Rito abbreviato condizionato ad integrazione probatoria in caso di modifica dell’imputazione

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(Rimessione del ricorso alle Sezioni Unite)

(Normativa di riferimento: C.p.p. art. 438, c. 5, 441, c. 5)

Il fatto

La Corte di assise di appello di Perugia confermava la penale responsabilità di A. H. in ordine al delitto di omicidio in danno di S. B. (capo A), aggravato dai motivi abietti e futili, esclusa viceversa l’aggravante della premeditazione già ritenuta in primo grado; nonché in ordine ai delitti, uniti in continuazione, di danneggiamento del veicolo di proprietà della vittima, seguito dal pericolo d’incendio (capo B, come giudizialmente riqualificato) e di occultamento del suo cadavere (capo C).

La medesima Corte confermava, altresì, la pena principale di trent’anni di reclusione, già diminuita ai sensi dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., essendosi il giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato.

La vicenda di cui in rubrica aveva avuto il suo epilogo in …, frazione del Comune di …. atteso che in questa località, all’interno di una zona boschiva, i Carabinieri, intorno alle 13.00 del 18 maggio 2016, rinvennero l’automobile di B. quasi completamente avvolta dalle fiamme, presto domate dai Vigili del Fuoco fermo restando che: a) nessuno era al suo interno; b) il proprietario quel giorno non era andato al lavoro, e l’ultimo contatto con la sorella risaliva alla sera precedente.

Gli investigatori appresero subito dell’esistenza di una relazione sentimentale tra l’uomo e una cittadina ucraina del luogo, T. S., la quale, sentita a sommarie informazioni testimoniali, riferiva che di tale relazione era venuto a conoscenza il marito, A. H., uomo possessivo e violento, dal quale era separata, pur vivendo essi ancora nella medesima casa fermo restando che nella sera del 17 maggio vi era stata, tra i due, un’ulteriore discussione, ma lei aveva rifiutato la riappacificazione mentre nella mattina seguente, l’odierno imputato era uscito alle 8.00, per andare a lavorare ed era tornato la sera indossando abiti diversi.

Il pomeriggio del 19 maggio S.h. trovava, all’interno di un contenitore della spazzatura posto all’interno della sua abitazione, alcuni indumenti, appartenenti al marito, che presentavano evidenti tracce di sangue e su tali indumenti sarà repertato DNA riconducibile al profilo genetico di B..

Dopo essere stato arrestato, l’odierno imputato rendeva, alla presenza del difensore, spontanee dichiarazioni, dopo aver consentito, anzitutto, il recupero del corpo di B., che avveniva, il 29 maggio, nel fiume …. fermo  restando che costui dapprima affermava di aver ingaggiato due rumeni, di cui non era in grado di dare le generalità, per impartire una lezione a B., promettendo (e consegnando) loro la somma di 1.500 euro mentre a loro volta tali emissari, recatisi presso l’abitazione di B., erano saliti sulla sua automobile per poi dire che lui si era fermato a distanza, senza percepire cosa stesse ivi accadendo.

Raggiunto a sua volta il veicolo, dopo che i rumeni si erano allontanati, l’imputato aveva constatato che l’uomo, con la testa tutta insanguinata, era morto e si era quindi messo alla guida per disfarsi del cadavere, dando alla fine fuoco alla stessa automobile.

Posto ciò, il pubblico ministero otteneva, in relazione alle imputazioni di omicidio (capo A) e incendio (così originariamente qualificato il capo B), il giudizio immediato.

L’imputato, dal canto suo, chiedeva, nei termini, il rito abbreviato, condizionato ad un accertamento peritale sul proprio telefono cellulare, e vi era ammesso dal giudice, che contestualmente disponeva ulteriori integrazioni istruttorie.

Espletate queste ultime, e anteriormente al conferimento dell’incarico peritale, il pubblico ministero contestava in via suppletiva, in relazione all’omicidio, talune aggravanti, tra cui quella, unica superstite all’esito del doppio grado di merito, dei motivi abietti e futili; e contestava, sub capo C), il reato di occultamento di cadavere.

