La Cassazione individua un caso atto a configurare il delitto di rapina impropria: vediamo quale

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(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 628)

(Ricorso rigettato)

Il fatto

Il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del riesame, rigettava il ricorso ex art. 309 c.p.p. avverso una ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli Nord che aveva disposto la misura cautelare della custodia in carcere per i reati di associazione a delinquere, rapina aggravata in concorso, ricettazione aggravata continuata in concorso e riciclaggio aggravato continuato in concorso.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso detta ordinanza, veniva proposto ricorso per Cassazione per i seguenti motivi: a) inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del furto; b) mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione nonché violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di reato con riferimento a tutti i reati in contestazione; c) violazione di legge processuale per erronea interpretazione degli artt. 274, 275 e 292 c.p.p. e per contraddittorietà, apparenza e manifesta illogicità della motivazione in merito alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e alla scelta della misura cautelare.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva stimato infondato – per alcuni motivi, in modo manifesto e, come tale, ritenuto immeritevole di accoglimento.

Si osservava a tal proposito prima di tutto che, a fronte di deduzioni che, secondo il Supremo Consesso, invocavano principi estranei alla fase cautelare, si reputava opportuno chiarire – in linea generale –i limiti di sindacabilità da parte della Suprema Corte dei provvedimenti adottati dal giudice del riesame dei provvedimenti sulla libertà personale posto che, secondo l’orientamento consolidato elaborato in sede nomofilattica, condiviso nella pronuncia qui in commento, l’ordinamento non conferisce al giudice di legittimità alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonché del tribunale del riesame.

Tal che se ne faceva conseguire come il controllo di legittimità sui punti devoluti sia circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di illogicità evidenti ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (cfr., Sez. 6, n. 2146 del 25/05/1995; Sez. 2, n. 56 del 07/12/2011).

Oltre a ciò, veniva altresì fatto presente come il controllo di legittimità sulla motivazione delle ordinanze di riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale sia diretto a verificare, da un lato, la congruenza e la coordinazione logica dell’apparato argomentativo che collega gli indizi di colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza dell’indagato e, dall’altro, la valenza sintomatica degli indizi fermo restando che tale controllo, stabilito a garanzia del provvedimento, non involge il giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e la concludenza dei risultati del materiale probatorio quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da errori logici e giuridici; in particolare, si sottolineava come il vizio di mancanza della motivazione dell’ordinanza del riesame in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza non possa essere sindacato dalla Corte di legittimità quando non risulti “prima facie” dal testo del provvedimento impugnato restando ad essa estranea la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle questioni di fatto (Sez. 1, n. 1700 del 20/03/1998), nè possono essere dedotte come motivo di ricorso per cassazione avverso il provvedimento adottato dal Tribunale del Riesame pretese manchevolezze o illogicità motivazionali di detto provvedimento rispetto a elementi o argomentazioni difensive in fatto di cui non risulti in alcun modo dimostrata l’avvenuta rappresentazione al suddetto Tribunale come si verifica quando essa non sia deducibile dal testo dell’impugnata ordinanza e non ve ne sia neppure alcuna traccia documentale quale, ad esempio, quella costituita da eventuali motivi scritti a sostegno della richiesta di riesame ovvero da memorie scritte ovvero, ancora, dalla verbalizzazione, quanto meno nell’essenziale, delle ragioni addotte a sostegno delle conclusioni formulate nell’udienza tenutasi a norma dell’art. 309 c.p.p., comma 8, (Sez. 1, n. 1786 del 05/12/2003, dep. 2004).

Fatte queste premesse di ordine ermeneutico, gli Ermellini rilevavano come il primo motivo fosse infondato atteso che, secondo l’insegnamento della Suprema Corte, nella rapina impropria, la violenza o la minaccia possono realizzarsi anche in luogo diverso dal quello della sottrazione della cosa e in pregiudizio di persona diversa dal derubato dal momento che, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione della cosa e uso della violenza o minaccia essendo sufficiente che, tra le due diverse attività, intercorra un arco temporale idoneo a realizzare, secondo i principi di ordine logico, i requisiti della quasi flagranza e tale da non interrompere il nesso di contestualità dell’azione complessiva posta in essere al fine di impedire al derubato di rientrare in possesso della refurtiva o di assicurare al colpevole l’impunità (cfr., Sez. 2, n. 30127 del 09/04/2009).

