La conversione del sequestro conservativo in pignoramento non consegue ex lege alla sola sentenza di condanna occorrendo un quid pluris: vediamo in cosa consiste

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(Annullamento senza rinvio)

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 320)

Il fatto

 

La Corte di appello di Cagliari respingeva l’opposizione proposta ex art. 667 c.p.p., comma 4, e, per l’effetto, confermava il provvedimento con cui, in sede esecutiva, era stata accertata la conversione in pignoramento, ai sensi dell’art. 320 c.p.p., del sequestro conservativo di un immobile, appartenente ad un legale in relazione al procedimento penale in cui questi era imputato di appropriazione indebita ai danni di una cliente.

Il sequestro era stato eseguito dietro decreto di autorizzazione adottato dal G.i.p. nel corso del procedimento, contestualmente all’emissione del decreto penale di condanna e sino alla concorrenza della pena pecuniaria ivi inflitta (40.800 Euro di multa), a garanzia del credito erariale relativo alla pena pecuniaria stessa, alle spese e a ogni altro somma allo Stato dovuta.

Il decreto penale era stato quindi opposto dall’imputato e conseguentemente revocato.

Il procedimento penale si era infine concluso con la condanna dell’avvocato alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno e tre mesi di reclusione e 700 Euro di multa, pronunciata dalla Corte di appello di Cagliari divenuta irrevocabile dall’8 maggio 2018, data della dichiarata inammissibilità del ricorso per cassazione.

L’imputato aveva di seguito proposto ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p. dichiarato esso stesso inammissibile in sede di legittimità ordinaria.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questo provvedimento veniva proposto ricorso per cassazione articolato sulla base di cinque motivi così strutturati: 1) violazione della legge processuale posto che, nel corso del procedimento esecutivo, la difesa aveva invitato all’astensione i tre membri del collegio giudicante per gravi ragioni di convenienza e in relazione ad incompatibilità determinate da atti già compiuti nel procedimento ma nessuno dei tre giudici aveva dato corso all’invito, ciascuno ritenendo che non vi fossero i presupposti per astenersi; orbene, ad avviso del ricorrente, tale decisione sarebbe stata totalmente immotivata e contraria alla legge trattandosi di ipotesi di astensione che – a fronte delle ragioni addotte, non contestate – si sarebbe configurata come doverosa; 2) violazione di legge e vizio della motivazione giacché la sentenza di condanna, alla data dell’8 maggio 2018, non si sarebbe potuta considerare irrevocabile, alla stregua di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni codicistiche pendendo il termine per il ricorso straordinario, poi effettivamente proposto, avverso la decisione assunta in sede di legittimità; 3) violazione di legge e vizio della motivazione rilevandosi a tal proposito che il sequestro conservativo era stato disposto il 7 febbraio 2014, in pari data rispetto al decreto penale, poi revocato a seguito dell’opposizione avverso di esso proposta e, dunque, la revoca del decreto penale avrebbe determinato la caducazione del sequestro stesso, non più convertibile in pignoramento, così come, revocato il decreto, sarebbe inoltre venuto meno il credito da garantire, strettamente legato alla condanna in esso disposta, fermo restando che la questione sarebbe stata rilevabile d’ufficio e, comunque, sarebbe stata sollevata con memoria perfettamente tempestiva; 4) violazione di legge e vizio della motivazione ribadendosi le ragioni a sostegno dell’intervenuta caducazione del sequestro e censurandosi l’omessa presa d’atto, da parte del giudice dell’esecuzione, di tale circostanza; 5) violazione di legge e vizio della motivazione dolendosi dell’omessa pronuncia su un’ulteriore questione dedotta ossia la genericità del decreto di sequestro da cui sarebbe derivata la nullità del vincolo.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione

Il primo motivo veniva stimato inammissibile perché non consentito dalla legge.

