Rideterminazione in executivis delle pene accessorie applicate a seguito di condanna per bancarotta fraudolenta

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Cassazione penale sez. I 03/12/2019, n, 3290. depositata il 27 gennaio 2020

“È consentito anche al giudice dell’esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata delle pene accessorie, previste dalla L. fallimentare, art. 216 u.c., quando siano state inflitte in misura pari a dieci anni e sia richiesto di adeguarlo al nuovo testo della norma come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222/2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni”.

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Sommario: 1. Il caso. – 2. Sent. n. 6240/2014: rideterminazione in executivis, senza discrezionalità, delle pene accessorie. – 3. Dichiarazione di incostituzionalità dell’art 216, ultimo comma, legge fallimentare: rideterminazione in executivis caso per caso. – 4. Le Sezioni unite Suraci rivisitano il precedente principio espresso nella sent. n. 6420/2014: rideterminazione in executivis delle pene accessorie sulla base dei criteri dell’art. 133 c.p. – 5. Rideterminazione in executivis delle pene accessorie a seguito di sentenza passata in giudicato prima della pronuncia di incostituzionalità n. 222/2018.

         1. Il caso

con ordinanza in data 27 maggio 2019 la Corte di appello di Milano, quale giudice dell’esecuzione, respingeva l’istanza presentata e volta ad ottenere la rideterminazione della durata delle pene accessorie nella misura minima, inflitte ai sensi dell’art 216 della legge fallimentare con sentenza emessa dalla stessa Corte distrettuale e divenuta irrevocabile nel marzo 2015. L’istante ricorreva quindi per cassazione, articolando come unico motivo l’annullamento dell’ordinanza impugnata per inosservanza ed erronea applicazione dell’art.133 c.p., in relazione alla commisurazione delle pene accessorie. Secondo la difesa, ritenendo queste ultime “illegali”, avrebbero dovuto essere dichiarate estinte alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 222/2018, che ha affermato la parziale illegittimità dell’art 216 l.f. nella parte in cui, all’ultimo comma, non prevedeva la durata delle pene accessorie nella misura variabile “fino a dieci anni”. Nel caso di specie la Corte di appello, pur aderendo a tale soluzione, ha ritenuto che la durata delle pene accessorie dovesse essere pari a dieci, seppur quella principale fosse di soli due anni di reclusione. Dall’ordinanza emerge la mancanza di valutazione dei fatti, che risultano privi di una particolare gravità e della personalità criminale del condannato il quale, ha oltretutto provveduto al risarcimento della curatela fallimentare. La corte di Cassazione, ritenendo fondato il ricorso, ha annullato l’ordinanza impugnata disponendo il rinvio alla Corte d’appello di Milano e il rinnovo dell’esame dell’incidente di esecuzione.

La vicenda processuale in esame concerne il potere del giudice dell’esecuzione per la rideterminazione delle pene accessorie a seguito di sentenza passata in giudicato.

La questione di diritto attiene alla possibilità di chiedere quest’ultima, con rimedio dell’incidente di esecuzione.

Il caso in esame presenta una sua peculiarità, in quanto vi è stata formazione del giudicato prima della pronuncia della Corte costituzionale n. 222 del 5/12/2018, con la quale è stato dichiarato parzialmente incostituzionale l’art 216, ultimo comma del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare)[1], nella parte in cui predeterminava nella misura fissa di dieci anni la durata delle relative pene accessorie, anziché prevederne l’applicazione “fino a dieci anni”.

Prima di esaminare il principio enunciato dalla Corte nella sentenza in commento, pare preliminarmente opportuno ripercorrere brevemente l’evoluzione della giurisprudenza che, dalla sentenza delle Sezioni unite n. 6240 del 27 Novembre 2014, passando prima attraverso la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 216 , ultimo comma della legge fallimentare ad opera della succitata sentenza della Consulta e poi alla sentenza della Cassazione a Sezioni unite, 28 Febbraio 2019, n. 28910, ha portato all’odierno orientamento sulla questione, confermato dalla Cass. Pen. sez. I 03/12/2019, n, 3290.