Ciò precisato, veniva oltre tutto evidenziato come, secondo la medesima giurisprudenza, il concetto di “violenza alla persona” non comprenda solo la violenza propria, cioè l’impiego di forza fisica nei confronti della persona offesa al fine di togliergli la libertà di movimento ma anche la c.d. violenza impropria che si verifica quando l’agente priva comunque coattivamente la volontà di autodeterminazione della persona offesa che si trova così costretta a fare, tollerare od omettere di fare qualcosa contro la propria volontà: condotte che, per le ragioni dinanzi esposte, possono essere realizzate entrambe contro soggetto diverso dal derubato che, per qualsiasi motivo, intervenga a difesa di quest’ultimo ovvero al fine di evitare che il colpevole rimanga impunito posto che è stato
affermato che la nozione di “violenza” deve farsi rientrare nell’ampia accezione tecnico-giuridica riconducibile piuttosto all’ipotesi criminosa dell’art. 610 c.p. e, quindi, consista in qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene così indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare od omettere qualche cosa indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico (cfr., Sez. 2, n. 39941 del 26/11/2002; Sez. 2 n. 1176 del 11/10/2012).

Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour osservavano come, per l’appunto nella fattispecie in esame, risultasse che l’intervento delle Forze dell’Ordine sul luogo della commissione del fatto era stato ostacolato dalla presenza nelle immediate vicinanze dell’Istituto di credito assaltato di numerosi veicoli abbandonati di traverso, in posizione strategica, lungo le vie cittadine in modo da recintare la piazza in cui aveva sede l’Istituto e creare un cordone d’accesso invalicabile: condotta d’ostacolo predisposta strumentalmente ma in termini prodromici rispetto al momento della sottrazione del denaro prelevato in banca – che aveva impedito la sorpresa in flagranza, ritardato l’inizio del sopralluogo e delle indagini e consentito agli autori del reato di darsi alla fuga.

Questo comportamento, caratterizzato da sottrazione del bene mobile e precedente apposizione di ostacoli all’intervento difensivo, costituito da due condotte temporalmente collegate, si era quindi svolto senza soluzione di continuità e aveva integrato il concetto di “violenza alla persona” essendo stato finalizzato – non tanto a vincere la resistenza delle vittime “originarie” – quanto ad ostacolare l’intervento di soggetti (le Forze dell’Ordine) che, senza quell’ostacolo imprevisto ed imprevedibile, avrebbero proceduto nell’immediatezza al compimento degli atti di polizia giudiziaria nonché all’identificazione e all’arresto dei rei impedendo loro di garantirsi l’impunità.
La censura veniva pertanto disattesa con l’affermazione del seguente principio di diritto: “Integra il reato di rapina impropria la condotta dell’agente che, al fine di impossessarsi di quanto sottratto ovvero per conseguire l’impunità, impedisca alle forze dell’ordine tramite la pregressa apposizione di automezzi in prossimità del luogo di commissione del fatto in numero e in posizione tale da ostacolare l’accesso di automezzi delle stesse forze dell’ordine – di intervenire prontamente, determinando un conseguente ritardo nell’esecuzione delle operazioni di polizia giudiziaria finalizzate all’identificazione e all’eventuale arresto in flagranza del reo nonché al compimento delle operazioni di sopralluogo e degli altri atti di assicurazione della prova: in tal caso, la predetta condotta impeditiva, configura un’ipotesi di violenza alla persona, intesa come violenza impropria, avendo la stessa coartato la libertà di autodeterminazione degli appartenenti delle forze dell’ordine che, conseguentemente, per il semplice ritardo imposto al loro intervento, sono stati costretti a fare, tollerare od omettere le azioni doverose di contrasto a cui erano tenuti“.

Ciò posto, anche il secondo motivo veniva considerato manifestatamente infondato.