In relazione alla mancata astensione dei giudici, per i quali sarebbero sussistite causa d’incompatibilità rilevanti ex art. 34 c.p.p., rispetto ad atti da loro già compiuti nel procedimento, gli Ermellini ribadivano il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 35216 del 19/04/2018; Sez. 3, n. 285 del 26/11/1999,; Sez. 1, n. 108 del 14/01/1993) secondo cui l’inosservanza delle disposizioni di cui al citato art. 34 – le quali non attengono alla capacità del giudice ed esulano, quindi, dalle previsioni di cui all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. a), – non è deducibile come motivo di nullità della decisione in sede di impugnazione ma può solo costituire motivo di ricusazione del giudice, ai sensi dell’art. 37 c.p.p., comma 1, lett. a).

Pertanto, dal momento che quest’ultima doglianza non venne per tempo proposta dall’interessato, il Supremo Consesso reputava come essa non potesse essere utilmente scrutinata in sede di legittimità ordinaria.

La medesima conclusione si imponeva, ad avviso del Supremo Consesso, in relazione alla mancata astensione riconducibile alle “gravi ragioni di convenienza” di cui all’art. 36 c.p.p., comma 1, lett. h) posto che, ad avviso del Supremo Consesso, l’eventuale inosservanza, da parte del giudice, dell’obbligo di astensione in una tale evenienza non costituisce nemmeno motivo di ricusazione – come ripetutamente affermato (Sez. 2, n. 19292 del 15/01/2015; Sez. 2, n. 36365 del 07/05/2013; Sez. 2, n. 10474 del 04/04/1997) – nè comporta la nullità del provvedimento non incidendo neppure essa sulla capacità del giudice e potendo unicamente e semmai rilevare sotto il profilo disciplinare. A fronte di ciò, i giudici di piazza Cavour osservavano come tale assetto fosse manifestamente compatibile con la Costituzione in quanto la mancata inclusione tra i casi di ricusazione della causa di astensione in discorso, che ha natura residuale, è giustificata dalla sua indeterminatezza sicché la contraria interpretazione si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali del giudice naturale e della ragionevole durata del processo, consentendo il proliferare di dichiarazioni di ricusazione pretestuose e strumentali (Sez. 2, n. 27611 del 19/06/2007).

Il secondo motivo veniva considerato inammissibile perché manifestamente infondato.

Si affermava a tal proposito che, da un lato, il ricorso straordinario per errore di fatto, quale mezzo straordinario di impugnazione, costituisce un’eccezione all’inoppugnabilità delle decisioni della Corte di cassazione giustificata dall’esistenza di vizi interni al relativo procedimento, di natura meramente percettiva e non valutativa, nonché connotati da decisività (Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015; Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002; Sez. 2, n. 41782 del 30/09/2015; Sez. 2, n. 2241 del 11/12/2013; Sez. 4, n. 6770 del 17/01/2008), dall’altro, l’accertamento di tali vizi eccezionalmente prevale, in ragione di superiori interessi di giustizia, sul valore della certezza e della stabilità delle situazioni giuridiche correlato all’intervenuta formazione del giudicato che “costituisce ancora un valore essenziale per l’ordinamento e rappresenta uno dei principali scopi dell’attività giurisdizionale svolta dalla Corte di cassazione” come ricordato da Sez. U, n. 13199 del 21/07/2016.

Il rimedio di cui all’art. 625 bis c.p.p., ad avviso del Supremo Consesso, sottende, dunque, il passaggio in giudicato della condanna (Sez. 5, n. 15368 del 19/01/2016) posto che il presupposto imprescindibile per la legittimazione ad esperire l’impugnazione straordinaria è lo status di condannato inteso come il soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda (Sez. U, n. 13188 del 2016).

Tal che, alla luce di quanto sin qui esposto, se ne faceva conseguire come la tesi del ricorrente risultasse palesemente errata in diritto prima ancora che priva, allo stato, e per effetto dell’intervenuta declaratoria d’inammissibilità dello stesso ricorso straordinario, di ogni pratica rilevanza.