A fronte di tali richieste, la Corte territoriale si confrontava anzitutto con l’eccezione difensiva, avanzata nell’immediatezza dinanzi al G.i.p., e riproposta nei motivi di appello, di inammissibilità di siffatte contestazioni in quanto non correlate alle disposte acquisizioni probatorie e ai loro esiti e la respingeva sulla base della dominante giurisprudenza di legittimità, orientata a consentire, nell’ipotesi corrispondente, l’integrazione dell’accusa

Quanto al merito, la Corte, condividendo quanto già osservato dal primo giudice, riteneva, da un lato, inattendibile la tesi dell’incarico assegnato ai due rumeni e dell’avvenuto travalicamento del medesimo, non suffragata da alcun elemento di riscontro, e viceversa smentita da plurime circostanze, tra cui l’assenza di tracce e impronte di persone diverse dall’imputato e dalla vittima sull’automobile di quest’ultima; l’inutilità dell’intervento di terze persone al solo scopo di minacciare e l’eccessività della somma che sarebbe stata all’uopo concordata e pagata, non si sa peraltro come procurata; l’incapacità dell’imputato di fornire le generalità identificative dei pretesi correi; la successiva reazione di lui, incongrua se l’intenzione iniziale fosse stata solo quella di intimorire, dall’altro, che l’imputato, il quale aveva in precedenza sì assunto nei confronti della vittima atteggiamenti ostili e intimidatori, si fosse determinato ad agire mosso da intenti punitivi nei confronti dell’uomo (e non da mera gelosia), integranti il contestato motivo abietto e futile.

La Corte negava, infine, le attenuanti generiche.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione e nei motivi aggiunti

Ricorreva l’imputato per cassazione, tramite il difensore di fiducia sulla base dei seguenti motivi: a)

violazione della legge processuale, e segnatamente degli artt. 438, 441 e 441-bis cod. proc. pen. atteso che la modifica dell’imputazione, in punto di aggravanti dell’omicidio, e della nuova contestazione di reato sub C), avvenuta in sede di rito abbreviato condizionato, non correlata alle risultanze dell’integrazione probatoria ivi disposta, sarebbe stata nulla e, a sostegno di questo assunto, veniva citata la pronuncia della Corte costituzionale n. 140 del 2010, che avrebbe rappresentato, a dire della difesa, la più idonea confutazione del contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità; b) vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per omicidio giacchè sarebbe stata violata la regola dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» quanto alla qualificazione dolosa, anziché preterintenzionale, della condotta e, a sostegno dell’intervento dei rumeni, sarebbero stati possibili riscontri ulteriori da effettuare sul telefono cellulare dell’imputato mentre la Corte territoriale lo avrebbe inaccettabilmente negato, addossandone la colpa sull’imputato medesimo rilevandosi al contempo che, anche a prescindere dal coinvolgimento di terzi, non vi sarebbe stata alcuna spiegazione del ripudio della tesi della preterintenzionalità, e la lacuna motivazionale sarebbe stata in contraddizione rispetto alla effettiva collaborazione prestata dall’imputato; c) violazione dell’art. 62, n. 1), cod. pen. e  vizio di motivazione in relazione all’aggravante dei motivi abietti e futili posto che l’intento punitivo, anziché di gelosia, sarebbe stato assertivamente proclamato, ovvero desunto dalla sola circostanza che S. si sarebbe la sera prima rifiutata di riprendere la relazione sentimentale con l’imputato mentre, secondo la comune esperienza criminologica, sarebbe stato questo un indice preciso della causale di gelosia che non avrebbe dato luogo a ribrezzo, biasimo o repulsione nell’uomo medio e non avrebbe quindi integrato un motivo abietto né sarebbe stato configurabile, in presenza di detta causale, un’eventuale futilità per sproporzione considerati anche il contesto sociale di riferimento e i fattori ambientali; d) vizio di motivazione riguardo al diniego delle attenuanti generiche stante il fatto che, pur non costituendo un diritto assoluto, la giovane età, la pregressa incensuratezza e le condizioni sociali del reo costituivano indici oggettivi favorevoli che sarebbero stati irragionevolmente trascurati mentre le argomentazioni a sostegno della mancata concessione sarebbero, per contro, laconiche e di stile.