 

 

L’intera vicenda giuridica vede la luce nell’ordinanza n. 1137 del 9 aprile 2014, depositata il 22 luglio 2014, quando la prima sezione penale della Corte di Cassazione rimette alle Sezioni unite un’importante questione di diritto: “se l’erronea o l’omessa applicazione da parte del giudice della cognizione di una pena predeterminata per legge nella specie e nella durata o l’applicazione da parte del medesimo giudice, previa delimitazione del principio di legalità della pena in rapporto al giudicato e alla sua applicazione in sede esecutiva, di una pena accessoria extra o contra legem, possano essere rilevate, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione”[2].

Questa ordinanza si inserisce in un contesto storico che vede essersi affermato, ad opera della pronuncia della Corte costituzionale n. 32/2014[3], che dichiarava l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, e della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni unite n. 42585 del maggio 2014, cd. “Gatto”, il principio secondo cui l’intervento in executivis è consentito tutte le volte in cui sia in atto una pena “illegittima”[4].

Una soluzione alla questione sottoposta alle Sezioni unite dall’ordinanza n.1137/2014, presuppone un’osservazione sul principio di intangibilità del giudicato[5] e sui poteri del giudice dell’esecuzione[6], che sono tra di loro in un rapporto inversamente proporzionale, dove all’aumentare dello spazio dato al primo diminuisce quello del secondo e viceversa.

In passato, l’inviolabilità del giudicato comportava inevitabilmente quasi un’estromissione della fase esecutiva. È solo con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 che sì dà il via ad un processo di erosione dell’intangibilità del giudicato, il cui graduale superamento trova riconoscimento anche nel nuovo codice di procedura penale, in cui si allarga lo spazio dell’intervento del giudice dell’esecuzione.

Infatti, l’art. 673 cpp[7], unitamente a quelli precedenti, disciplina i compiti del giudice dell’esecuzione in caso di eventi sopravvenuti alle sentenze definitive, sia di condanna che di assoluzione.

Secondo l’orientamento tradizionale, in caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice, cessano gli effetti penali di una sentenza di condanna.

Si è affermato però nel tempo l’orientamento che, al sopravvenire di tali ultime circostanze, prevede la possibilità di una rideterminazione della sanzione da parte del giudice dell’esecuzione, prevalendo quindi il valore della legalità della pena[8] sulla intangibilità del giudicato[9].

La stretta correlazione che emerge tra il superamento dell‘intangibilità del giudicato e la legalità della pena, fa sì che una pena inflitta extra o contra legem deve, quindi, essere rimossa non solo attraverso i rimedi previsti in sede di cognizione, ma anche, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, da parte del giudice dell’esecuzione[10].

Le Sezioni Unite richiamando il precedente della sentenza Gatto[11], che si pronunciava in relazione alla pena principale, non esitarono ad affermare il medesimo principio anche per le pene accessorie, non essendo consentita dall’ordinamento l’esecuzione di una pena non conforme, in tutto o in parte, ai parametri legali.

L’emendabilità di una pena accessoria illegale da parte del giudice dell’esecuzione, trova il suo presupposto non solo in norme di rango superiore, costituzionale e convenzionale, ma anche in norme del codice di rito, quale l’art. 676 cpp che prevede espressamente la competenza del giudice dell’esecuzione in tema di pene accessorie, a mente del quale: “Il giudice dell’esecuzione è competente a decidere in ordine all’estinzione del reato dopo la condanna, all’estinzione della pena quando la stessa non consegue alla liberazione condizionale o all’affidamento in prova al servizio sociale, in ordine alle pene accessorie, alla confisca o alla restituzione delle cose sequestrate.”

