Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 8/10/2008 n. 24472; Pres. Carbone

Redazione 08/10/08
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Svolgimento del processo

La s.r.l. L. P, nel convenire in giudizio

dinanzi al tribunale di Como E.S., espose che, nel maggio del 1989, aveva stipulato con quest’ultimo (oltre che con la costituenda società immobiliare A.) un preliminare di vendita di edificio da ristrutturare, contratto poi risoltosi, a seguito dell’inadempimento parziale del promissario acquirente (dopo un iniziale versamento della somma di circa 162 milioni di lire), per effetto di espressa clausola risolutiva.

Il giudice di primo grado, nel pronunciarsi sulla domanda promossa dall’attrice (diretta ad ottenere il pagamento di una somma a titolo di penale, di anticipo fatture e di risarcimento danni) dopo che G.P. – nella qualità di soggetto finanziatore dell’acquisto e della ristrutturazione dell’immobile – aveva spiegato intervento in causa, la rigettò, accogliendo invece quella riconvenzionale del S., volta ad ottenere la restituzione delle somme da lui versate in conto prezzo. Il giudice comasco accoglierà altresì una delle domande proposte dal P., quella contro il S. – condannato a corrispondere all’interveniente la somma di circa 200 milioni di lire a titolo di restituzione delle somme anticipate per l’acquisto dell’immobile – rigettando però quella avanzata nei confronti della L., rilevando, nella specie, la inconfigurabilità di un rapporto diretto tra le parti (il P. doveva, difatti, qualificarsi mandante del Sala ex artt. 1703 ss. c.c., in mancanza di qualsivoglia contemplatio domini spesa dal mandatario nello svolgimento delle attività negoziali con la società terza).

La sentenza fu impugnata da G. P.

La corte di appello di Milano, nel rigettarne il gravame (salva riforma della disciplina delle spese processuali), osservò, per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità:

1) che, pur avendo il S. stipulato il preliminare di compravendita su mandato del P. (che si era conseguentemente obbligato a fornirgli i necessari capitali), il nome del mandante non era mai stato speso con il terzo contraente;

2) che, conseguentemente, dalla stipula del preliminare di vendita potevano derivare effetti in capo al solo mandatario, giusta disposto del primo comma dell’art. 1705 c.c., essendosi in concreto realizzata la fattispecie dell’interposizione reale di persona, impeditiva tout court dell’insorgere di un rapporto negoziale diretto tra la L. e il P.;

3) che all’inadempimento dell’obbligazione di pagamento di due rate di prezzo da parte del promissario acquirente non poteva che conseguire la risoluzione del contratto; né il P. aveva provato il pur lamentato accordo fraudolento tra il S. e la L. (al di là dell’assoluta assenza di motivazioni circa il favor per lui scaturente sul piano delle conseguenze giuridiche in ipotesi di efficace demonstratio di tale, presunta collusione ai suoi danni);

4) che, nella specie, non era legittimamente predicabile l’applicazione del disposto di cui al secondo comma dell’art. 1705 c.c., posto che il S., chiedendo la condanna della L. alla restituzione delle somme corrisposte, non aveva agito per conseguire il soddisfacimento dei crediti sorti in suo favore in dipendenza delle obbligazioni assunte dal terzo con la stipula del contratto, ma aveva esercitato un’azione nascente dal contratto preliminare di vendita, alla quale il P. non era legittimato;

5) che, in punto di diritto, soltanto il mandatario, e non anche il mandante, poteva ritenersi investito dello status di legittimato passivo rispetto all’azione di risoluzione del contratto esperita dal terzo – e, di conseguenza, della speculare legittimazione attiva all’azione di restituzione delle somme versate in caso di accoglimento della domanda di risoluzione;

6) che, infine, il richiamo alla normativa dell’arricchimento senza causa era infondato poiché non applicabile alla vicenda processuale in esame, riguardante, all’evidenza, una fattispecie di arricchimento c.d. indiretto.

Il ricorso per cassazione con il quale la sentenza della corte territoriale è stata ancora impugnata da G. P. è sorretto da 6 motivi di gravame.

La curatela del fallimento S. (procedura instaurata nelle more del giudizio) ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.

La s.r.l. L. non ha svolto attività difensiva in sede di legittimità.

L’esame del ricorso è stato rimesso a queste sezioni unite dal Primo Presidente a seguito di ordinanza interlocutoria della II sezione (provvedimento n. 4027/07, depositato il 21/2/2007), all’esito di un ravvisato, duplice contrasto di giurisprudenza: il primo, in ordine alla questione dei limiti del potere di sostituzione del mandante, se cioè questi possa esercitare o meno i diritti di credito derivanti al mandatario dalla esecuzione del mandato, ivi ricomprese le azioni contrattuali (e tra esse, in particolare, l’azione di risoluzione per inadempimento e di risarcimento danni;

il secondo, sul tema dei limiti dell’azione di arricchimento, se, cioè, essa possa essere esperita indipendentemente dalla circostanza che i fini al cui persegiumento la prestazione risulti diretta siano stati realizzati da un soggetto diverso da quello cui la medesima prestazione era ab origine destinata e che, di essa, non abbia direttamente beneficiato.

Le questioni dianzi indicate risultano rispettivamente oggetto del secondo e del quinto motivo di ricorso.

In diritto

1) Gli aspetti funzionali del mandato

Con il secondo motivo di ricorso, come già anticipato in narrativa, la difesa di G. P. denuncia testualmente: violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 1705 comma 2 c.c.; 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) in relazione alla domanda con la quale si era chiesto che la L. Products venisse condannata a restituire le somme relative agli acconti rateali pagati con gli assegni emessi dal P. direttamente a favore del P. e non del S.

Il motivo (espressamente subordinato al rigetto del primo mezzo di doglianza, peraltro destinato a cadere sotto la scure della inammissibilità, come in seguito meglio si specificherà) non può essere accolto.

Alla decisione del caso di specie, e alla conseguente composizione del segnalato contrasto, va premesso, in consonanza con quanto rilevato dal collegio remittente della seconda sezione di questa corte, come, nel tempo, si siano formati, in subiecta materia, due contrapposti orientamenti giurisprudenziali:

alla stregua del primo di essi, la disposizione di cui al secondo comma, prima parte, dell’art. 1705 cod. civ. andrebbe interpretata – per ragioni di tutela dell’interesse del mandante – in guisa di eccezione al principio generale, di cui al primo comma del medesimo articolo, secondo cui il mandatario che agisce in nome proprio acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato. La disposizione del secondo comma pertanto, attesone il carattere eccezionale e in forza del chiaro tenore dell’espressione diritti di credito derivanti dall’esercizio del mandato, sarebbe rigorosamente limitata alla facoltà di esercizio, da parte del mandante, dei soli diritti (sostanziali) di credito derivanti al mandatario dalla esecuzione dell’incarico gestorio, con esclusione della possibilità di esperire, contro il terzo, le relative azioni contrattuali (in tal senso vengono citate le pronunce di cui a Cass. n. 1312 del 21/1/2005; n. 11118 del 5/11/1998, cui più di recente si sono conformate Cass. n. 18512 del 25/8/2006 e Cass. n. 13375 dell’8/6/2007 – la quale ha negato al mandante, in particolare, la possibilità di esperire contro il terzo l’azione di risarcimento dei danni);

secondo altro, contrapposto indirizzo (manifestatosi con le sentenze di cui a Cass. n. 11014 del 10/6/2004 e n. 7820 del 10/8/1998, secondo quanto ancora rilevato dall’ordinanza di rimessione), il mandante, per ragioni di tutela del proprio interesse, potrebbe viceversa agire direttamente in giudizio per il soddisfacimento del credito, anche se derivante da un contratto stipulato dal mandatario senza rappresentanza (dalla motivazione della prima delle pronunce citate si evince che la Corte ha in quel caso confermato la sussistenza della legittimazione ad agire di una parte, definita mandante, che aveva esercitato il diritto del locatore al risarcimento del danno ex art. 1588 cod. civ.). In particolare, le sentenze predicative della legittimità del potere del mandante di esercitare tutte le azioni scaturenti dal contratto di mandato (specie quelle relativa al contratto di leasing, come di recente affermato da Cass. n. 17145 del 27/7/2006) ne ricostruiscono il diritto a far propri, in via diretta, di fronte ai terzi, i diritti di credito sorti in testa al mandatario non in termini di eccezione alla regola, ma come conseguenza del suo integrale subingresso nella posizione contrattuale del mandatario, mercé una vera e propria modificazione soggettiva del rapporto.

È convincimento di queste sezioni unite che il primo, più restrittivo orientamento meriti conferma, con le precisazioni che di qui a breve seguiranno.

1.1 Analisi della giurisprudenza di legittimità: l’orientamento maggioritario

In ragione dell’epoca (assai risalente) a partire dalla quale si dipana il contrasto, non sembra un fuor d’opera procedere ad una puntuale disamina delle originarie posizioni assunte dalla giurisprudenza, onde definire con certezza le linee di divaricazione tra i due orientamenti, le sottostanti motivazioni, gli attuali riflessi operativi.

Gioverà allora riprendere in sintesi i passi delle pronunce che hanno maggiormente approfondito il tema (tralasciando i numerosi altri precedenti che, in epoca remota e non, si siano limitati a richiamare posizioni già acquisite, senza apportare alcun utile contributo ermeneutico all’approfondimento del problema).

