L’incompletezza della cartella clinica rileva soltanto quando il sanitario ha tenuto una condotta astrattamente idonea a determinare il danno subito dal paziente

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Fatto

La vicenda che ha dato origine alla decisione oggetto del presente commento riguarda la morte di una signora di oltre ottanta anni che, tra il luglio 1994 e l’aprile 1995 (momento in cui era avvenuta la morte) si era sottoposta a numerosi ricoveri ed esami presso un ospedale, che avevano portato poi ad un intervento di urgenza di emicolectomia, successivamente al quale – all’esito di un esame istologico – le era stata diagnosticata una neoplasia.

Gli eredi della paziente, ritenendo responsabili della morte della propria congiunta il medico che l’aveva avuta in cura e lo stesso ospedale, agivano presso il tribunale di Ancona al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti per la morte. Il giudice di primo grado accoglieva la domanda attorea e condannava il medico e l’ospedale al risarcimento dei danni quantificati in euro 20.000, oltre refusione delle spese di lite e di quelle per le consulenze tecniche.

Non soddisfatti del risultato ottenuto in primo grado, però, gli attori impugnavano la decisione del tribunale dinnanzi alla Corte di appello di Ancona per il fatto che la sentenza non aveva loro riconosciuto il danno non patrimoniale ed era stato comunque liquidato il danno in maniera insufficiente. A fronte dell’appello principale promosso dagli attori, anche il medico e l’ospedale convenuti impugnavano in via incidentale la sentenza di primo grado, chiedendo la riforma della stessa e l’esclusione di una responsabilità professionale per la morte della paziente.

La Corte di Appello di Ancona accoglieva l’appello incidentale promosso da medico e ospedale e accertava la mancata prova, da parte degli attori, del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e la morte della loro congiunta. Nello specifico, secondo i giudici di seconde cure, la CTU espletata in primo grado non era stata in grado di accertare che se la morte della paziente fosse stata dipesa dalla neoplasia accertata all’esito dell’esame istologico oppure dall’intervento cui la paziente era stata sottoposta; inoltre, detta CTU non aveva neanche potuto accertare se il sanitario avesse potuto diagnosticare la neoplasia durante uno dei precedenti ricoveri avuti dalla paziente presso l’ospedale, né tanto meno se una diagnosi tempestiva avrebbe garantito alla paziente la sopravvivenza o comunque una maggiore durata di vita.

In considerazione di tali risultanze della CTU, i giudici di secondo grado avevano riformato la sentenza del tribunale, respingendo la domanda di risarcimento danni degli attori e condannando questi ultimi a restituire quanto avevano percepito dai convenuti nonché a rimborsare a questi ultimi le spese legali di entrambi i gradi di giudizio.

I congiunti della paziente deceduta decidevano quindi di ricorrere in Cassazione per ottenere la riforma della sentenza di appello, contestando in particolare che i giudici di merito avevano errato nell’escludere che gli attori non avessero provato la sussistenza del nesso di causalità tra condotta dei convenuti e morte della paziente. In particolare, secondo i ricorrenti la corte di appello avrebbe errato nella misura in cui non aveva considerato provato il nesso di causalità per il fatto che la CTU aveva ritenuto che l’incertezza della causa della morte della paziente fosse imputabile alla non corretta tenuta della cartella clinica da parte dei convenuti e alla sua conseguente incompletezza: secondo i ricorrenti, in applicazione del principio di prossimità della prova, i giudici di merito, aderendo alla giurisprudenza della corte di cassazione, avrebbero dovuto dedurre proprio dalla lacunosità della cartella clinica non solo la prova del nesso di causa tra condotta del sanitario e evento morte del paziente, ma addirittura la stessa sussistenza della responsabilità del medico.

 

La decisione della Corte di Cassazione

Gli Ermellini hanno ritenuto infondato il motivo di doglianza promosso dai ricorrenti e conseguentemente hanno rigettato il ricorso promosso dai congiunti della paziente deceduta, confermando la decisione di secondo grado che aveva escluso il loro diritto al risarcimento del danno.

Secondo la Corte di Cassazione, i giudici di appello, nel caso di specie, hanno applicato correttamente i principi sull’onere della prova vigenti in tema di responsabilità contrattuale nell’ambito della responsabilità medica. Infatti, all’interno di tale tipologia di responsabilità spetta comunque al danneggiato fornire la prova del nesso di causalità tra la condotta inadempiente del medico e il danno alla salute subito dal paziente derivante dall’aggravamento della patologia esistente o dall’insorgenza di una nuova patologia. Inoltre, in caso di incertezza circa la causa che ha determinato detto danno, le conseguenze giuridiche della mancata prova ricadono sul creditore, il quale non ha così assolto all’onere probatorio sul medesimo gravante.

Ciò premesso, gli Ermellini hanno ritenuto che nel caso di specie la CTU non ha potuto individuare la causa che ha determinato la morte della paziente e che tale incertezza è dipesa dalla lacunosità della cartella clinica (nello specifico la mancanza di un diario clinico e di un riscontro diagnostico). Tuttavia, i giudici hanno evidenziato che dalle lacune della cartella clinica non è possibile far derivare in maniera automatica l’assolvimento all’onere probatorio gravante sul paziente danneggiato: in altri termini, il fatto che la cartella clinica non sia correttamente tenuta e lacunosa non esonera automaticamente il danneggiato dall’adempiere all’onere probatorio sul medesimo gravante circa la sussistenza del nesso di causalità.

Anche se, prosegue la Cassazione, tale lacunosità deve essere comunque tenuta in considerazione – anche ai fini dell’onere probatorio in tema di nesso di causalità – per evitare che il medico (che ha l’obbligo di tenere correttamente la cartella clinica) possa poi avere un vantaggio dal fatto che la cartella non sia stata tenuta correttamente.

In applicazione di tali due corollari, la Cassazione ha statuito che la prova della sussistenza del nesso di causalità possa farsi derivare dalla incompletezza della cartella clinica solo qualora ricorrano entrambi i due seguenti presupposti:

  • a causa dell’incompletezza della cartella clinica non sia stato possibile accertare il nesso di causalità tra condotta del sanitario e evento dannoso;
  • il sanitario abbia posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno (cioè l’aggravamento della malattia o l’insorgenza di una nuova patologia).

In altri termini, se la condotta del medico è stata astrattamente idonea a causare l’evento dannoso, allora l’incertezza del nesso di causalità tra condotta ed evento dovuta alla lacunosità della cartella clinica esonerano il danneggiato dal dover individuare la causa del danno e fornirne la relativa prova. In mancanza di tale astratta idoneità a causare l’evento, invece, la lacunosità non esonera il danneggiato dall’individuare la causa dell’evento dannoso e quindi dal provare la sussistenza del nesso di causalità secondo il noto criterio probabilistico del 50% + 1.

Ebbene, nel caso di specie, la Corte di cassazione ha ritenuto che i giudici di secondo grado avessero correttamente applicato i principi di cui sopra, aderendo alle soluzioni a cui era arrivata la CTU secondo cui il sanitario non avrebbe potuto diagnosticare la neoplasia prima del momento in cui lo ha fatto e anche un accertamento precoce non avrebbe comunque migliorato le condizioni della paziente. In considerazione di ciò, i giudici di merito hanno valutato correttamente che la condotta del sanitario non era astrattamente idonea a determinare l’evento dannoso e quindi non hanno dato rilievo alla lacunosità della cartella clinica.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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