Ulteriore presupposto lo ritroviamo nell’art. 183 delle disp. Att. Cod. proc. Pen. che consente al Pm di richiedere, quando non si sia provveduto in sede di cognizione, l’applicazione di una pena accessoria, purché questa sia “predeterminata dalla legge nella specie e nella durata”[12].

A questo punto, affermata la possibilità di intervento in executivis per la rideterminazione di una pena accessoria illegale, occorre stabilire i limiti entro i quali il giudice dell’esecuzione possa agire.

Su tale punto furono chiamate a pronunciarsi le Sezioni unite, che a tal proposito affermarono siffatto principio: “l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata”.

Tanto è ricavabile dall’art. 183 disp. Att. Cod. proc. Pen. Tra le pene accessorie emendabili in sede esecutiva senza alcuna discrezionalità valutativa, può farsi riferimento alle previsioni dell’art. 29 c.p.[13] che fissa i casi in cui alla condanna consegue automaticamente la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.

Non sono consentiti, invece, interventi manipolatori del giudicato che comportino l’esercizio di poteri discrezionali, con il ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p.[14], per la determinazione della pena accessoria.

Esclusa così la possibilità per il giudice dell’esecuzione di intervenire discrezionalmente sul quantum della pena accessoria, le Sezioni unite hanno chiarito per quali tipologie di pene accessorie l’intervento è consentito, in quanto privo di qualsivoglia valutazione discrezionale, e per quali è escluso.

Nulla quaestio nel caso in cui ad una condanna debba conseguire una pena accessoria temporanea non espressamente determinata, in quanto tale determinazione segue la regola generale di cui all’art. 37 c.p. A mente del quale “quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata uguale a quella della pena principale inflitta”.

Diverso è il discorso relativamente a quelle pene accessorie per le quali la legge prevede un minimo e/o un massimo.

In tal proposito esistevano due orientamenti contrapposti:

  • Per il primo, maggioritario, tali pene accessorie dovevano ritenersi predeterminate per legge e quindi commisurabili con ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p.[15];
  • per il secondo, minoritario, può parlarsi di pene espressamente determinate solo quando il legislatore ne preveda una durata fissa, mentre per tutte le altre tipologie, compresa quella per la quale sia previsto un minimo e/o un massimo, trova applicazione l’art. 37 c.p. con la conseguente commisurazione in misura pari a quella della pena principale inflitta[16].

Ritengono le Sezioni unite adite, che sia condivisibile il secondo orientamento, affermando il seguente principio: “sono riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata non è espressamente determinata dalla legge penale, quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 c.p a quella della pena principale inflitta”.

 3. Dichiarazione di incostituzionalità dell’art 216, ultimo comma, legge fallimentare: rideterminazione in executivis caso per caso.

Tale ultima impostazione della sentenza n. 6240/2014 della Corte di Cassazione, venne posta a sostegno della soluzione, che fu avanzata dalla prima sezione penale rimettente alla Corte Costituzionale, della questione di legittimità circa l’art. 216, ultimo comma e 223, ultimo comma del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 recante “disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa”, nella parte in cui prevedevano “che per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità di esercitare uffici presso qualsiasi impresa”.

La sezione rimettente osservava infatti che “l’esigenza di un legale sistema sanzionatorio, che dovrebbe rendere possibile un adeguamento individualizzato, proporzionale, delle pene inflitte con le sentenze di condanna, potrebbe in larga parte essere soddisfatta ove, eliminandosi il riferimento alla misura fissa di dieci anni, rivivesse la regola generale di cui all’art 37 c.p., cosi consentendosi al giudice di determinare la durata della pena accessoria in collegamento con la pena principale inflitta e, quindi, in base a valutazioni di gravità del fatto concreto”[17].

L’esame della Corte nella sentenza n.222 del 2018 è incentrato proprio sul profilo della durata fissa in dieci anni della pena accessoria prevista per il reato di bancarotta fraudolenta.