Cass. 11118/98 così riassume, con indubbia efficacia, la questione di diritto ancor oggi dibattuta: «la disposizione del secondo comma – prima parte – dell’art. 1705 c.c. introduce, per ragioni di tutela dell’interesse del mandante, una eccezione al fondamentale principio di cui sopra enunciato nel primo comma dell’articolo per il quale il mandatario che agisce in nome proprio acquista i diritti ed assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato, consentendo al mandante di esercitare i diritti di credito derivanti ai mandatario dall’esecuzione del mandato».

Deve trattarsi di diritti che scaturiscono direttamente dal rapporto obbligatorio posto in essere dal mandatario nell’esplicazione dell’attività per conto del mandante; questi può agire contro il terzo in sostituzione del mandatario esclusivamente per esercitare tali diritti e cioè per conseguire il soddisfacimento dei crediti sorti a favore del mandatario in dipendenza delle obbligazioni assunte dal terzo con la conclusione del contratto.

La natura eccezionale della norma, le finalità di tutela del mandante, l’inequivocità della espressione «diritti di credito derivanti dall’esercizio del mandato» inducono ad escludere, al di fuori dell’azione diretta al soddisfacimento di detti crediti, che il mandante possa esperire contro il terzo le azioni da contratto e, in particolare, com’è avvenuto nella specie, quelle di risoluzione per inadempimento e di risarcimento dei danni; opinando diversamente la regola generale sancita dallo stesso articolo 1705 c.c. resterebbe svuotata di contenuto.

Cass. 2105/76, in motivazione, coglie lucidamente l’essenza della tesi maggioritaria, osservando che l’art. 1705 c. 2 «concerne il subingresso nel credito e non genericamente nei rapporti giuridici e non elimina la distinzione tra la posizione del mandante e del mandatario: si vuole evitare, nell’ambito delle vicende successive alla conclusione del negozio tra mandatario e terzo, che il dominus, per conseguire gli effetti utili della gestione svolta per suo conto, debba necessariamente agire tramite l’intermediazione del mandatario».

Cass. 879/65 escluderà, a sua volta, che l’azione ex art 1705 c. 2 abbia natura surrogatoria, aderendo all’indirizzo adottato dalla risalente Cass. 2082/50, secondo cui l’azione del mandante, di natura diretta, andava esaminata in combinato con l’art. 1713 c.c. (predicativo dell’obbligo del mandatario «di rimettere al mandante ciò che ha ricevuto a causa del mandato»), con la conseguenza che, del patrimonio del mandante, entra far parte un diritto di credito avente contenuto identico a quello vantato dal mandatario verso il terzo.

Infine, l’approfondita motivazione della sentenza di cui a Cass. 2877/76 muove dalla configurazione del mandato quale fattispecie di interposizione gestoria in cui gli effetti del negozio sono limitati alla persona interposta, pur dovendo essere riversati a fine gestione sulla persona interessata. Consegue che il terzo «non entra in rapporto con il mandante, che non ha alcuna azione da contratto contro di lui, ma solo una tutela limitata ai crediti scaturenti dalla gestione del mandatario». Pertanto, all’infuori di tale sostituzione per la tutela di singoli diritti di credito, il mandante non può pretendere che il terzo lo riconosca soggetto interessato al buon fine contrattuale, giacché, in sede di conclusione e di esecuzione del contratto, l’interesse del mandante non viene in considerazione, né il terzo contraente deve tenerne conto in relazione ai suoi doveri di correttezza e di buona fede, dato che l’alienità dell’affare, anche se conosciuta e riconoscibile, non ha alcuna rilevanza per il terzo, il quale ha diritto di non avere di fronte a sé altro soggetto che il mandatario, quale parte del contratto in capo a cui si producono gli effetti giuridici di questo. In senso affatto speculare, si preciserà poi che neppure il mandatario può esigere che la controparte tenga conto dell’interesse del mandante, sicché, in caso di inadempimento da parte del terzo contraente, costui non è tenuto ad addossarsi le conseguenze della lesione dell’interesse del mandante prodotta dall’inadempimento, altrimenti si darebbe rilievo all’interesse del mandante, snaturando l’essenza del mandato senza rappresentanza, la cui natura esclude questo rapporto diretto. Non è dunque ammissibile che il mandatario possa chiedere al terzo inadempiente il risarcimento dei danni costituiti dalla lesione dell’interesse del mandante, a meno che tale lesione non si traduca in una lesione dell’interesse proprio del mandatario, in coerenza con la facoltà di esercizio dell’azione diretta per i diritti di credito sorti a favore del mandatario in dipendenza delle obbligazioni assunte dal terzo con la conclusione del contratto cui l’art. 1705 fa espresso riferimento ponendo l’eccezione rispetto alla regola generale. Il mandante, si conclude, non può dunque sperimentare contro il terzo le azioni da contratto, ed in particolare quelle di risoluzione e di risarcimento dei danni, perché altrimenti la regola di cui al c. 2 della norma citata resterebbe svuotata di contenuto (richiamandosi espressamente a questi principi, Cass. 1312/05, relativa a fattispecie di risarcimento danni da trasporto marittimo in cui era stata negata al mandante-mittente la facoltà di agire per il risarcimento dei danni nei confronti del vettore terzo, riaffermerà la bontà dell’interpretazione dominante, e la conseguente immunità da vizi di costituzionalità sotto il profilo dell’irragionevolezza, in guanto la previsione dell’art. 1705 cod. civ. è diretta ad ampliare la tutela del mandante, attribuendogli anche una legittimazione diretta nei confronti del terzo contraente, ferma restando la possibilità di agire nei confronti del mandatario – nella specie, il mandatario spedizioniere -, tenuto ad eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia).

1.2 L’orientamento minoritario

Premesso che nella poc’anzi ricordata sentenza del 11118/98 è inesattamente citata, come aderente alla tesi restrittiva e maggioritaria, la pronuncia di cui a Cass. 2714/64 (che, letta integralmente, va viceversa collocata in seno all’opposto indirizzo, poiché ricollega all’iniziativa del mandante di sostituirsi al mandatario una modificazione soggettiva del rapporto che escluderebbe ogni relazione tra terzo e mandatario e consentirebbe al terzo contraente di agire contro il mandante per l’adempimento di ogni obbligazione nascente dal negozio e per ogni altra azione derivante dalla conclusione dello stesso), va ribadito come entrambe le pronunce già indicate come predicative dell’indirizzo minoritario (Cass. 17145/06 e Cass. 11014/04) non risultino in realtà sorrette da adeguate motivazioni funzionali a legittimare l’interpretazione meno restrittiva dell’art. 1705 c.c., al pari della pronuncia di cui a Cass. 7820/98, che riafferma, sic et simpliciter, la legittimazione del mandante ad interferire ex art. 1705 nel rapporto tra mandatario senza rappresentanza e terzo.

Ampiamente approfondito appare, viceversa, l’impianto motivazionale della pronuncia di cui a Cass. n. 92 del 13/1/1990. Sulla premessa per la quale il problema centrale da risolvere non è quello, di carattere generale, se la facoltà legislativamente attribuita al mandante di esercitare, in sostituzione del mandatario, i diritti di credito derivanti dalla esecuzione del mandato comporti anche la legittimazione attiva del mandante ad agire contro il terzo contraente, e passiva a resistere alla domanda del terzo contraente in ordine ad azioni di annullamento, di risoluzione o rescissione del contratto, la sentenza ritiene decisiva la ben più limitata questione di stabilire se, una volta che il mandante abbia effettivamente esercitato nei confronti del terzo contraente i diritti di credito sorti in esito all’attività del mandatario, a quest’ultimo sostituendosi nell’esecuzione dell’affare, venga a configurarsi una modificazione soggettiva in forza della quale il terzo possa, a sua volta, rivolgersi direttamente contro il mandante in esercizio di ogni azione derivante dalla conclusione del contratto, o quanto meno per l’adempimento delle obbligazioni nascenti dal negozio gestorio in corrispondenza ai diritti che verso di lui il mandante ha fatto valere. La pronuncia adotterà questo secondo orientamento giurisprudenziale non senza aver ricostruito alcuni snodi essenziali dell’istituto, specificando, in particolare, che il diritto di credito viene fatto valere dal mandante come titolare di esso e non già utendi iuribus del mandatario, così che la sostituzione, una volta fruttuosamente sperimentata, conduce a conseguenze ben più incisive di quelle normalmente riconducibili ad ogni altra ipotesi (art. 1595, I comma; art. 1676, art. 1917 II c., art. 2867 cod. civ.) in cui è concessa azione ad un soggetto per conseguire da un terzo, cui non è legato da alcun rapporto obbligatorio, ciò che avrebbe potuto ottenere dal proprio debitore a sua volta creditore del terzo. Ecco che le finalità perseguite dall’abilitazione eccezionale concessa al mandante dall’art. 1705 devono allora essere individuate anche in correlazione con i risultati finali perseguiti attraverso il meccanismo gestorio, funzionali a consentire al mandante venditore di conseguire il prezzo e al terzo di acquistare il bene tramite il passaggio del bene e del corrispettivo attraverso il mandatario (e in questo quadro, secondo quanto già opinato da Cass. 90/92, la richiesta e la esazione diretta, da parte del mandante venditore, del prezzo della compravendita, per come consentiti dalla norma in esame, erano destinate a svolgere una funzione acceleratoria e semplificatoria della conduzione a buon fine dell’affare, nel senso di rendere superfluo il doppio trasferimento, con convergente vantaggio per il terzo e per il mandante, salvo pregiudizio dei diritti del mandatario).