I motivi terzo, quarto e quinto, tra loro connessi e da esaminare congiuntamente, invece, venivano reputati fondati per le seguenti ragioni.

Si osservava prima di tutto come la tesi della nullità genetica del vincolo, apposto con il sequestro conservativo, dipendente da vizi del relativo decreto, fosse destituita di fondamento posto che il provvedimento emanato risultava conforme al dettato normativo poiché l’art. 316 c.p.p., comma 1, consente di disporre il sequestro conservativo, in funzione di garanzia delle obbligazioni derivanti dal reato, senza pretendere l’esatta specificazione della loro entità ed essendone invece sufficiente la determinabilità, intesa come indicazione di un presumibile ammontare, che può essere indicato con criterio di approssimazione (allo scopo sia di valutare l’adeguatezza o meno dell’eventuale offerta di cauzione sostitutiva, sia di giustificare l’entità dei beni da sottoporre a vincolo: Sez. 5, n. 16750 del 30/03/2016; Sez. 5, n. 35525 del 25/06/2010; Sez. 5, n. 28268 del 08/05/2009).
Nella specie, ad avviso della Suprema Corte, il decreto di sequestro indicava, in modo puntuale, l’importo della pena pecuniaria allo stato – ancorché non irrevocabilmente – già irrogata nonché i crediti accessori espressamente menzionati dall’art. 316, comma 1, c.p.p. comprendenti “le spese del procedimento” e “ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato“, legittimamente richiamate con formula generica.

Esso, pertanto, si sottraeva alla formulata censura.

Oltre a ciò, si stimava poi errato postulare, come in ricorso, che la revoca del decreto penale, conseguente alla proposta opposizione, avrebbe comportato la perdita di efficacia della misura cautelare dal momento che il sequestro conservativo integra un istituto sistematicamente dotato di piena autonomia così come esso non presuppone, dal lato dello sviluppo cronologico del procedimento, l’emanazione di una pronuncia di condanna ma, secondo il chiaro disposto normativo, soltanto l’esercizio dell’azione penale e siffatto esercizio, emesso il decreto penale di condanna, per la Corte, era certamente avvenuto.

Da ciò se ne faceva discendere che, benché disposto contestualmente al decreto penale, il sequestro non traeva dunque da quest’ultimo la sua legittimità viceversa correlata al fumus del commesso reato e al pericolo che, in relazione alla sentenza, emanata o emananda, e anteriormente alla sua irrevocabilità, si disperdessero le garanzie del credito (Sez. U, n. 51660 del 25/09/2014) né, dalle sorti del decreto penale, dipendeva la persistente efficacia della misura reale.

A sua volta l’emissione del decreto penale, per il considerevole importo di 40.800 Euro di pena pecuniaria, aveva verosimilmente reso più stringente il periculum in mora nel caso di specie ma l’opposizione proposta non costituiva, di per sé, ragione necessariamente destinata ad eliderlo tenuto anche conto che l’art. 464 c.p.p., comma 4, consente al giudice, all’esito dell’opposizione, di irrogare una pena anche diversa e più grave di quella fissata in sede monitoria fermo restando che, in ogni caso, la parte interessata la quale, in relazione al progredire del processo, avesse ritenuto cessata o ridotta l’esigenza cautelare, avrebbe potuto e dovuto domandare al giudice competente l’adozione delle corrispondenti statuizioni.