Da una prima analisi effettuata dalla Consulta sull’art. 216, ultimo comma della legge fallimentare, le pene previste in durata fissa dallo stesso, non appaiono compatibili con i principi costituzionali in materia di pena e nello specifico con il principio di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

Richiamando la precedente sentenza n. 50 del 1980, la Corte aveva affermato che “in linea di principio previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il “volto costituzionale” del sistema penale; ed il dubbio di illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la natura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”[18].

La durata fissa di dieci anni, prevista dall’ultimo comma dell’articolo 216 l.f., per le pene accessorie del reato di bancarotta fraudolenta, non può ritenersi “ragionevolmente proporzionata”, considerando la pluralità di fattispecie e connesso disvalore riconducibili allo specifico reato.

A prescindere quindi dalla qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato e dalla gravità delle condotte costitutive dello stesso, la durata delle pene accessorie rimane invariata e fissa in dieci anni.

Siffatta rigidità, non può che riversarsi in una manifesta sproporzionalità per eccesso del sistema sanzionatorio nei reati di bancarotta fraudolenta meno gravi.

Per tale trattamento sanzionatorio è quindi possibile un emendamento da parte del giudice a condizione che possa effettuarsi sulla base di “precisi punti di riferimento già rinvenibili nel sistema legislativo”[19].

Bisogna quindi setacciare il sistema dei reati fallimentari e individuare se sia in grado di offrire tali punti di riferimento. La sezione rimettente, sul punto, considera che laddove la Corte dichiarasse, dell’art 216 ultimo comma, illegittimo l’inciso “durata di dieci anni”, si rispanderebbe la regola generale di cui all’art 37 c.p.

Tuttavia, il sistema sotto esame, quello dei reati fallimentari, offre una soluzione alternativa e valida a quella avanzata dalla sezione rimettente, trovando tali punti di riferimento negli articoli 217[20] e 218[21] della stessa legge fallimentare, che prevedono le medesime pene accessorie disponendone una durata non fissa ma discrezionale, commisurata dal giudice “fino a “un massimo stabilito dalla legge.

Tale logica può essere trasposta nell’articolo censurato, che viene quindi dichiarato illegittimo dalla Consulta nella parte in cui dispone: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa” anziché “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”.

Tale soluzione permetterà al giudice di determinare caso per caso, e disgiunta da quella che presiede alla commisurazione della pena detentiva, la durata delle pene accessorie previste dalla disposizione censurata, sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p.; durata che potrebbe essere superiore a quella della pena detentiva contestualmente inflitta, purché entro il limite massimo di dieci anni.

4. Le Sezioni unite Suraci rivisitano il precedente principio espresso nella sent. N. 6420/2014: rideterminazione in executivis delle pene accessorie sulla base dei criteri dell’art. 133 c.p.

All’indomani della pronuncia della Corte costituzionale, con ordinanza del 14 dicembre 2018, n. 56458/2018, la quinta sezione della Corte di Cassazione rimette alle Sezioni unite un’articolata questione di diritto in materia di inflizione delle pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta, di cui all’ultimo comma dell’art 216, legge fallimentare, cosi come risulta dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Ciò che la sezione rimettente chiedeva, era di rivisitare il principio espresso nella sentenza n. 6240/2014[22], in quanto quest’ultimo collideva con la nuova elaborazione dell’art. 216, ultimo comma effettuata dalla Corte costituzionale, determinando sostanzialmente una impossibilità applicativa del principio stesso.

In particolar modo chiede se tali pene accessorie dovessero essere considerate come pene accessorie non- predeterminate e per tanto soggette alla regola dell’art. 37 c.p; ovvero considerate pene accessorie predeterminate, proprio in virtù della nuova formulazione e quindi commisurabili sulla base dei criteri prescritti dall’art. 133 c.p., sulla scia della sentenza 5 dicembre 2018, n. 222/2018[23].

Le Sezioni unite del 28 febbraio 2019, n. 28910/2019 ritengono che l’indirizzo espresso dalla precedente sentenza n. 6240/2014, debba essere ormai considerato superato. Anche le ragioni arrecate a sostegno di quell’orientamento, seppur pregiate, non meritano adesione.