La modificazione soggettiva del rapporto assume allora (come già rilevato anche da Cass. n. 1306 del 1969) valenza giuridica prima ancora che economica, nel senso che, per effetto della sostituzione del mandante al mandatario, quest’ultimo resta escluso dal rapporto negoziale e, come non ha più veste per richiedere al terzo l’adempimento della prestazione promessa, e cioè il versamento del prezzo, così non ha più titolo per resistere alla richiesta avanzata dal terzo che, assolto il suo debito, reclami la controprestazione e cioè il trasferimento della titolarità del bene, oppure la restituzione del prezzo, se quel trasferimento non sia più possibile.

La tesi adottata dalle pronunce in esame è, dunque, in punto di diritto, quella che potrebbe oggi definirsi «della efficacia espansiva del disvelamento del mandante», espansione tale da comportare un esaurimento dei compiti gestori del mandatario, con conseguente negazione della dichiarata eccezionalità del meccanismo sostitutivo previsto dal secondo comma del 1705 (eccezionalità ravvisata, come già evidenziato, nella limitazione dell’ingerenza del mandante, fermo il ruolo del mandatario per ogni altro aspetto).

Dal suo canto, Cass. n. 3626/80, nell’identificare e tratteggiare una peculiare fattispecie di mandato senza rappresentanza, descrive il potere del mandante di agire in giudizio per i diritti di credito come un temperamento dei poteri/doveri incombenti sul mandatario, con conseguente modificazione soggettiva del rapporto, annoverando, tra i diritti di credito azionabili in forza dell’art. 1705 c. 2, anche quello al diniego della proroga legale per propria necessità, dacché l’espressione diritti di credito esprime i diritti nascenti da un rapporto obbligatorio in contrapposizione ai diritti reali, contrapposizione ben chiara al legislatore che, per l’ipotesi parallela di azione di rivendica da parte del mandante, ha previsto una diversa norma, l’art. 1706 c. 1. Così, se il binomio prefigurato dal legislatore è quello diritti di credito/diritti reali, la prima delle due nozioni concerne qualsivoglia categoria di diritti derivanti da un rapporto obbligatorio posto in essere dal mandatario (in tali sensi, e in un lontano passato, già Cass. 2 agosto 1955 n. 2504).

1.3 Le posizioni della dottrina

Nell’intendimento di dare continuità ad un recente indirizzo accolto da queste sezioni unite, che, in numerose pronunce, hanno esaminato, dato conto e sovente fatte proprie non poche riflessioni della migliore dottrina giuscivilistica italiana, in un fecondo e sempre più intenso rapporto di sinergia di pensiero destinato a tradursi in diritto vivente, sembra opportuno procedere ad una (sia pur sintetica e inevitabilmente incompleta) analisi delle posizioni espresse, nel tempo, dagli autori che si sono occupati funditus della complessa tematica relativa agli aspetti funzionali ed effettuali del contratto di mandato.

a) La dottrina italiana si è appassionata al tema sin dall’entrata in vigore del codice, e, in un primo approccio al peculiare meccanismo funzionale di cui all’art. 1705 secondo comma (che gli autori classici non a torto definirono «assai oscuro»), ritenne inaccettabile l’opinione – espressa dal guardasigilli nella Relazione al codice – secondo cui l’art. 1705 c. 2 e l’art. 1707 prima parte attribuivano al mandante un’azione in via diretta contro il terzo contraente, ravvisandovi piuttosto (salva l’assenza del requisito della trascuratezza da parte del mandatario) gli estremi dell’azione surrogatoria, fondata sulla titolarità sostanziale del credito in capo al mandatario, mentre il mandante, sostituendovisi, eserciterebbe pur sempre un diritto altrui.

La tesi dell’azione surrogatoria incontrò, peraltro, illustri oppositori, proprio per la mancanza di un requisito essenziale della fattispecie (la trascuratezza da parte del mandatario), e lasciò spazio a quella della generica legittimazione ad agire riconosciuta al mandante in luogo del mandatario (che non priverebbe quest’ultimo della titolarità dei diritti di credito e non trasformerebbe il mandante in un diretto debitore del terzo contraente, salva la possibilità di costui, ove convenuto in giudizio, di agire in via riconvenzionale nei confronti del mandante stesso).

La difficoltà dell’inquadramento teorico del potere di sostituzione del mandante emergerà, in tutta la sua portata, tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60, ad opera di un’autore che tante pagine ha dedicato allo studio della rappresentanza. Sulla premessa per cui l’espressione sostituendosi al mandatario sarebbe ingannevole, inducendo l’idea di uno dei protagonisti della vicenda negoziale che entra inopinatamente in possesso di quanto è dell’altro, si fa strada il fondamentale rilievo di una sostituzione destinata ad attivarsi soltanto nell’esercizio del diritto, in nome e nell’interesse proprio: l’iniziativa del mandante non darebbe luogo, così, ad atti costituenti cause o titoli dell’acquisto, perché l’effetto traslativo viene presupposto come già effettuato, in forza di una efficacia (non diretta ma) automatica dell’acquisto da parte del mandante dei beni o dei crediti acquisiti dal mandatario (che «acquista e perde» al tempo stesso), producendo un’espansione del rapporto di gestione analoga a quella che, nella rappresentanza diretta, si verifica per effetto della contemplatio domini, cioè con l’agire in nome altrui. La differenza tra mandato con rappresentanza e mandato senza rappresentanza consisterebbe, allora, nel fatto che solo in questo secondo caso il mandatario resta obbligato, e contemporaneamente acquisterebbero sia il mandatario che il mandante.

Gli studi della dottrina contrari alla ricostruzione della facultas agendi del mandante ex art. 1705 c. 2 in termini di azione diretta proseguiranno, pervenendo, dopo accurate analisi, ad ammettere che la funzione del mandato senza rappresentanza si sostanzierebbe nel riconoscere al mandante il potere di appropriarsi della titolarità dei crediti sulla base di una cessio legis, cessione, cioè, di fonte legale, ma rimessa all’iniziativa dell’interessato: un diritto potestativo alla surrogazione, dunque, mercé il quale il mandante subentra nella titolarità del credito del mandatario. La principale obiezione mossa a tale tesi – quella per cui il disposto della prima parte del secondo comma dell’art. 1705, predicando il generale principio che i terzi non hanno alcun rapporto con il mandante, sicché i due rapporti non possono confluire in uno, non ammette in alcun modo e sotto nessuna forma una successione di soggetti – indusse, peraltro, a riconoscere che, della sostituzione, non si potessero predicare letture in chiave traslativa, dovendo essa ricondursi piuttosto ad un peculiare mezzo di tutela del mandante.

Negli anni ’80, gli autori più avvertiti non si nasconderanno che, della fattispecie, molteplici apparivano, sul piano concettuale, le possibilità ricostruttive. L’attenzione si sposta, così, dall’aspetto genetico/morfologico a quello (storico e) funzionale dell’istituto, onde indagare funditus sulle ragioni ispiratrici della norma, identificate in quelle «di garantire tutela all’interesse del mandante alla segretezza verso i terzi e per altro verso quella di assicurare al mandante una sostituzione da parte del mandatario anche nella fase di esecuzione del negozio gestorio»: si spiegherebbe, così, la ratio della disposizione legislativa che lascia all’iniziativa del mandante la scelta se rivelarsi o meno ai terzi mediante la sostituzione ex art. 1705 cpv., proteggendolo, inoltre, dal rischio di eventuali abusi o infedeltà del mandatario (risultato conseguibile, peraltro, privando il mandatario della legittimazione a ricevere il pagamento non appena il mandante opera la sostituzione).

Alla luce del carattere eventuale dell’acquisto del credito verso il terzo da parte del mandante e del valore programmatico del mandato, questa attenta dottrina esclude ogni ipotesi di effetto traslativo immediato del credito in favore del mandante, discorrendo espressamente di condicio iuris meramente potestativa inerente al mandato (tanto che il mandatario, in difetto di relevatio del mandante, rimarrebbe tenuto ad esercitare il credito nei confronti del terzo e a rimettere al mandante la prestazione ricevuta). La sostituzione sarebbe quindi, da un lato, avveramento della condizione sospensiva, dall’altro, formalità equivalente alla notificazione della cessione al debitore ceduto, secondo il paradigma, esportabile in parte qua alla fattispecie, dell’art. 1264 comma 1 c.c.

b) Altrettanto nutrita appare, dal suo canto, la corrente dottrinale, cui ha inteso in larga misura aderire la stessa giurisprudenza di questa corte, che qualifica l’azione del mandante come azione diretta.