Oltre a questo ricorso, veniva presentato, nei termini di legge, un motivo aggiunto, che di fatto riprendeva e sviluppava il terzo motivo di ricorso, ivi argomentandosi nel senso che la sentenza impugnata sarebbe stata manifestamente illogica laddove avrebbe individuato, nel momento di definitiva chiusura della relazione sentimentale tra l’imputato e la moglie, la linea di confine tra gelosia e intento punitivo; confine in realtà inesistente potendo la gelosia perdurare, anche a lungo (qui erano peraltro passate poche ore), dopo la fine della relazione medesima. 

La rimessione alle Sezioni Unite: i termini della questione

I giudici di Piazza Cavour rilevavano prima di tutto come il primo motivo di ricorso, rivestendo carattere pregiudiziale, dovesse essere prioritariamente esaminato e, a tal proposito, costoro stimavano come la questione, da cui scaturiva l’esame di questa doglianza, apparisse suscettibile di dar luogo a contrasto in seno alla giurisprudenza della stessa Cassazione, e meritasse così, a norma dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen., di essere rimessa alle Sezioni Unite.

Si osservava in via preliminare come fosse esatta la premessa, da cui il motivo traeva origine, secondo cui le contestazioni in parola concernessero fatti – il tradimento all’origine del movente di gelosia e vendetta, qualificato dalla pubblica accusa come motivo abietto e futile, e l’avvenuto occultamento del cadavere – già risultanti dagli atti di indagine espletati al momento dell’esercizio dell’azione penale, a seguito del quale l’imputato si era determinato a richiedere il rito abbreviato, e comunque risultanti dal compendio investigativo formatosi antecedentemente all’ordinanza ammissiva del rito stesso.

Infatti, secondo quanto evidenziato in questa medesima pronuncia, dal tenore della sentenza impugnata si evinceva come l’accesso all’abbreviato fosse stato dall’imputato subordinato, ai sensi dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., all’espletamento di una perizia fonica, e si evinceva altresì come il giudice, nel disporre in senso conforme, avesse stabilito di acquisire elementi ulteriori, a norma dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. mentre le contestate modificazioni dell’originaria imputazione erano intervenute prima ancora che si desse corso alla perizia, e dopo l’effettuazione dell’istruttoria officiosa, quest’ultima consistita nell’esame del consulente medico-legale di accusa, di un testimone ulteriore e nella traduzione mera di una lettera scritta dall’imputato e già in atti tanto è vero che, benché il pubblico ministero, nell’operare le modificazioni, aveva anche richiamato tali esiti istruttori, dallo sviluppo dell’intero procedimento giudiziario – come ricostruito dal giudice di merito, e riscontrabile dagli atti, cui il Collegio può direttamente accedere, alla luce della natura processuale del vizio denunciato (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, omissis, Rv. 220092-01; Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, F., Rv. 273525-01; Sez. 1, n. 8521 del 09/01/2013, omissis, Rv. 255304-01) – appariva evidente, a detta della Corte, che la natura «passionale» del crimine, come pure il fatto che l’imputato si fosse sbarazzato del corpo della vittima (celandone l’esistenza e rendendone difficoltoso il ritrovamento), emergessero già agevolmente dalle dichiarazioni confessorie da lui rese pochi giorni dopo l’omicidio; e il primo elemento emergesse, altresì, dal contributivo dichiarativo del coniuge, T. S. tenuto conto altresì del fatto che la stessa informativa conclusiva dei Carabinieri, che dava conto delle complessive indagini effettuate, era stata versata in atti, dalla parte pubblica, il 13 ottobre 2016, anteriormente all’adozione (che risale al 17 ottobre 2016) dell’ordinanza giudiziale che disponeva procedersi nelle forme del rito speciale mentre, all’opposto, non era, per contro, ravvisabile alcun nesso tra il contenuto dell’accusa suppletiva e le risultanze istruttorie del giudizio.