I principi che richiamano valori costituzionali di colpevolezza e proporzionalità consentono di interpretare l’art 37 c.p “come prescrittivo di un automatismo che, seppur mediato dall’aggancio alla misura della pena principale, questa sì stabilita in via discrezionale dal giudice, rappresenta pur sempre un sistema rigido di determinazione del trattamento punitivo, che non trova giustificazione soprattutto se si considera la funzione cui assolvono le pene accessorie, l’estrema varietà delle condotte che, in violazione dei precetti penali, realizzano le condizioni per la loro inflizione ed il severo carico di afflittività che le contraddistingue”.

Il raggiungimento delle finalità proprie delle pene accessorie necessita, nel rispetto del principio di individualizzazione, proporzionalità e personalità della pena, una commisurazione caso per caso e all’interno di una cornice edittale stabilita dalla legge, sulla base dei criteri valutativi individuati dall’art. 133 c.p.

Il bilanciamento automatico sulla base dell’art. 37 c.p., affermato dalla sentenza n. 6240/2014, non rispetterebbe tale necessità.

Ritengono, quindi, le sezioni unite Suraci di dover superare il precedente principio enunciato e di formulare il seguente:” le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base al criterio di cui all’art 133 cod. pen.”.

Alla luce di tale principio, si può affermare che le pene accessorie devono essere considerate come “predeterminate” entro una forbice data, con la conseguenza che non trova applicazione l’art. 37 c.p. ma, di regola la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 c.p.

5. Rideterminazione in executivis delle pene accessorie a seguito di sentenza passata in giudicato prima della pronuncia di incostituzionalità n. 222/2018.

Ripercorsa, quindi, l’evoluzione giurisprudenziale dell’intera questione, si può finalmente scendere nel vivo della sentenza della Cassazione penale, Sez. I, del 3 dicembre 2019, n. 3290/2019.

Questa pronuncia interviene per chiudere una questione rimasta insoluta, perché non devoluta al giudizio delle precedenti Sezioni unite: la possibilità di operare tale nuova determinazione, che tenga conto della diversa struttura della pena non prefissata e predeterminata dal legislatore, nell’ambito dell’incidente di esecuzione dopo che sulla sua durata, già stabilita in misura fissa ed invariabile di dieci anni, si sia formato il giudicato.

Va premesso che ai sensi dell’art 136 Cost.[24] Quando la corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma in questione (“illegale”) cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

I commi 3[25] e 4 dell’art. 30 della legge Costituzionale 11 marzo 1953, n. 87 dispongono che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”.

Nel caso di specie, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art 216, ultimo comma della legge fallimentare, il condannato aveva chiesto una diversa e più favorevole rideterminazione della durata della pena accessoria, anche alla luce della minore durata di quella principale. Istanza che non è stata accolta dalla Corte di Appello di Milano.

La Corte, con la sentenza in commento ritiene di dover offrire risposta positiva alla questione sottoposta dal ricorrente, in coerenza con i principi generali che già la giurisprudenza di legittimità ha fornito in precedenza e che abbiamo prima ricordato: “se infatti, si ammette pacificamente la possibilità che il giudice dell’esecuzione intervenga per rimuovere la pena principale, ove la stessa sia stata inflitta in violazione dei parametri normativamente fissati, e se il profilo dell’illegalità del trattamento punitivo quanto alla sanzione principale debba essere oggetto di costante verifica in tutto il corso del procedimento, compreso il suo segmento esecutivo, (…) le medesime esigenze di salvaguardia dei diritti individuali e di adeguamento al sopravvenuto mutamento normativo o a declaratorie di incostituzionalità si pongono, quando il rapporto esecutivo non sia già esaurito, anche in riferimento al profilo temporale delle pene accessorie la cui applicazione e commisurazione rientra nelle facoltà conferite in via generale dall’art. 676 cpp., al giudice dell’esecuzione”.