Già nei primi anni ’50 si sostenne che il legislatore, con la previsione di cui al comma 2 dell’art. 1705, aveva preferito al meccanismo della surrogazione legale quello dell’azione diretta, onde consentire al mandante di appropriarsi dei crediti in speculare simmetria con l’azione di revindica di cui al successivo art. 1706. Non si è mancato di rilevare, in seguito, come il maggior pregio di tale teoria consista indiscutibilmente nel contemperare il principio sancito nell’art. 1705 comma 1 con quello della inidoneità del mandato come titolo traslativo del dominium, pur nel riconoscimento di una circoscritta efficacia esterna del rapporto gestorio, nei limiti in cui esso, peraltro, non pregiudichi gli interessi legittimi dei terzi (che solo accidentalmente, ma comunque ininfluentemente, possono essere a conoscenza di detto rapporto).

La dottrina che, in seguito, approfondirà il tema dell’azione diretta si mostra incline a equipararla alle simmetriche azioni regolate dagli artt. 1595, 1676 e 2867 c.c. Anche per tali autori è lecito discorrere di trasferimento automatico, dal terzo al mandante, della titolarità dei diritti acquistati dal mandatario in nome proprio, così che l’attività del mandante ex art. 1705 risulterebbe esercizio di questo diritto già acquistato, secondo alcuni addirittura mercé il ricorso ad una lettura in chiave consensualistica dell’istituto (il riferimento è all’art. 1376 cod. civ., nel senso che, come le parti possono consensualmente trasferire un diritto, così possono, d’accordo, determinarne a priori lo spostamento da una sfera giuridica ad un’altra, attribuendosi, in definitiva, all’atto di sostituzione la funzione di vera e propria notifica della titolarità del credito).

Sempre nell’orbita degli studi sull’azione diretta, più di recente si osserverà ancora che, limitando il campo di indagine alla sola esigenza di individuare la titolarità formale del diritto acquistato, non si coglie il peculiare aspetto dinamico dell’intera fattispecie, mentre, ricostruendone i tratti essenziali con riferimento all’interesse sottostante, che è quello del mandante, si perviene invece ad evidenziare che è l’interesse alieno a qualificare la gestione dell’interposto, trascendendo il rapporto interno per assumere contestuale rilevanza esterna: stabilire allora se l’acquisto del mandante è diretto, senza alcun contemporaneo acquisto del mandatario, ovvero automatico, previa acquisizione della titolarità del diritto da parte del mandatario, sarebbe una sfumatura che non coglie il cambiamento che si attua nella posizione del mandatario allorché agisce in nome proprio. Quest’ultimo si colloca, difatti, in una posizione «di vantaggio ex lege», che si esplica, in caso di acquisto di beni mobili, attraverso la facoltà di esercizio delle azioni possessorie e di quelle a difesa della proprietà, salvo il coordinamento con l’esercizio ex art. 1706 da parte del mandante), ed un potere di esercitare i diritti di credito identico a quello che secondo l’art. 1705 c. 2 il mandante vanta a sua volta.

c) L’interesse per la questione non si attenua negli anni ’90, mercé il contributo di autori che, ciascuno seguendo una propria autonoma linea di pensiero, riterranno (quantomeno) non del tutto convincente la teoria dell’azione diretta.

Si afferma, così, da un canto, che l’intima ratio della facoltà di cui al 1705 c. 2 – la cui funzione consiste nell’attribuire al mandante un rimedio idoneo all’emanazione di una sentenza che trasferisca a suo favore il credito appartenente al debitore principale – conduce alla conclusione che, pur mancando una «immediatezza di contatto» tra mandante e terzo, l’eccezionale forma di sostituzione in parola non potrebbe da sola giustificare una eteromodificazione di un contratto rispetto a cui il mandante continua ad essere terzo (così ripudiandosi la tesi della modifica ex lege del contratto come conseguenza della mera esteriorizzazione del rapporto interno mandante-mandatario, con la conseguente ipotesi di annettere alla esteriorizzazione del mandante il solo risultato di attribuire al debitore un nuovo avente titolo al pagamento, in concorso con il precedente destinatario); dall’altro, che la titolarità dei crediti resta ferma in testa al mandatario mentre, con la sostituzione nell’esercizio del suo diritto, il mandatario perde la sua originaria legittimazione, senza che il mandante possa avere azione diretta, perché non diventa parte contraente del rapporto gestorio; dall’altro ancora previa individuazione di tre posizioni relative all’oggetto della sostituzione (quella che contempla la sostituzione in tutte le posizioni attive e passive facenti capo ai mandatario – come opinato da Cass. n. 92 del 1990 -; quella che implica sostituzione nei soli diritti di credito – così Cass n. 11118 del 1998 -; quella che comprende nella facoltà di sostituzione i poteri contrattuali di annullamento, risoluzione, rescissione), che il criterio di selezione gravita intorno alla natura del diritto, con conseguente estensione della sostituzione a tutti i diritti di natura patrimoniale, purché non personali (azionabili mercé il ricorso all’azione surrogatoria di cui all’art. 2900), anche se – si soggiunge – la conclusione dovrebbe essere diversa per l’azione di risarcimento dei danni, «perché la sostituzione del mandante non influirebbe in alcun modo sulla dinamica del rapporto contrattuale in vita tra il mandatario e il terzo» (con la fondamentale precisazione secondo cui il mandante potrebbe richiedere a titolo risarcitorio non il danno da lui medesimo risentito, ma quello sofferto dal mandatario, perché «il mandante non è controparte del terzo e quest’ultimo non può essere costretto a rifondere le perdite di estranei»).

d) La disamina delle posizioni assunte dalla giuscivilistica italiana non può, infine, prescindere dalle lucide riflessioni di un autore prematuramente scomparso, autorevole esponente della scuola messinese degli anni ’60, che più di tutti ha approfondito il tema del mandato nell’ottica (di ben più ampio e affascinante respiro) della cooperazione nell’attività negoziale nelle varie forme di attività svolte nell’interesse altrui.

Premessa una (ancor oggi attuale e condivisibile) denuncia dell’incapacità, da parte della dottrina e della giurisprudenza, di liberarsi di alcune «abitudini mentali della dogmatica europea», tra le quali l’idea, palpabile in tema di mandato, che il diritto soggettivo costituisca un’entità reale, quasi corporea, che esiste in concreto nel mondo della fenomenologia giuridica, l’autore accentra inizialmente la sua attenzione sul fenomeno della dissociazione fra il soggetto dell’atto e il soggetto dell’interesse, qualificandolo come carattere connaturato a tutte le attività interpositorie (ivi compresa quella c.d. fittizia, che viene coerentemente – e forse non incondivisibilmente – estrapolata dall’alveo della simulazione). Si critica poi l’adozione del criterio formale della spendita del nome come chiave selettiva dell’effetto del trasferimento diretto dal terzo al titolare dell’interesse, qualificando, viceversa, proprio il criterio sostanziale della titolarità dell’interesse come idoneo a fondare il meccanismo effettuale (e precisando che l’adozione di un criterio formale comporterebbe non pochi interrogativi in ordine all’elemento causale dell’atto compiuto dall’interposto). Viene poi rappresentata la necessità di analizzare, oltre all’aspetto strutturale, il meccanismo funzionale della fattispecie interpositoria, senza aver riguardo al sottostante rapporto di cooperazione, che diviene allora lo scopo pratico (e giuridico) del procedimento di interposizione, attribuendo all’interposto la qualità di titolare di un diritto nell’interesse altrui, e si evidenzia ancora come la titolarità in capo all’interposto sia diversa da qualsiasi altra forma di titolarità del diritto, atteso che, nella specie, si assiste ad un pressoché totale svuotamento del contenuto del diritto soggettivo, sotto il profilo economico (l’interesse) e giuridico (la facoltà di goderne e di disporne). Si delinea con sempre maggiore chiarezza la precarietà della figura dell’interposto (che, a tutto concedere, assume il carattere della temporaneità senza alcuna possibilità nemmeno ipotetica di consolidazione della situazione di diritto, salvo agire contra mandatum), e con essa la necessità di trasformare la (non predicabile) titolarità del mandatario in mera legittimazione (diversamente da quella riconosciuta al fiduciario, che acquista la titolarità piena e non soltanto formale sul bene). Il problema del fatto costitutivo dell’effetto traslativo viene poi risolto facendo ricorso al concetto di fattispecie complessa, caratterizzata da una sua causa concreta, costituita dalla sinergia mandato negozio stipulato con il terzo dal mandatario, dove il mandato, oltre agli effetti obbligatori suoi propri inter partes, spiega, in combinazione con il successive negozio, altresì un effetto reale sotto il profilo della immediata produzione dell’effetto traslativo in capo al mandante.