Chiarita la vicenda processuale in questi termini, gli ermellini stimavano necessario, a questo punto della disamina, scrutinare la ritualità di contestazioni suppletive che, nell’ambito del rito abbreviato «a prova integrata», non possono tuttavia dirsi correlate agli esiti di quest’ultima atteso che l’uniforme indirizzo giurisprudenziale elaborato in sede nomofilattica, come dedotto in questa stessa ordinanza, non nutre, in proposito, dubbi o riserve.

In particolare, si faceva presente come l’affermazione, secondo cui, nel rito abbreviato aperto ad integrazione istruttoria, siano ben possibili contestazioni, ex art. 423 cod. proc. pen., che non derivino da nuove emergenze, ma riguardino fatti o circostanze già in atti, è incidentalmente contenuta nelle pronunce rese da Sez. 2, n. 23466 del 09/06/2005, omissis, Rv. 231993-01, e di seguito da Sez. 5, n. 7047 del 27/11/2008, dep. 2009, omissis, Rv. 242962-01 visto che, in entrambe le vicende, il giudice di legittimità era chiamato a stabilire, in via principale, se in tale ipotesi, data pacificamente (e invero senza specifica motivazione) per ammessa, l’imputato potesse esercitare lo ius poenitendi concesso dall’art. 441-bis cod. proc. pen., ossia recedere dalla celebrazione del rito speciale; quesito cui è, peraltro, offerta risposta negativa, sul presupposto che, nei casi corrispondenti, i fatti oggetto della contestazione siano già noti all’imputato richiedente l’abbreviato, e non vi sia ragione di tutelarlo da iniziative processuali a suo danno che egli sarebbe stato in grado di prevedere.

Precisato ciò, si evidenziava altresì come rilevasse, rispetto alla questione da doversi esaminare, anche la Sez. 4, n. 48280 del 26/09/2017, omissis, a cui si deve la consacrazione formale del principio per cui, in sede di giudizio abbreviato, ove sia stata disposta l’integrazione istruttoria ai sensi dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen., è legittima la modifica dell’imputazione da parte del pubblico ministero mediante contestazione suppletiva, anche quando i fatti oggetto della nuova contestazione siano già emersi nel corso delle indagini preliminari (e non dissimile conclusione, in tale logica di ragionamento, dovrebbe senza meno essere attinta, a cospetto d’integrazione istruttoria riconducibile al paradigma del comma 5 dell’art. 438 del codice di rito) rilevandosi al contempo che, a giustificazione di siffatto assunto, la pronuncia in esame, da un lato, richiama la giurisprudenza di legittimità formatasi a proposito dell’art. 423, comma 1, cod. proc. pen., nella quale (Sez. 1, n. 13349 del 17/05/2012, dep. 2013, D., Rv. 255049-01; Sez. 3, n. 1506 del 04/12/1997, dep. 1998, omissis, Rv. 209791-01; Sez. 1, n. 11993 del 14/11/1995, omissis, Rv. 203051-01; Sez. 6, n. 9443 del 04/06/1993, omissis, Rv. 196008-01) si osserva come la disposizione costituisca attuazione della direttiva contenuta nell’art. 2, punto 52, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, che espressamente facoltizza il legislatore delegato ad assegnare al pubblico ministero, «nell’udienza preliminare», il potere di modificare l’imputazione e procedere a nuove contestazioni, dall’altro, postula come sarebbero dunque dovuti valere gli stessi criteri (ossia quelli appena citati), non solo in relazione al principio di tassatività delle nullità, ma anche in rapporto ai principi generali che ispirano il tema delle contestazioni suppletive, attenti a garantire all’imputato la conoscenza di queste ultime e l’esercizio dei diritti della difesa.

I giudici di legittimità ordinaria, tuttavia, in questo provvedimento, dichiaravano di dissentire da tale orientamento ermeneutico rilevando come esso non si giustifichi sul piano dell’interpretazione letterale e, ancor meno, in una visione logico-sistematica dell’istituto processuale del giudizio abbreviato.