Ciò posto, si faceva però presente che tuttavia la conversione del sequestro conservativo in pignoramento non consegue ex lege alla sola sentenza di condanna essendo anzitutto necessario, ai sensi dell’art. 320 c.p.p., comma 1, che quest’ultima abbia ad oggetto la pena pecuniaria (ovvero, in caso di sequestro disposto a beneficio della parte civile, il risarcimento del danno in favore della parte stessa: Sez. 1, n. 30308 del 31/03/2011) tenuto conto altresì del fatto che la conversione non è prevista, piuttosto, in relazione ai soli crediti accessori (quali le spese processuali o la somma dovuta in favore della Cassa delle Ammende), non dipendenti da una condanna al pagamento della pena pecuniaria e fermo restando che, per un verso, deve trattarsi di pena pecuniaria eseguibile essendo indispensabile, per la conversione in pignoramento, l’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile, che possa costituire titolo esecutivo a norma dell’art. 474 c.p.c. (Sez. 4, n. 9851 del 19/01/2015), per altro verso, eseguibile non può considerarsi, per definizione, la condanna a pena pecuniaria condizionalmente sospesa in quanto, come ben evidenziato da Sez. 6, n. 40332 del 08/10/2003, la condanna a pena pecuniaria sospesa, in conformità ai principi generali sulle obbligazioni, non produce a favore dell’erario un diritto di credito e correlativamente un obbligo a carico del condannato ma semmai un’aspettativa destinata a trasformarsi in diritto con il realizzarsi della condizione.

Veniva inoltre fatto presente che se è vero che anche l’aspettativa è una situazione giuridica soggettiva per la quale possano essere disposti atti conservativi, ma a tale tutela, strumentale al soddisfacimento del futuro diritto di credito, può ricorrersi quando vi sia una situazione che renda attuale la possibilità dell’avveramento della condizione, è altrettanto vero che, col concedere la sospensione condizionale della pena, il giudice presume che il condannato si asterrà nel futuro dal commettere ulteriori reati e, in questo caso e in altri termini, s’è dinanzi ad una presunzione che la condizione di cui si parla non sarà avverata ossia una situazione che rende incompatibile, in assenza di elementi sopravvenuti, l’adozione o il mantenimento della misura cautelare.

Tali considerazioni inducevano la Suprema Corte a ritenere che il perdurare del sequestro conservativo non fosse più consentito, nel processo in questione, già a seguito della pronuncia della sentenza di primo grado (in parte qua divenuta definitiva) che, nel condannare l’imputato a pena congiunta, detentiva e pecuniaria, aveva ordinato la sospensione condizionale di entrambe.

Pertanto, una volta rilevato che alla data di irrevocabilità della sentenza, né il sequestro conservativo poteva ritenersi ancora legittimo, né esso era suscettibile di convertirsi in pignoramento, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, l’ordinanza impugnata veniva annullata senza rinvio e si disponeva che il sequestro conservativo dovesse essere revocato direttamente dalla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l).

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui chiarisce quando la conversione del sequestro conservativo in pignoramento consegue ex lege alla sola sentenza di condanna.

Difatti, non è sufficiente che venga emessa questa sentenza occorrendo un quid pluris consistente nel fatto che tale provvedimento deve avere ad oggetto la pena pecuniaria ovvero, in caso di sequestro disposto a beneficio della parte civile, il risarcimento del danno in favore della parte stessa.

Non solo.

Nella pronuncia qui in commento è anche affermato che la conversione del sequestro conservativo in pignoramento non è prevista in relazione ai soli crediti accessori (quali le spese processuali o la somma dovuta in favore della Cassa delle Ammende), non dipendenti da una condanna al pagamento della pena pecuniaria essendo per contro richiesta una pena pecuniaria eseguibile ossia un credito certo, liquido ed esigibile che possa costituire titolo esecutivo a norma dell’art. 474 c.p.c..

Tal che, alla stregua di ciò, gli Ermellini, in siffatto provvedimento, negavano che potesse considerarsi “pena pecuniaria eseguibile” una pena pecuniaria condizionalmente sospesa in quanto la condanna a pena pecuniaria sospesa, in conformità ai principi generali sulle obbligazioni, non produce a favore dell’erario un diritto di credito e correlativamente un obbligo a carico del condannato ma semmai un’aspettativa destinata a trasformarsi in diritto con il realizzarsi della condizione.

Il giudizio in ordine a tale pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, avvalendosi a tal fine anche di giurisprudenza conforme, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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