Il trasferimento degli effetti sarà, allora, non diretto ma automatico, senza necessità di un atto traslativo ad hoc da compiersi da parte del mandatario: l’acquisto del diritto, contemporaneo in capo al mandante e al mandatario, si riflette automaticamente e senza soluzione di continuità temporale in capo al primo (scandito sincronicamente secondo la successione temporale acquisto/perdita in capo al mandatario) : la differenza con la rappresentanza diretta – che risulta fortemente attenuata, giusta la premessa della unitarietà della fattispecie della cooperazione – si riduce così a ciò che, in essa, il cooperatore rappresentante non acquista affatto, mentre nella rappresentanza indiretta egli acquista e perde nello stesso istante. L’ostacolo – apparentemente insuperabile – dell’acquisto dei beni immobili, in cui la necessità del doppio trasferimento appare testuale (art. 1706 secondo comma c.c.), è destinato a sua volta a risolversi considerando che la differenza di disciplina ripete la sua genesi non da un differente assetto di interesse sostanziale, ma esclusivamente dall’esistenza di profili formali che regolano la circolazione immobiliare: l’atto di ritrasferimento non è, dunque, un negozio realmente traslativo per essersi già verificato quel medesimo effetto in via automatica), ma un atto funzionale (soltanto) alle esigenze della trascrizione, così che anche una dichiarazione unilaterale ricognitiva dell’appartenenza del bene al mandante resa al pubblico ufficiale potrebbe essere legittimante trascritta, pur se totalmente priva dei connotati del negozio traslativo.

1.4 La soluzione del contrasto

È convincimento di questo collegio che una seria e meditata adesione all’orientamento più restrittivo, così come la speculare scelta di una soluzione ermeneutica ben più elastica, non avrebbero comunque potuto prescindere dalla ricognizione, sin qui compiuta, delle diverse, dissonanti ricostruzioni dell’intero istituto della rappresentanza del mandatario: l’esclusione, o meno, del mandante dalla facoltà di esperire le azioni contrattuali derivanti dal negozio stipulato per suo conto dipende, difatti, dall’adozione di una più generale «teoria della rappresentanza indiretta» quantomeno sotto il suo profilo funzionale, quello, cioè, della esatta ricostruzione del dipanarsi dell’effetto traslativo tra i tre soggetti protagonisti della complessa fattispecie interpositoria, il mandante, il mandatario, il terzo contraente.

Prima ancora di esprimere la conclusiva opzione tra il privilegiare l’esegesi tradizionale e la dominante dogmatica giuridica (restando così fedeli a una nozione restrittiva dei poteri di sostituzione del mandante) piuttosto che favorire la snellezza dei circuiti di relazione tra soggetti del mercato (individuando conseguentemente il fondamento normativo di tale scelta in extensum), è obbligo (come sempre) dell’interprete procedere ad una attenta e puntuale disamina del dato normativo positivo, onde da esso cautamente procedere verso una soddisfacente e credibile soluzione in diritto. Le norme che vengono in considerazione sono, da un canto:

a) l’art. 1705, comma 1: Il mandatario che agisce in nome proprio acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato;

b) l’art. 1705, comma 2, prima parte: I terzi non hanno alcun rapporto con il mandante;

c) l’art. 1706, comma 2: Se le cose acquistate dal mandatario sono beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, il mandatario è obbligato a ritrasferirle al mandante. In caso di inadempimento, si osservano le norme sull’esecuzione dell’obbligo a contrarre;

d) l’art. 1707, seconda parte: i creditori del mandatario non possono far valere le proprie ragioni… sui beni immobili o sui mobili iscritti in pubblici registri se la trascrizione dell’atto di ritrasferimento, o della domanda giudiziale diretta conseguirla, sia anteriore al pignoramento.

Dall’altro:

a-b.1) l’art. 1705 comma 2: Tuttavia il mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato (salvo pregiudizio dei diritti del mandatario);

c.1) l’art. 1706 comma 1: Il mandante può rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio, salvi i diritti acquistati dai terzi per effetto del possesso di buona fede;

d.1) l’art. 1707 prima parte: I creditori del mandatario non possono far valer le loro ragioni sui beni che, in esecuzione del mandato, il mandatario ha acquistato in nome proprio purché, trattandosi di beni mobili o di crediti, il mandato risulti da scrittura avente data certa anteriore al pignoramento.

Non sembra seriamente contestabile che una lettura logica della normativa in tema di mandato, così come emerge dalla scomposizione funzionale delle disposizioni testé operata, conduce ad un primo, inquietante risultato, quello, cioè, di una insanabile contraddizione tra la disciplina normativa degli acquisti mobiliari e quella dei trasferimenti dei diritti immobiliari, che ripete la sua origine dalla più generale difficoltà, tipica del meccanismo interpositorio, di coniugare l’esigenza (avvertita come primaria dal legislatore che, non a caso, esclude, ex art. 1705 comma 2 prima parte, il rapporto tra i terzi e il mandante, ma non postula altrettanto esplicitamente la speculare esclusione mandante/terzi) di tutelare la scelta di riservatezza del mandante interponente con le regole negoziale sulla tutela dell’affidamento. Ne deriva un apparentemente ossimoro legislativo, un ibrido proteiforme che miscela momenti puri di tutela (artt. 1705 comma 2, 1706 comma 1, 1707 prima parte), accentuati al punto da configurare il mandatario evidentemente come non titolare dei beni acquistati (si pensi, in particolare, oltre che alla rivendica concessa al mandante, alla disciplina degli acquisti di beni mobili da parte dei terzi di cui all’art. 1706 primo comma ultima parte: il farne salva la legittimità per effetto del possesso di buona fede riproduce esattamente la disciplina dell’acquisto a non domino di cui all’art. 1153) a momenti di tutela soltanto mediata, in cui, peraltro, prevalgono inevitabilmente le norme sulla pubblicità degli acquisti immobiliari (il cui carattere, molto meno dichiarativo di quanto non sia dato apprendere dalla manualistica tradizionale, non può essere in questa sede utilmente approfondito).

Dovendosi evidentemente escludere una interpretazione (che suonerebbe inaccettabilmente grossolana) dell’intero coacervo normativo sin qui evidenziato che fondi una radicale differenza morfologica e funzionale (destinata a ripercuotersi sul piano dell’effetto traslativo) sulla natura del bene (mobile-immobile), per predicare, rispettivamente, in capo al mandante, l’esistenza di una situazione ab origine proprietaria, ovvero di mera aspettativa (quantunque tutelata ex lege) di ritrasferimento su di un piano meramente obbligatorio, forti appaiono le suggestioni della teoria del trasferimento automatico tout court, operante sia in caso di alienazione di mobili che di immobili, che ha l’indubitabile pregio di ricondurre ad unità l’intera fattispecie, annettendo effetti soltanto formalistico/pubblicitari all’atto (non negoziale, o non necessariamente negoziale) di ritrasferimento nelle alienazioni immobiliari (fortemente suggestiva, in proposito, appare l’idea di un atto unilaterale ricognitivo dell’esistenza del mandato da parte del mandatario, di per sé idoneo alla trascrizione, da redigere con snellezza ed economia di mezzi dinanzi al pubblico ufficiale); teoria che, a giudizio del collegio, potrebbe oggi eventualmente arricchirsi e in parte modificarsi ritenendo, fintanto perduri la situazione iniziale di segretezza, che la disciplina applicabile alla fattispecie sia quella dell’art. 1705 primo comma e secondo comma, prima parte, mentre, caduta (per volontà del titolare dell’interesse) ogni esigenza di tutela (perché quegli ritiene, in qualsiasi momento funzionale del rapporto di mandato, di manifestare la propria, reale posizione di titolare dell’interesse), la stessa ratio dell’istituto della interposizione reale viene meno (così, piuttosto che di acquisto diretto o automatico del mandante, potrebbe allora non infondatamente discorrersi di un acquisto condizionale da condizione potestativa semplice unilaterale ex lege: a seguito della manifestazione di volontà del mandante – il cui contenuto si esprimerebbe, all’incirca, nella proposizione «non intendo più avvalermi della facoltà di tener celata la mia posizione di titolare dell’interesse negoziale, e intendo ricondurre ad unità le posiozoni di titolare formale e portatore dell’interesse sostanziale» -, il meccanismo legislativo si spoglia di ogni ambiguità, consentendo la retroattiva assegnazione degli effetti del negozio al mandante all’esito dell’avverarsi della condizione).

Tale ricostruzione dell’intera fattispecie della rappresentanza indiretta, benché intrisa di intense suggestioni e apparentemente appagante sul piano dogmatico, non sembra, peraltro, poter allo stato essere adottata.

Difatti, nel procedere alla verifica funzionale della sua bontà applicativa, appare innegabile che il mandante, automaticamente (o condizionalmente) destinatario dell’effetto traslativo del negozio intercorso tra mandatario e terzo, sarebbe necessariamente legittimato ad agire in giudizio a tutela del diritto così acquisito, sarebbe, cioè, legittimato ad esperire tutte le azioni ex contractu nella sua posizione di titolare dell’interesse sostanziale, ivi compresa l’azione risarcitoria da inadempimento del terzo. Ma l’an e il quantum di tale azione, in concreto, non potrà in alcun modo rapportarsi ai danni che lui stesso (piuttosto che il mandatario, controparte formale e soggetto autore dell’atto) potrebbe in astratto lamentare, giusta disposto dell’art. 1225 c.c. – norma che, nel limitare al danno prevedibile l’obbligo risarcitorio della parte inadempiente, esclude tout court che danni (ipoteticamente maggiori), reclamati da chi controparte negoziale non possano essergli legittimamente richiesti (salvo non voler ipotizzare una surreale «condizione non espressa» da ritenersi immanente ad ogni convenzione negoziale, in ossequio alla quale ciascuna delle parti potrebbe o addirittura dovrebbe prospettarsi la possibilità che dietro ogni negozio traslativo possa celarsi un rapporto di mandato).