Nel dettaglio, si rilevava in primo luogo come la predicata assimilazione, ai fini della modifica dell’imputazione, tra abbreviato e udienza preliminare fosse anzitutto in contrasto con la disciplina positiva del rito speciale dato che l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., nel testo vigente sin dall’introduzione del codice, stabilisce che nel giudizio abbreviato si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste per l’udienza preliminare medesima fatta eccezione proprio (tra l’altro) di quella di cui al precedente art. 423 e, dunque, nel giudizio abbreviato, quale concepito dai compilatori, corrispondente all’odierno abbreviato «secco», ovvero disposto e celebrato in difetto d’integrazioni probatorie, officiose o difensivamente indotte, è dunque preclusa, diversamente che in udienza preliminare, qualsiasi variante dell’originaria imputazione posto che la tendenziale «cristallizzazione» dell’accusa, rispetto a cui l’imputato sia chiamato a difendersi, che da ciò deriva (da ultimo, Sez. 5, n. 33870 del 07/04/2017, omissis, Rv. 270475-01), costituisce una delle prospettive vantaggiose sottese alla scelta del rito idonee ad indurre l’imputato stesso ad esercitare tale opzione, che l’ordinamento incoraggia (viepiù nell’assetto post legge n. 479 del 1999, in cui essa è rimessa all’iniziativa esclusiva dell’interessato) nello spirito deflattivo del complessivo carico processuale fermo restando che tale effetto non è peraltro assoluto in quanto non impedisce la restituzione degli atti al pubblico ministero allorché il giudice accerti, in corso di abbreviato, che il fatto è diverso da quello descritto nell’atto di imputazione (Sez. 2, n. 859 del 18/12/2012, dep. 2013, omissis, Rv. 254186-01; Sez. 4, n. 36936 del 12/06/2007, omissis, Rv. 237238-01; Sez. 4, n. 21548 del 23/03/2007, omissis, Rv. 236728-01; Sez. 6, n. 36310 del 07/07/2005, omissis, Rv. 232407-01), mentre in ordine al fatto nuovo, concorrente o meno, l’azione penale potrà essere sempre separatamente esercitata.

Oltre a ciò, si evidenziava come la giurisprudenza della Cassazione fosse, del resto, ferma nel ritenere che, nell’ambito del giudizio abbreviato non assoggettato ad integrazione probatoria, non sia consentito al pubblico ministero di procedere a modificazioni dell’imputazione, o a contestazioni suppletive in quanto l’art. 441 del codice, nel richiamare le disposizioni previste per l’udienza preliminare, esclude espressamente l’applicazione del precedente art. 423, con la conseguenza che la violazione della predetta norma determina un’ipotesi di nullità a regime intermedio della sentenza pronunciata all’esito di tale giudizio (Sez. 4, n. 3758 del 03/06/2014, dep. 2015, omissis, Rv. 263196-01; Sez. 6, n. 13117 del 19/01/2010, omissis, Rv. 246680-01; Sez. 4, n. 12259 del 14/02/2007, omissis, Rv. 236199-01; nullità come tale sanabile, ex art. 182, comma 2, dello stesso codice, non potendo infatti essere dedotta dalla parte che vi ha assistito senza eccepirla: Sez. 2, n. 11953 del 29/01/2014, omissis, Rv. 258067-01) e, di conseguenza, il giudizio abbreviato «puro» deve svolgersi secondo la sua struttura tipica, e cioè allo stato degli atti e con la conseguente immutabilità dell’originaria imputazione, sì che è nulla in parte qua la sentenza che si formi sui fatti o sulle circostanze ulteriori che siano stati irritualnnente contestati (Sez. 3, Sentenza n. 35624 del 11/07/2007, omissis, Rv. 237293-01), mentre resta sempre possibile la mera riqualificazione in iure dell’imputazione suddetta (Sez. 2, n. 35350 del 17/09/2010, omissis, Rv. 248544-01).