Dunque, alla luce di tutte le considerazioni riportate fin qui, la Corte ammette l’istanza presentata dal ricorrente, permettendo di insistere su un intervento conformativo in executivis delle pene accessorie alla nuova cornice edittale. Conseguentemente a tale affermazione, enuncia il seguente principio: “è consentito anche al giudice dell’esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata della pene accessorie, previste dalla L. fall., art. 216, uc, quando siano state inflitte in misura pari a dieci anni e sia richiesto di adeguarle al nuovo testo della norma come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni”.

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Note

[1] Dispositivo dell’art. 216 Legge fallimentare

È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che:

1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;

2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.

È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

[2] Cassazione, Sezioni unite del 27 Novembre 2014, n.6240/2014.

[3] La legge Fini-Giovanardi, intervenuta a modifica del trattamento sanzionatori in tema di droghe “pesanti” e “leggere”, con l art. 4 vicies ter aveva abrogato le precedenti tabelle e ne aveva introdotte solo due allegandole al t.u., le quali sarebbero state periodicamente aggiornate ad opera di decreti del Ministero della salute. La dichiarazione di incostituzionalità di tale articolo pronunciata nella sentenza della Corte costituzionale, n.32/2014, travolgeva le anche le tabelle allegate allo stesso, facendo rivivere le precedenti. A tale situazione in governo cercò invano di porre rimedio emanando il d.l. 20 marzo 2014, n.36, inserendo nuove tabelle che comprendessero anche le sostanze inserite con la Legge Fini-Giovanardi e che erano venute meno a seguito della pronuncia della Consulta. Il decreto all’art. 2 stabiliva che: “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto continuano a produrre effetti gli atti amministrativi adottati sino alla data di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n.32 del 12 febbraio 2014”. In sede di conversione fu modificata l’espressione “continuano a produrre effetto”, con quella “riprendono a produrre effetto”. Intervenne la Corte di Cassazione con la sentenza del 26 febbraio 2015, n. 29316 per risolvere il contrasto dottrinale sugli effetti della sentenza n.32/2014. Cfr. de micheli, La declaratoria di illegittimità della legge Fini-Giovanardi e la rideterminazione della pena irrogata con sentenza irrevocabile, in Diritto penale contemporaneo, 15 ottobre 2014.

[4] Cfr. g. romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena “incostituzionale”, in Penale contemporaneo, 17 ottobre 2014 e s. ruggeri, “Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, in Penale contemporaneo, 22 Dicembre 2014.

[5] Per un accurato approfondimento, cfr. f. callari, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, in studi di diritto processuale penale, raccolti da G.Conso, n.111, Milano, 2009.

[6] Sul punto si veda g. canzio, “La giurisdizione e la esecuzione della pena” in Diritto penale contemporaneo.

[7] Art. 673 cpp dispone che: “Nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.

Allo stesso modo provvede quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità”.

[8] b. nacar, Legalità della pena e poteri del giudice dell’esecuzione, Padova, 2017.

[9] Cass. pen. sez. un., 27 novembre 2014, n.6240/2014 in Diritto penale contemporaneo, p. 12.

[10] Ivi, 14.

[11] Corte di Cassazione a Sezioni unite n. 42585 del 29 maggio 2014. Cfr. g. romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena “incostituzionale”, in Penale contemporaneo, 17 ottobre 2014.

[12] Art. 183 disp. Att. Cod. proc. Pen. Stabilisce che: “Quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria predeterminata dalla legge nella specie e nella durata, il pubblico ministero ne richiede l’applicazione al giudice dell’esecuzione se non si è provveduto con la sentenza di condanna”.

[13] Art. 29 c.p. stabilisce che: “La condanna all’ergastolo e la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni importano l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici; e la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni importa l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

La dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere, importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.”

[14] Art 133 c.p. stabilisce che: “Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta:

    1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione;

    2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;

    3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.

Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta:

    1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;

    2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;

    3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;

    4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.”

[15] In tal senso, tra le altre, Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama, Rv. 256581; Sez. 3, n.42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538; Sez. 3, n. 25299 del 17/04/2008, Ravara, Rv. 240256; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538; Sez. 5, n. 759 del 21/09/1989, Denegri, Rv. 183110.

[16] Così, Sez. 3, n. 20428 del 02/04/2014, S., Rv. 259650; Sez. 5, n. 29780 del 30/06/2010, Ramunno, Rv. 248258; Sez. 3, n. 41874 del 09/10/2008, Azzani, Rv. 41874; Sez. 1, n. 19807 del 22/04/2008, Ponchia, Rv. 240006; Sez. 5, n. 9198 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987.

[17] Corte cost., sent. 25 settembre 2018 (dep. 5 dicembre 2018), n. 222, Pres. Lattanzi, Red. Viganò in www.cortecostituzionale.it. Cfr a. galluccio, “La sentenza della Consulta su pene fisse e ‘rime obbligate’: costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta” in Penale contemporaneo, 10 Dicembre 2018.

[18] Sent. Corte costituzionale, n.222/2018, “come è stato osservato dalla sentenza n.50 del 1980:se la “regola” è rappresentata dalla discrezionalità, ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo indiziata di illegittimità; e tale indizio potrà essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda “proporzionata” all’intera gamma dei comportamenti tipizzati. Così come, peraltro, avvenne nel caso della disposizione scrutinata nella sentenza n. 50 del 1980.”

[19] Corte cost., sent. 10 novembre 2016, n. 236, Pres. Grossi, Rel. Zanon. Cfr F. VIGANO’, “Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena”, in Penale contemporaneo, 14 Novembre 2016.

[20] Art. 217, legge fallimentare afferma che: “Le disposizioni di cui all’articolo 216, terzo comma, e 217 non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo di cui all’articolo 160 o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182 bis o del piano di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), ovvero di un accordo di composizione della crisi omologato ai sensi dell’articolo 12 della legge 27 gennaio 2012, n. 3, nonché ai pagamenti e alle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice a norma dell’articolo 182 quinquies e alle operazioni di finanziamento effettuate ai sensi dell’articolo 22-quater, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, nonché ai pagamenti ed alle operazioni compiuti, per le finalità di cui alla medesima disposizione, con impiego delle somme provenienti da tali finanziamenti.”

[21] Art. 218, legge fallimentare afferma che: “Gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli precedenti, dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La pena è aumentata nel caso di società soggette alle disposizioni di cui al capo II, titolo III, parte IV, del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.

Salve le altre pene accessorie di cui al libro I, titolo II, capo III, del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a tre anni.”

[22] Nella sentenza n.6240/2014 si affermava il seguente principio: “l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata”.

[23] Nelle motivazioni della sentenza, infatti si rinviano precise indicazioni interpretative nel senso di escludere l’applicabilità dell’art. 37 c.p. con riferimento alle pene accessorie della legge fallimentare, favorendo una determinazione da parte del giudice che faccia ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p. per un approfondimento sul punto, vedi anche: f. finocchiaro, “Le Sezioni Unite sulla determinazione delle pene accessorie a seguito dell’intervento della Corte costituzionale in materia di bancarotta fraudolenta”, in Penale contemporaneo, 15 Luglio 2019.

[24] Art. 136 Cost: Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali.

[25] La Corte costituzionale, con sent. n. 127 del 1966, ha dichiarato non fondata, nei sensi esposti nella motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, terzo comma, in riferimento agli artt. 24, secondo comma e 136, primo comma, della Costituzione: successivamente, con sent.  n.  49 del 1970, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità concernente la stessa disposizione, in riferimento all’art. 136 della Costituzione (vedi anche ord. n. 187 del 1970).

Sentenza collegata

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Dott.ssa Federica Aloisi

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