Il vero, insuperabile ostacolo che si frappone all’accoglimento della tesi poco sopra descritta è, dunque, quello che vede totalmente pretermessa l’analisi della posizione contrattuale del terzo. Se, nell’ottica del rapporto mandante/mandatario, la rilevanza sostanziale dell’interesse può far premio sulla titolarità (soltanto) formale (oltre che istantanea) del mandatario, non può per converso trascurarsi che il terzo, nel contrattare con quest’ultimo (e soltanto con quest’ultimo), ripone un legittimo affidamento nel fatto che tutte le vicende successive al contratto, sul piano della fisiologia come della patologia degli effetti, andranno a dipanarsi tra esse parti, senza alcun intervento ipotetici di terzi-mandanti (in assenza di un suo espresso consenso). Proprio l’aspetto del difetto assoluto di consenso del terzo disvela l’ulteriore momento di debolezza della teoria dell’effetto (diretto, automatico, condizionale che si voglia) costituitosi in capo al mandante: ammettere la legittimità di tale traslatio non soltanto sotto il profilo attivo del credito (sicuramente cedibile senza consenso), ma dell’intera posizione contrattuale formalmente costituitasi in capo al mandatario si risolve, nella sostanza, se valutata non più nell’ottica del rapporto interno, ma in quella del terzo contraente, nell’ipotizzare una fattispecie di cessione senza consenso del contraente ceduto, in evidente spregio al disposto dell’art. 1406 c.c. (non a caso, le sentenze predicative dell’orientamento meno restrittivo si limitano a discorrere, pudicamente, di modificazione soggettiva del rapporto, senza ulteriori approfondimenti).

Le norme in tema di mandato di cui dianzi si è espressamente ricordato il contenuto vanno, pertanto, interpretate nel senso che esse disegnano un complesso (anche se non del tutto coerente) sistema diacronico imperniato su di un evidente rapporto di regola/eccezione: regola generale sarà, pertanto, quella, di cui all’art. 1705 c.c., secondo la quale il mandatario acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, i quali non hanno alcun rapporto con il mandante. Eccezionali risulteranno, per converso, quelle disposizioni che, in deroga a tale, generale meccanismo effettuale, ne prevedano, sul piano processuale, una sorte diversa, imperniata sulla immediata reclamabilità del diritto (di credito o reale) da parte del mandante. Queste regole operazionali, tanto sostanziali quanto processuali, nel porsi come eccezioni rispetto alla disciplina generale del mandato, sono pertanto di stretta interpretazione, e non consentono alcuna integrazione di tipo analogico, né possono, nella specie, essere interpretate estensivamente, nella già rilevata ottica della tutela della posizione del terzo contraente. L’espressione «diritti di credito» di cui all’art. 1705 comma 2 c.c. va, pertanto, rigorosamente circoscritta all’esercizio (fisiologico) dei diritti sostanziali acquistati dal mandatario, con conseguente esclusione delle azioni poste a loro tutela (annullamento, risoluzione, rescissione, risarcimento).

2) I limiti soggettivi dell’azione di arricchimento

Con il quinto motivo di ricorso, la difesa del Pagani lamenta, testualmente la violazione dell’art. 112. c.p.c. nonché dell’art. 2042 c.c. in relazione alla richiesta con la quale si era domandato che quantomeno la Lario Products venisse dichiarata tenuta a restituire al Pagani le somme anticipate per la ristrutturazione dell’immobile e per il pagamento degli oneri di urbanizzazione, nonché in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.

Il motivo (al di là e a prescindere da non lievi profili di inammissibilità sub specie della sua autosufficienza, attesa la mancata indicazione di tempi, contenuti

e mezzi di prova attinenti alla specifica domanda proposta) appare comunque infondato nel merito.

Va premesso che il lamentato vizio di omessa pronuncia risulta del tutto insussistente, avendo la corte di appello specificamente e analiticamente esaminato l’analogo motivo di doglianza svolto in quel grado di giudizio (ff. 15-16 della sentenza), rigettandolo alla stregua della dominante giurisprudenza di questa corte con motivazione sicuramente incensurabile sotto il profilo della sufficienza.

Come ulteriormente rilevato nell’ordinanza di rimessione della seconda sezione, anche in relazione a tale motivo pare ravvisabile un contrasto di giurisprudenza in ordine ai limiti soggettivi dell’azione di arricchimento esperita dall’odierno ricorrente nei confronti del terzo contraente Lario Products.

Precisa, difatti, l’ordinanza, che questa stessa corte, con la sentenza n. 6201/2004, ha ritenuto che l’azione di arricchimento possa legittimamente essere esperita indipendentemente dalla circostanza che i fini al cui perseguimento la prestazione era diretta fossero stati realizzati da un soggetto diverso da quello cui la prestazione medesima era destinata, giacché il vantaggio goduto dall’arricchito non deve necessariamente risolversi in un diretto e immediato incremento patrimoniale ma può consistere in qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata.

Di converso, le sentenze 11835/2003 e 11051/2002 avrebbero specularmente condizionato (dando continuità ad un orientamento largamente maggioritario) l’esperibilità dell’azione di arricchimento senza causa al presupposto che l’incremento e la correlativa diminuzione del patrimonio dipendano da un unico fatto costitutivo -, conseguentemente negandola tutte le volte in cui il soggetto arricchito sia diverso da quello con il quale colui che compie la prestazione ha un rapporto diretto (nella parte motiva delle pronunce citate si preciserà ancora che, in tale ipotesi, l’eventuale arricchimento costituisce soltanto un effetto indiretto o riflesso della prestazione eseguita, sicché viene meno il nesso di causalità tra l’impoverimento di un soggetto e l’arricchimento dell’altro, con conseguente venir meno del fondamento dell’invocato indennizzo).

Questo collegio ritiene che il segnalato contrasto vada composto dando sostanziale continuità all’orientamento maggioritario, pur se nei limiti e con le precisazioni che seguiranno.

2.1. Analisi della giurisprudenza di legittimità: gli orientamenti segnalati come contrastanti
a) la sentenza n. 6201 del 29/03/2004

La pronuncia risulta massimata nei termini che seguono: l’azione di arricchimento ex art. 2041 cod. civ. ben può essere esperita indipendentemente dalla circostanza che i fini, al cui perseguimento la prestazione era diretta, siano stati realizzati da soggetto diverso da quello cui la medesima era destinata, giacché il vantaggio goduto dall’arricchito non deve necessariamente risolversi in un diretto ed immediato incremento patrimoniale ma può consistere in qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata.

Nella parte motiva della sentenza viene, peraltro, specificato che il principio è limitato all’arricchimento «indiretto», da valutarsi sotto il profilo del risparmio di spesa, conseguito da un ente pubblico (nella specie, un Comune), quando la prestazione (nella specie, progettazione di alcuni alloggi da parte di un privato) venga poi utilizzata in concreto da altro ente pubblico (nella specie, quello deputato ex lege alla materiale costruzione degli immobili).

Si legge, difatti, in sentenza: Quanto, infine all’ulteriore profilo adombrato nel motivo di ricorso, quello, cioè, per cui il destinatario dell’arricchimento andrebbe identificato in un soggetto diverso dalla parte pubblica in giudizio, è sufficiente ricordare il principio di fungibilità dell’ente beneficiario, più volte affermato da questa Corte (ex multis, Cass. Ss.uu. n. 1025 del 1996), per ritenere predicabile la legittimità della proposizione di un’azione di indebito arricchimento.

Nella citata sentenza a sezioni unite n. 1025 del 1996 si legge, difatti: come questa Corte ha chiarito anche in precedenti sue decisioni, il riconoscimento, da parte di enti pubblici, dell’utilità di una prestazione professionale, con conseguente loro arricchimento, si realizza con la mera utilizzazione della stessa, indipendentemente dal fatto che i fini alla cui realizzazione la prestazione poteva essere diretta non fossero stati realizzati dall’ente cui il progetto era stato destinato (Cass. 12 luglio 1974 n. 2090; Cass. 8 gennaio 1979 n. 64; Cass. 27 gennaio 1982 n. 530; Cass. 19 luglio 1982 n. 4198; Cass. 9 novembre 1993 n. 11061). E ciò significa (conformemente a quanto ritenuto dalla quasi totalità della dottrina – nonché dalla Redazione al codice civile – Libro delle Obbligazioni, n. 262 – secondo la quale non è stato e non poteva essere chiarito ex lege il concetto di arricchimento), che il vantaggio goduto dall’arricchito non deve avere necessariamente un contenuto di diretto incremento patrimoniale, ma soltanto che esso può rinvenirsi in una qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata dalla P.A., e, quindi, anche in una mera sua mancata diminuzione patrimoniale (intesa come risparmio di spesa).

b) la sentenza n. 11835 del 5/08/2003

Di segno (apparentemente) opposto il dictum della sentenza 11835/2003, la quale, in conformità con un orientamento largamente maggioritario, riafferma un principio di diritto secondo il quale:

L’azione generale di arricchimento non può essere proposta quando il soggetto che si è arricchito sia diverso da quello con il quale chi compie la prestazione ha un rapporto diretto, in quanto l’eventuale arricchimento costituisce, in tal caso, un effetto soltanto indiretto o riflesso della prestazione eseguita, essendo altresì carente anche il requisito della sussidiarietà (art. 2042 cod. civ.), la cui sussistenza è esclusa qualora il danneggiato possa esperire un’azione tipica nei confronti dell’arricchito o di altri soggetti che siano obbligati nei suoi confronti ex lege o in virtù di contratto. (Nella specie, la S.C. confermerà la sentenza di merito che aveva escluso l’esperibilità dell’azione di arricchimento nei confronti del proprietario di un suolo da parte di un soggetto che vi aveva realizzato delle opere su incarico conferitogli da un terzo).