Essendo dunque tale la disciplina originaria del rito speciale, tuttora vigente, e pacificamente applicabile, per l’abbreviato «chiuso» ad integrazioni istruttorie (che al modello originario, sotto questo aspetto, attualmente corrisponde), detta cornice normativa spiegava perchè il legislatore, allorché, con l’approvazione della legge n. 479 del 1999, decise di ampliare significativamente l’ambito di operatività del giudizio «a prova contratta», introducendo in esso limitate possibilità di nova istruttori, dovette intervenire in punto di regime delle contestazioni suppletive e, precisamente, da un lato, il comma 5 del novellato art. 438 cod. proc. pen. introdusse la facoltà dell’imputato di chiedere di essere ammesso a svolgere attività istruttorie predeterminate in sede di abbreviato, restando a ciò condizionata la celebrazione del giudizio in tale forma e, parallelamente, la disposizione dettò i criteri sulla cui base la richiesta potesse essere accolta (la necessità degli incombenti ai fini della decisione e la loro compatibilità con le finalità di economia processuale), facendo salva la prova contraria da parte del pubblico ministero, d’altro lato – essendo stati contestualmente eliminati i requisiti di accesso al rito, rappresentati dal necessario consenso del pubblico ministero e dalla «decidibilità allo stato degli atti» – si pose il problema di regolare l’eventualità che il giudice si fosse trovato di fronte a lacune conoscitive che impedissero una decisione cognita causa; a tanto rimediò la previsione (comma 5 dell’art. 441), per cui, nella corrispondente ipotesi, il giudice potesse disporre d’ufficio l’assunzione delle prove necessarie.

L’apertura di nuovi scenari istruttori rendeva anche possibile, tuttavia, ad avviso della Suprema Corte, che fossero acquisiti al processo elementi tali da incidere sulla ricostruzione dei fatti sub iudice facendo insorgere la necessità – non postulabile nel precedente assetto «chiuso» – di adeguare l’imputazione alle sopravvenienze storiche e in tale contesto si spiega l’introduzione, quale ultima proposizione di ciascuno dei commi sopra indicati (il comma 5 dell’art. 438 e il comma 5 dell’art. 441 del codice di rito), di una disposizione «di chiusura», volta a reintegrare il pubblico ministero nelle facoltà in materia ordinariamente concesse, ossia nel potere, regolato quanto all’udienza preliminare (che costituisce il modello di riferimento per lo svolgimento del giudizio abbreviato) dall’art. 423 cod. proc. pen., di immutare l’imputazione, mediante la modificazione del fatto o la contestazione di circostanze aggravanti o di reati concorrenti, fermo restando che la deroga così introdotta, a proposito del giudizio abbreviato caratterizzato da integrazioni probatorie, e consistente nella restituita possibilità di fare applicazione dell’art. 423 cod. proc. pen., è strettamente connessa alla ratio che la giustifica trovando l’unica ragion d’essere nel presupposto che, tramite l’attività istruttoria espletata e sulla base dei suoi esiti, siano emersi in giudizio elementi di novità cui la modifica dell’imputazione strettamente si correli.

Una volta compiuto questo excursus normativo (anche alla luce dei successivi interventi normativi succeduti nel tempo), gli ermellini evidenziavano come la previsione di salvezza in favore dell’applicazione dell’art. 423 cod. proc. pen., contenuta nel comma 5 dell’art. 438 e nel comma 5 dell’art. 441, dovesse essere pertanto letta e interpretata, già sul piano testuale, in diretta dipendenza «funzionale» dalle proposizioni che immediatamente la precedono in guisa tale che lo spazio applicativo «naturale» della previsione medesima è costituito dal pregresso espletamento di attività probatorie integrative che non si rivelino «neutre» rispetto all’esatta formulazione dell’accusa ma risultino – in tal senso, e non solo rispetto al giudizio sulla fondatezza di essa – decisive.