Gli Ermellini notavano a tal riguardo in via preliminare come la concludenza e l’efficacia probatoria dei rilevanti elementi probatori a carico dell’indagato, quali evidenziati dal giudice di prime cure, fosse stata ritenuta dal Tribunale come ampiamente idonea a resistere e superare gli elementi a discarico introdotti dalla difesa implicitamente disattesi per evidente irrilevanza sul decisum, per come argomentato, atteso che il mero apparente contrasto tra elementi di prova a carico ed elementi a discarico non poteva essere invocato per addurre inesistenti illogicità del provvedimento impugnato nemmeno ancorandosi a pronunce isolate della Suprema Corte evidenziandosi, a tal fine, che la giurisprudenza prevalente della Corte di legittimità ha evidenziato che la previsione normativa della regola di giudizio dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio“, che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell’imputato (cfr., Sez. 2, n. 7035 del 09/11/2012; Sez. 1, n. 20371 del 11/05/2006; Sez. 1, n. 30402 del 28/06/2006; Sez. 2, n. 16357 del 02/04/2008; Sez. 2, n. 19575 del 21/04/2006) rilevandosi al contempo che, sul piano applicativo, la valorizzazione giurisprudenziale della formula del ragionevole dubbio ha anche influenzato la fisionomia del giudizio di appello, con le note pronunce Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016 e Sez. U, n. 186 del 19/01/2017, ma, tuttavia, insuperabili ragioni di ordine logico e sistematico non consentono l’estensione dell’art. 533 c.p.p., alla materia cautelare non solo perché si tratta di norma volta a disciplinare il giudizio di merito ma anche perché l’incompletezza dell’accertamento nella fase cautelare preclude la trasposizione in questa di principi propri del giudizio di merito che viene espresso all’esito del formarsi della prova in dibattimento: appare concreto il rischio di una non coerente applicazione del criterio risolutore del fatto incerto al di fuori dei confini fisiologici del giudizio di merito mentre, invece, non vi è motivo di discostarsi dal tradizionale insegnamento delle Sezioni Unite – rispettato dalla pronuncia impugnata – secondo cui, in tema di misure cautelari personali, per gravi indizi di colpevolezza ai sensi dell’art. 273 c.p.p., devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che – contenendo “in nuce” tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono, di per sé, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato e tuttavia – come nella fattispecie – consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Sez. U, n. 11 del 21/04/1995).

Detto questo, i giudici di legittimità ordinaria osservavano come, nel caso di specie, il Tribunale, senza incorrere in alcun vizio motivazione, avesse correttamente evidenziato elementi di gravità indiziaria in relazione a tutti i reati contestati.

Ciò posto, parimenti manifestamente infondato veniva stimato il terzo motivo.

Difatti, con riferimento alle esigenze cautelari, si evidenziava come il Tribunale avesse valorizzato la presenza di numerosi pregiudizi per delitti della stessa specie (tra cui, due condanne irrevocabile per furto aggravato, una per ricettazione ed una per rapina), commessi con modalità analoghe a quella in contestazione denotandosi al contempo la propensione dell’indagato alla commissione di delitti contro il patrimonio apparisse addirittura agevolata dalla sua attività lavorativa rendendolo un personaggio di riferimento dell’associazione a contatto con i vertici per l’acquisto dei camion e per le sostituzioni delle targhe e addirittura “prescelto” per la guida della gru a dimostrazione della disponibilità offerta a ricoprire più “ruolo-chiave” in seno al gruppo.

A tutto questo il Tribunale aggiungeva, dandone forte evidenziazione, che i componenti dell’associazione e lo stesso ricorrente erano stati intercettati fino al momento del fermo “mentre erano intenti a pianificare nuove e analoghe allarmanti rapine ai danni di diversi istituti di credito, in diverse province della regione Campania” e la Suprema Corte considerava tale passaggio argomentativo assistito da congruità logica-giuridica nei confronti della quale il ricorrente, secondo il Supremo Consesso, ometteva sostanzialmente di confrontarsi preferendo insistere nell’inammissibile motivo di ricorso che reiterava pedissequamente quello svolto in sede di gravame.