Si legge nella parte motiva della sentenza:

Secondo l’insegnamento ripetutamente affermato da questa Corte in tema di azione generale di arricchimento ex art. 2041 c.c., affinché si verifichi l’ipotesi dell’ingiustificato arricchimento senza causa è necessario il concorso simultaneo di due elementi: l’arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale a carico di un altro soggetto, provocate da un unico fatto costitutivo; la mancanza di una causa giustificatrice nell’arricchimento dell’uno e nella perdita patrimoniale subita dall’altro. Ne consegue che l’azione non può essere esercitata quando il soggetto arricchito è diverso da quello con il quale chi compie la prestazione ha un rapporto diretto, dal momento che, in questo caso, l’eventuale arricchimento costituisce solo un effetto indiretto o riflesso della prestazione eseguita (in termini, Cass. 26 luglio 2002, n. 11051).

Peraltro, l’azione di indebito arricchimento, per il suo carattere di sussidiarietà ai sensi dell’art. 2042 cod. civ., non è esercitabile quando il danneggiato possa esperire un’altra azione tipica nei confronti dell’arricchito o di altri soggetti che siano obbligati per legge o per con tratto nei confronti dell’impoverito, sempre che ricorra l’unicità del fatto costitutivo dell’arricchimento e dell’impoverimento (così, tra le altre, Cass. 9 maggio 2002, n. 6647; Cass. 27 giugno 1998, n. 6355).

c) la sentenza n. 11656 del 3/08/2002

Prima di affrontare funditus la questione sollevata dall’ordinanza di rimessione, questo collegio ritiene opportuno rilevare ancora come la sentenza 11656/2002 abbia, a sua volta, espresso, in argomento, un orientamento che può ben definirsi in termini di tertium genus rispetto alle soluzioni astrattamente predicabili con riferimento ai limiti soggettivi dell’azione di arricchimento, discostandosi – sia pur in parte qua dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario in tema di arricchimento c.d. indiretto o mediato, specie con riferimento ai problemi centrali del nesso causale che deve intercorrere fra la locupletazione e la correlativa diminuzione patrimoniale e del c.d. «principio di sussidiarietà».

La sentenza è così massimata:

In tema di «arricchimento indiretto», l’azione ex art. 2041 c.c. è esperibile contro il terzo che abbia conseguito l’indebita locupletazione in danno dell’istante quando l’arricchimento stesso sia stato conseguito dal terzo in via meramente di fatto e perciò gratuita nei rapporti con il soggetto obbligato per legge o per contratto nei confronti del depauperato, e resosi insolvente nei riguardi di quest’ultimo. La predetta azione è invece inammissibile ove la prestazione sia stata conseguita dal terzo in virtù di un atto a titolo oneroso. (La vicenda definita con la pronuncia in esame può essere così sintetizzata: una società aveva eseguito opere e forniture presso i cantieri della Rai in alcune città italiane su ordine di un’altra società; a seguito del mancato pagamento del prezzo concordato per l’esecuzione delle opere da parte di quest’ultima, la società appaltatrice convenne in giudizio la Rai s.p.a., effettiva beneficiaria della prestazione, chiedendone la condanna al pagamento di quanto dovutole dalla committente – a sua volta legata contrattualmente con la effettiva beneficiaria delle opere eseguite. In entrambi i giudizi di merito la domanda attorea venne rigettata, sull’assunto che «laddove il soggetto che si arricchisce è un terzo, diverso da quello nei cui confronti la parte che adempie la prestazione ha un rapporto contrattuale diretto – di modo che l’arricchimento del primo costituisca un mero effetto riflesso della prestazione dell’adempiente verso il contraente diretto – non sussistono i presupposti di fatto per l’esercizio dell’azione di cui all’art. 2041 c.c. verso il beneficiario dell’adempimento, potendo il soggetto impoverito esperire le azioni a tutela dei suoi diritti solamente nei confronti del soggetto destinatario della prestazione contrattuale». Questa Corte, investita del ricorso proposto dalla società soccombente, ha sì confermato la decisione dei giudici di merito, rilevando come nel caso di specie mancasse la prova dell’inadempimento della Rai s.p.a. – terza nel rapporto committente/appaltatrice e parte contraente nel rapporto diretto con la società committente -, ma ha anche affermato che l’azione proposta risultava inammissibile sol perché il terzo beneficiario aveva ottenuto la prestazione in virtù di atto a titolo oneroso).

È convincimento di queste sezioni unite che il contrasto di giurisprudenza segnalato dall’ordinanza di rimessione con riferimento alla peculiare fattispecie dell’arricchimento della P.A. (che potrebbe piuttosto considerarsi come destinato a porsi in un rapporto di eccezione/regola rispetto al principio generale più volte ribadito dall’orientamento maggioritario, fondato sull’unicità del fatto costitutivo e sull’identità arricchito/beneficiario, attesa la peculiarità della fattispecie dell’arricchimento della P.A. con riferimento alla sua fungibilità soggettiva) vada esaminato e risolto anche con riferimento a quest’ultima sentenza, pur se essa esula dai limiti strettamente connessi con il motivo del presente ricorso, in quanto anch’essa si iscrive nell’orbita del contrasto in ordine alla legittima esercitabilità, o meno, di una azione di arricchimento mediato.
2.2. Analisi storica della giurisprudenza e della dottrina in tema di arricchimento indiretto
Come recentemente osservato da un’attenta dottrina, pur rappresentando l’azione di arricchimento una novità del nuovo codice civile, sotto la vigenza dell’abrogato codice si ammetteva pacificamente il ricorso a questo rimedio anche nei casi di arricchimento indiretto, caratterizzati, appunto, dall’esecuzione di una prestazione che, eseguita per conto di un soggetto, arricchiva poi un terzo, mentre l’esecutore non riceveva il compenso promesso da chi l’aveva richiesta.

In conformità con tale, ormai consolidata tradizione da «diritto vivente», la giurisprudenza formatasi in seguito all’entrata in vigore del codice del 1942 (in particolare quella risalente agli anni ’40 e ’50) avrebbe dato continuità a tale orientamento, riaffermando la legittimità delle istanze dei depauperati fondate su arricchimenti indiretti (in particolare nelle ipotesi di insolvenza dell’intermediario, chiamando così il destinatario finale della prestazione a rispondere dell’arricchimento ricevuto a prescindere dai suoi rapporti con l’intermediario stesso: emblematico in tal senso è il decisum di Cass. 26 marzo 1953, n. 782, con riferimento a fattispecie in cui una impresa appalitatrice era stata incarica di effettuare dei lavori di riparazione su di una nave e la società committente aveva emesso, per il pagamento del prezzo, una cambiale andata successivamente in protesto, così che gli esecutori delle opere, ritenendo che la committente fosse insolvente, avevano preferito rivolgersi direttamente ai proprietari della nave. Il giudice di legittimità, pur confermando la decisione della corte di merito sfavorevole agli esecutori delle riparazioni, e pur escludendo nella specie la esperibilità dell’azione di arricchimento ribadendone la natura sussidiaria – poteva, difatti, essere nella specie esercitata l’azione contrattuale nei confronti della ditta committente che aveva richiesto la riparazione della nave e la fornitura dei materiali per l’attrezzatura di essa – ritenne che i danneggiati si sarebbero potuti esimere dall’esercizio di tale azione, rivolgendosi direttamente contro i proprietari, qualora avessero provato lo stato di insolvenza dei debitori per contratto). (Nei medesimi sensi, Cass. 17 marzo 1947 n. 391; 21 febbraio 1955, n. 507; 20 ottobre 1962, n. 3057).