Una conclusione giuridica di questo genere era ritenuta dal Supremo Consesso avvalorata da ulteriori elementi di coerenza sistematica evidenziandosi a tal proposito che – una volta dedotto che il sistema appunto, per universale e mai discusso riconoscimento, non ammette la possibilità di operare le contestazioni suppletive nel corso del giudizio abbreviato «secco» – sarebbe del tutto irrazionale, in quanto darebbe luogo ad un assetto ingiustificatamente differenziato consentire le contestazioni in parola, nell’ambito del medesimo tipo di giudizio invece contrassegnato da integrazioni probatorie (disposte dal giudice, o poste come condizione dall’imputato) in assenza, purtuttavia, del necessario nesso di derivazione eziologica tra i risultati di esse e lo ius variandi riconsegnato alla pubblica accusa atteso che la riapertura dell’istruttoria, cui l’esercizio di quest’ultimo non si correli, da momento di necessario approfondimento conoscitivo e valutativo si trasformerebbe, al di là di ogni intenzione, in un obiettivo escamotage, a disposizione della pubblica accusa, per ovviare a preclusioni rispetto ad essa ormai maturate, realizzando un effetto, indebito, di rimessione in termine.

Si sottolineava in secondo luogo come la tesi dell’indiscriminata applicazione, all’abbreviato integrato da attività istruttorie, dell’art. 423 cod. proc. pen. si sposasse con il corollario – recepito dalle medesime pronunce di legittimità inizialmente menzionate – per cui, nel caso di contestazione suppletiva fondata su elementi «già in atti», e dunque noti all’imputato, costui non potrebbe neppure avvalersi della facoltà di chiedere che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie, a norma dell’art. 441-bis cod. proc. pen. ma tale ulteriore arresto giurisprudenziale aggrava, a giudizio del Collegio, l’asimmetria sistematica testé rilevata, recuperando, in danno dell’imputato, la distinzione (tra modificazioni dell’imputazione connesse all’esito della nuova prova, e modificazioni che ne prescindono) in premessa del ragionamento inspiegabilmente negata, e facendo gravare su di lui una situazione di obiettiva «patologia» processuale, quale quella derivante da errori, inerzie ed omissioni istituzionalmente rimproverabili al pubblico ministero.

Si metteva in risalto, in terzo luogo, come l’interpretazione ivi propugnata apparisse preferibile anche in quanto costituzionalmente orientata atteso che la Corte Costituzionale aveva avuto modo di pronunciarsi in proposito con la sentenza n. 140 del 2010, con cui l’indirizzo giurisprudenziale avversato in questa ordinanza omette di confrontarsi, la quale – nel dichiarare infondata la questione di legittimità della disciplina codicistica del rito abbreviato, nella parte in cui le relative disposizioni non consentono al pubblico ministero di effettuare contestazioni suppletive «anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di atti e circostanze già in atti e noti all’imputato» – aveva giudicato errata la tesi ermeneutica che, nell’abbreviato con integrazione probatoria, la contestazione suppletiva possa prescindere dagli esiti di quest’ultima ed effettuarsi sulla base di circostanze già risultanti dagli atti avendo osservato il giudice delle leggi che – introdotta con la legge n. 479 del 1999 la possibilità di arricchimenti della piattaforma probatoria (tanto per iniziativa dell’imputato, che del giudice) – era emersa l’esigenza di prevedere meccanismi di adeguamento dell’imputazione alle nuove acquisizioni, e quindi, in via di eccezione rispetto alla regola enunciata dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., si era quindi consentito al pubblico ministero di procedere a nuove contestazioni ma ciò unicamente nei casi di modificazione della base cognitiva a seguito dell’attivazione dei meccanismi di integrazione probatoria (e riconoscendo, in pari tempo, all’imputato la facoltà di chiedere che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie, o, in alternativa, l’ammissione di nuove prove, ex art. 441-bis cod. proc. pen., sopra citato).

Tal che se ne faceva discendere come le eccezioni così introdotte restassero strettamente legate alle fattispecie che le giustificano; ciò significando che il pubblico ministero possa effettuare le nuove contestazioni solo quando affiori la necessità di adattare l’imputazione a nuove risultanze processuali scaturenti da iniziative probatorie assunte nell’ambito del rito alternativo, e rimanendo invece escluso che dette iniziative, tanto più se rimaste «prive di seguito», possano rappresentare una patente di legittimazione per rivalutare, a scopo di ampliamento dell’accusa, elementi già acquisiti in precedenza e, fino a quel momento, non posti a base dell’azione penale.

