende illegittime le variazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l’identità sostanziale del nucleo ideologico in cui si riassume l’attitudine individuante” (“in tema di tutela del marchio, l’apprezzamento sulla confondibilità fra segni distintivi similari deve essere compiuto dal giudice di merito – le cui valutazioni si sottraggono al controllo di legittimità se congruamente e correttamente motivate – non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, con riguardo, cioè, all’insieme degli elementi salienti – grafici, fonetici e visivi -, nonché tenendo conto che, ove si tratti di marchio “forte” (in quanto frutto di fantasia senza aderenze concettuali con i prodotti contraddistinti), detta tutela si caratterizza per una maggiore incisività, rispetto a quella dei marchi “deboli”, poiché rende illegittime le variazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l’identità sostanziale del nucleo ideologico in cui si riassume l’attitudine individuante” (Cass. Civile, Sez. 1, Sentenza, n. 10205 del 18/12/2018; Sez. 1, Sentenza n. 1249 del 18/01/2013; Sez. 1, Sentenza n. 4405 del 28/02/2006; Sez. 1, Sentenza n. 17671 del 29/07/2009).

Così delineati i principi giuridici di riferimento, secondo il Supremo Consesso, la Corte di appello li aveva disattesi tutti, per come fondatamente eccepito dalle società ricorrenti, avendo i giudici di seconde cure escluso la sussistenza del fatto valorizzando le modalità di commercializzazione dei beni, ossia circostanze che, sempre ad avviso della Cassazione, non interferivano con la configurazione del reato ritenendosi invece come, al contrario, il giudice del primo grado avesse fatto corretta applicazione di tutti i principi di diritto sopra richiamati.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi precisato quando è configurabile il reato di cui all’art. 473, c.p., nel caso di marchi regolarmente registrati.

Difatti, in tale pronuncia, citandosi giurisprudenza conforme, si afferma che il reato di cui all’art. 473, c.p., nel caso di marchi regolarmente registrati, può ritenersi astrattamente sussistente ove siano ravvisabili i connotati della condotta descritta dalla norma incriminatrice in questione ossia la materiale contraffazione o alterazione dell’altrui marchio postulandosi al contempo che queste due condotte consistono, rispettivamente, nella riproduzione integrale o nella riproduzione parziale del marchio originale fermo restando che la riproduzione deve essere di consistenza comunque idonea a creare la confusione con il marchio originale.

In particolare, è sostenuto in questo provvedimento che il requisito di confondibilità, nel senso appena precisato, non va riferito al momento dell’acquisto e alla prospettiva dell’acquirente ma va verificato nel rapporto di comparazione con il marchio genuino considerato altresì che, in tema di tutela del marchio, l’apprezzamento sulla confondibilità fra segni distintivi similari deve essere compiuto  non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, con riguardo, cioè, all’insieme degli elementi salienti – grafici, fonetici e visivi -, nonché tenendo conto che, ove si tratti di marchio “forte“, detta tutela si caratterizza per una maggiore incisività, rispetto a quella dei marchi “deboli“, poiché rende illegittime le variazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l’identità sostanziale del nucleo ideologico in cui si riassume l’attitudine individuante.

Precisato ciò, in siffatta decisione, è infine asserito che, al contrario, nessun rilievo spiega la cosiddetta contraffazione grossolana considerato che il bene tutelato in via principale e diretta dalla fattispecie incriminatrice, non è la libera determinazione dell’acquirente, ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell’ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione, fermo restando che nemmeno ricorre l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno, similmente a quanto richiesto per l’ipotesi del reato di cui all’art. 474 c.p., considerato che ferma la diversità della condotta caratterizzanti le due fattispecie, la “res” oggetto della condotta è la medesima, di guisa che ricorrendo la “eadem ratio” si applica analogo principio.

Allo stesso modo, sono ritenuti irrilevanti i contesti commerciali nei quali i prodotti con il marchio contraffatto vengono diffusi ovvero le modalità della loro circolazione.

Tale pronuncia, quindi, anche perché si allinea lungo la scorta di un orientamento nomofilattico considerato, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di verificare la sussistenza del reato di cui all’art. 473, c.p. ove si verifichi un caso analogo a quello trattato in questa occasione.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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