All’inizio degli anni Sessanta si assiste ad un radicale revirement della giurisprudenza di questa Corte, che, aderendo alla diversa impostazione propugnata da una autorevole dottrina sul finire degli anni ’50, affermerà un principio del tutto speculare, all’esito di un fondamentale arresto delle sezioni unite (Cass. 2 febbraio 1963, n. 183) nel quale, per la prima volta, si afferma che l’azione di arricchimento postula l’arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale in pregiudizio di un altro soggetto, collegati tali eventi da nesso di causalità, e si specifica che, quanto al primo requisito, è necessaria la sussistenza di un fatto costitutivo unico, dal quale possano farsi dipendere tanto l’arricchimento, quanto la correlativa diminuzione patrimoniale: laddove, invece, lo spostamento patrimoniale, sia pure ingiustificato, fra due soggetti sia determinato da una successione di fatti distinti (nella specie, espropriazione fondiaria in danno di un soggetto, espropriazione militare in danno dell’altro), che hanno inciso su due diverse situazioni patrimoniali soggettive, in modo del tutto indipendente l’uno dall’altro, il depauperamento di un soggetto non è l’effetto del correlativo arricchimento dell’altro e viceversa, e viene meno il fondamento dell’indennizzo (a tale *********ét faranno poi seguito, negli anni successivi, le conformi decisioni di cui a Cass. 12 ottobre 1970, n. 1957; 4 maggio 1978, n. 2087; 15 giugno 1979, n. 3368; 8 marzo 1980, n. 1552; 9 giugno 1981, n. 3716; 29 luglio 1983, n. 5236; 10 febbraio 1993, n. 1686) .A tale impostazione darà, come già rilevato in precedenza, ulteriore continuità la dominante giurisprudenza degli anni 2000, anche se una profonda rivisitazione critica verrà da parte di quella dottrina attenta a rilevare come l’idea della necessità, ai fini dell’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento, di un unico fatto costitutivo nella relazione fra arricchimento e depauperamento avrebbe escluso dall’operatività dell’azione casi nei quali, viceversa, la possibilità di configurare un arricchimento senza causa deve ritenersi indiscutibile (come nel caso della delegazione, quando il delegato adempie il debito assuntosi nei confronti del delegatario e quest’ultimo consegue un arricchimento proveniente dal patrimonio del delegato, terzo rispetto al rapporto delegante-delegatario, in base ad un contratto stipulato con questo – l’assunzione del debito da parte del delegato – mentre è fuor di dubbio che, ove il rapporto di valuta sia nullo, il delegante possa agire contro il delegatario). Per altro verso, l’impostazione fondata sulla necessità di un nesso di causalità diretto parve piuttosto frutto della tendenza a trasferire nella materia degli arricchimenti ingiustificati le nozioni elaborate in relazione allo studio dei fatti illeciti, nei quali soltanto l’esigenza di uno specifico nesso eziologico tra il fatto e il danno assume un chiaro significato normativo, poiché scaturente da univoche indicazioni del sistema. In alternativa, verrà allora proposta la teoria della relazione di necessità meramente storica fra arricchimento e depauperamento (nel senso cioè che il rapporto di causalità potrebbe ritenersi sussistente ove dimostrabile che l’uno non si sarebbe verificato senza l’altro, così che il fondamento dell’indennizzo di cui all’art. 2041 c.c. non veniva meno pur quando l’ingiustificato spostamento patrimoniale avesse tratto origine da una successione di fatti incidenti su diverse situazioni patrimoniali soggettive del tutto indipendenti fra loro, come, ad esempio, nel caso di un mutuo contratto al fine di effettuare una donazione, riconoscendo al mutuante, nell’eventualità dell’inadempimento del mutuatario, un’azione nei limiti dell’arricchimento nei confronti del beneficiario della prestazione).

La ricognizione delle posizioni dottrinarie in subiecta materia non può, infine, prescindere, nella compiuta ricostruzione delle problematiche dell’arricchimento indiretto, dall’analisi del pensiero di chi ha indirizzato la propria indagine alla ricerca di disposizioni codicistiche che potessero in qualche modo fornire un fondamento normativo alla soluzione della questione: si è così acutamente evidenziato la correlazione fra l’ingiustificato arricchimento indiretto e l’art. 2038 c.c., norma relativa alla responsabilità del terzo acquirente in ipotesi di alienazione di cosa ricevuta indebitamente. Sul presupposto della legittimità di una applicazione in via analogica dei principi descritti dalla norma citata, si è allora ritenuto opportuno rimodellare la soluzione predicabile per i diversi casi di arricchimento indiretto (quella in cui la prestazione ricevuta dal terzo sia avvenuta in virtù di un atto a titolo gratuito e quello in cui sia avvenuta a titolo oneroso) proprio sul disposto di tale norma – che disciplina esclusivamente il caso in cui il terzo abbia ricevuto la cosa a titolo gratuito, stabilendo che quest’ultimo è tenuto verso l’impoverito/solvens nei limiti dell’arricchimento, senza prevedere né disciplinare, peraltro, la speculare ipotesi in cui la cosa sia stata ricevuta dal terzo a titolo oneroso. Dall’art. 2038 c.c., secondo la ricostruzione dottrinaria in parola, emergerebbe la generale regula iuris secondo la quale il depauperato può esercitare l’azione di arricchimento nei confronti del terzo esclusivamente nel caso in cui quest’ultimo abbia conseguito la prestazione (e di conseguenza si sia arricchito) a titolo gratuito, mentre, qualora abbia conseguito la prestazione a titolo oneroso, l’azione non sarebbe esperibile.
Di recente, si è (condivisibilmente) osservato, in proposito, come l’aspetto più appagante di questa dottrina sia rappresentato dal fatto che l’ancoraggio all’art. 2038 c.c., per un verso, fornisce il necessario fondamento normativo al riconoscimento di una (sia pur circoscritta) fattispecie arricchimento mediante intermediario, per l’altro, induce ad una interpretazione più elastica dell’art. 2042 c.c.
È convincimento di queste sezioni unite, pertanto, che il doppio requisito dell’unicità del fatto costitutivo e della sussidiarietà dell’azione vada senz’altro riaffermato sul piano della regola generale, con la duplice eccezione costituita dall’arricchimento mediato conseguito da una P.A. rispetto ad un ente (anch’esso di natura pubblicistica) direttamente beneficiario/utilizzatore della prestazione dell’impoverito e dall’arricchimento conseguito dal terzo a titolo meramente gratuito, in tal modo rivalutandosi, come ancora osservata da un’attenta dottrina, la funzione propriamente equitativa dell’actio de in rem verso, la cui ratio è sopratutto quella di porre rimedio a situazioni giuridiche che altrimenti verrebbero ingiustamente private di tutela tutte le volte che tale tutela non pregiudichi in alcun modo le posizioni, l’affidamento, la buona fede dei terzi. Tale conclusione trova altresì conforto storico nel ricordo del leading case giurisprudenziale (il ed. affaire *******, che condusse, alla fine dell’800, prima la dottrina e la legislazione francese, poi quella italiana, a differenziare e introdurre nel codice civile l’istituto dell’arricchimento senza causa secondo una matrice culturale, prima e ancora che giuridica, diversa da quella dell’ordinamento tedesco – in cui si affermava invece una lettura dell’auf dessen Kosten del paragrafo 812 del BGB nel senso della necessaria riconducibilità di arricchimento e danno allo stesso fatto generatore) come un tipico caso di arricchimento del terzo determinato da una prestazione effettuata in favore della controparte contrattuale (nel 1892, difatti, la Corte di cassazione francese si trovò a decidere una controversia introdotta da un commerciante di concimi che aveva venduto all’affittuario di un terreno una partita dei suoi prodotti, essendo risultato insolvente l’affittuario insolvente e venendo a scadenza il rapporto di affitto, così che il commerciante non potè ottenere il pagamento della fornitura, rivolgendosi vittoriosamente al proprietario del terreno, che venne condannato sulla base del riconoscimento di un principio – apparentemente eversiva in un ambiente giuridico quale quello francese fondato sulla primazia della fonte legislativa – ritenuto purtuttavia fondamentale, sebbene non codificato, per cui chiunque si arricchisca in danno di un altro soggetto è tenuto a rispondere di tale profitto).

Restano, infine, da esaminare i restanti motivi (I, III e IV) del ricorso Pagani.

II primo motivo – che riproduce la doglianza già rappresentata in sede di appello volta ad una diversa ricostruzione della vicenda negoziale in termini di mandato con rappresentanza, lamentando, per l’effetto, una presunta violazione degli artt. 1388 e 2297 c.c. – è (come già anticipato) del tutto inammissibile. Esso, difatti, sì come articolato, pur lamentando formalmente una plurima violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolve, in realtà, nella (non più ammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. nella parte in cui il giudice del merito ha ritenuto del tutto legittimamente e del tutto condivisibilmente ricorrere, nella specie, un’ipotesi ci mandato senza rappresentanza, si induce piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inammissibili, da un canto, per la mancata trascrizione, in parte qua, degli atti di causa la cui interpretazione egli assume errata (con conseguente violazione del noto principio di autosufficienza del ricorso per cassazione), dall’altro, perché la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. È principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 n. 5 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (eccezion fatta, beninteso, per i casi di prove c.d. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate guoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente a porsi dinanzi al giudice di legittimità. In particolare, sotto il peculiare profilo dell’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto del complesso tessuto negoziale per il quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va in questa sede nuovamente ribadito che, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità della motivazione addotta (tra le tante, funditus, Cass. n. 2074/2002). L’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice del fatto, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione – con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca, come nella specie, nella mera prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Per i medesimi motivi dianzi esposti vanno rigettati il terzo e il quarto motivo di ricorso – con il primo dei quali si lamenta la violazione degli artt. 1453 e 1455 in relazione all’eccezione con la quale si era rilevato che non sussistevano motivi che potessero giustificare la risoluzione del preliminare di compravendita; con il secondo, invece, la violazione degli artt. 2043, 2729 c.c. – avendo, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il giudice di merito fornito ampia, approfondita, condivisibile motivazione sulle ragioni poste a fondamento della pronunciata risoluzione e dell’esclusione di un accordo fraudolento (rispettivamente, ai ff. 10-11 e 11-12 della sentenza impugnata).

La disciplina delle spese segue come da dispositivo

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso.

Redazione