La Consulta, osservava sempre la Cassazione in questa ordinanza, aveva oltretutto postulato come la tesi non accolta in questo provvedimento fosse da disattendere anche perché, con il veduto corollario, legato alla restrittiva interpretazione dell’art. 441-bis cod. proc. pen., avrebbe condotto ad esiti contrari alla Costituzione stante il fatto che le valutazioni dell’imputato, in ordine alla convenienza dei riti alternativi al dibattimento, dipendono in larga misura dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero con la conseguenza che – allorché l’imputazione subisca una variazione sostanziale per «evenienze patologiche» da intempestiva contestazione degli esatti e completi elementi di fatto – l’imputato debba essere rimesso in termini per compiere le suddette valutazioni (in un senso o nell’altro) pena la violazione tanto del diritto di difesa che del principio di eguaglianza, stante la discriminazione che verrebbe altrimenti a determinarsi a seconda «della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero nell’esercitare l’azione penale».

Analizzando ancora il diritto vivente elaborato in subiecta materia, i giudici di Piazza Cavour facevano presente come l’ulteriore sviluppo della giurisprudenza costituzionale evidenziasse peraltro (sentenze nn. 237 del 2012, 273 del 2014, 139 del 2015, 206 del 2017) come la necessità di restituire l’imputato nella pienezza della possibilità di scelta del rito processuale sussista, allo stesso modo, in caso di contestazione suppletiva sia «fisiologica» che «patologica», e ciò sulla base del rilievo di fondo per cui l’imputato, che subisce la nuova contestazione, viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla eventuale facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio atteso che la «condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti»: e ciò particolarmente in rapporto alla «scelta di valersi del giudizio abbreviato», la quale «è certamente una delle più delicate, fra quelle tramite le quali si esplicano le facoltà defensionali» (Corte cost., n. 273 del 2014, citata) fermo restando che, a detta della Corte, tali principi, pur affermati con riferimento alle nuove contestazioni dibattimentali e alla possibilità di passaggio dal rito ordinario a riti alternativi (giudizio abbreviato e applicazione della pena su richiesta), non potrebbero evidentemente non operare anche nella direzione inversa (come espressamente notato da Corte Cost., n. 140 del 2010, citata).

Di talchè, alla luce del fatto che i principi affermati dalla dominante giurisprudenza di legittimità sono incompatibili con l’interpretazione sostenuta in questo provvedimento, dalla quale viceversa ne sarebbe disceso l’accoglimento, per quanto di ragione, dei primo motivo d’impugnazione, la Sezione I penale reputava come fosse configurabile un potenziale contrasto interpretativo sul punto di diritto da esso implicato e che rendeva quindi opportuna la rimessione alle Sezioni Unite della seguente questione: “Se, nel corso del giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria, a norma dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., o nel quale l’integrazione sia stata disposta dal giudice, a norma dell’art. 441, comma 5, dello stesso codice, sia possibile la modifica dell’imputazione, allorché il fatto risulti diverso o emerga una circostanza aggravante o un reato connesso, anche nel caso in cui i fatti oggetto della contestazione suppletiva già si desumessero dagli atti delle indagini preliminari e non siano collegati ai predetti esiti istruttori”.

Conclusioni

 

Nell’ordinanza in commento, è evidente come si prendano le distanze da quel consolidato orientamento nomofilattico secondo il quale, in sede di giudizio abbreviato, ove sia stata disposta l’integrazione istruttoria ai sensi dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen., è legittima la modifica dell’imputazione da parte del pubblico ministero mediante contestazione suppletiva anche quando i fatti oggetto della nuova contestazione siano già emersi nel corso delle indagini preliminari.

Orbene, senza entrare nel merito delle ragioni per cui la Sezione I ha ritenuto di dover discostarsi da questo orientamento nomofilattico, non resta dunque che aspettare quale presa di posizione assumerà le Sezioni Unite al fine di verificare se: a) verrà confermato l’indirizzo interpretativo dominante; b) verrà recepito quello sostenuto in siffatta ordinanza; c) verrà elaborata una soluzione ermeneutica intermedia, ossia mediana tra le tesi giurisprudenziali sostenute sull’argomento.

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