Infine, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, il Tribunale risultava essersi conformato al pienamente condiviso orientamento della Suprema Corte secondo cui, in tema di misure cautelari personali, la concretezza postula che il pericolo di reiterazione del reato non sia ipotizzabile in astratto ma sia desunto da elementi di fatto esistenti (cfr., Sez. 2, n. 11511 del 14/12/2016, dep. 2017; Sez. 2, n. 47891 del 07/09/2016; Sez. 2, n. 53645 del 08/09/2016; Sez. 6, n. 8211 del 11/02/2016; Sez. 3, n. 12477 del 18/12/2015) mentre l’attualità di esso deve essere affermata qualora – all’esito di una valutazione prognostica fondata sulle modalità del fatto, sulla personalità del soggetto e sul contesto socio-ambientale in cui egli verrà a trovarsi, ove non sottoposto a misure – appaia probabile, anche se non imminente, la commissione di ulteriori reati; ne deriva che il requisito dell’attualità del pericolo può sussistere anche quando l’indagato non disponga di effettive ed immediate opportunità di ricadute (cfr., Sez. 2, n. 44946 del 13/09/2016; Sez. 2, n. 26093 del 31/03/2016) atteso che la valutazione prognostica in parola non richiede la previsione di una “specifica occasione” per delinquere che esula dalle facoltà del giudice (Sez. 5, n. 33004 del 03/05/2017) rilevandosi al contempo come tale orientamento giurisprudenziale fosse da doversi privilegiare rispetto a quello che postula che, per l’attualità del pericolo, non sia più sufficiente il riconoscimento dell’alta probabilità di tornare a delinquere qualora se ne presenti l’occasione essendo invece necessario prevedere che all’indagato si presenti effettivamente un’occasione prossima per compiere ulteriori delitti della stessa specie (cfr., Sez. 3, n. 34154 del 24/04/2018; nel medesimo senso, Sez. 6, n. 24779 del 10/05/2016)

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui si individua una specifico caso qualificabile come rapina propria.

Difatti, in tale pronuncia – dopo essere stato affermato che, nella rapina impropria, la violenza o la minaccia possono realizzarsi anche in luogo diverso dal quello della sottrazione della cosa e in pregiudizio di persona diversa dal derubato dal momento che, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione della cosa e uso della violenza o minaccia essendo sufficiente che, tra le due diverse attività, intercorra un arco temporale idoneo a realizzare, secondo i principi di ordine logico, i requisiti della quasi flagranza e tale da non interrompere il nesso di contestualità dell’azione complessiva posta in essere al fine di impedire al derubato di rientrare in possesso della refurtiva o di assicurare al colpevole l’impunità – viene postulato il principio di diritto secondo cui integra il reato di rapina impropria la condotta dell’agente che, al fine di impossessarsi di quanto sottratto ovvero per conseguire l’impunità, impedisca alle forze dell’ordine tramite la pregressa apposizione di automezzi in prossimità del luogo di commissione del fatto in numero e in posizione tale da ostacolare l’accesso di automezzi delle stesse forze dell’ordine – di intervenire prontamente, determinando un conseguente ritardo nell’esecuzione delle operazioni di polizia giudiziaria finalizzate all’identificazione e all’eventuale arresto in flagranza del reo nonché al compimento delle operazioni di sopralluogo e degli altri atti di assicurazione della prova dato che, in tal caso, la predetta condotta impeditiva, configura un’ipotesi di violenza alla persona, intesa come violenza impropria, avendo la stessa coartato la libertà di autodeterminazione degli appartenenti delle forze dell’ordine che, conseguentemente, per il semplice ritardo imposto al loro intervento, sono stati costretti a fare, tollerare od omettere le azioni doverose di contrasto a cui erano tenuti.

Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione in quanto, ove si verifichi una ipotesi di tal genere, perlomeno alla stregua di cotale approdo ermeneutico, un fatto di questo tipo deve essere qualificato come delitto di rapina impropria.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale peculiare tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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