Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 30/4/2008 n. 10875; Pres. Carbone V.

Redazione 30/04/08
Scarica PDF Stampa
Svolgimento del processo

Con decisione del 7 luglio 2006 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Rieti riteneva gli avvocati F. e P.G. responsabili di una serie di violazioni, consistenti nell’aver richiesto il pagamento di competenze relative ad attività mai prestate (capo 2), limitatamente all’avvocato P.G., e per entrambi nell’aver violato l’impegno assunto per iscritto di richiedere i minimi tariffari (capo 3), nell’aver indebitamente utilizzato il verbale dell’assemblea condominiale del Condominio (omissis) del 14 marzo 1999 al fine di ottenere la provvisoria esecuzione dei decreti ingiuntivi n. 227 e n. 228 del 2000 emessi in loro favore dal Tribunale di Rieti (capo 4), nell’aver esercitato l’avvocato P.F. il patrocinio dopo la revoca formale del mandato (capo 5), nell’aver indebitamente subordinato la transazione relativa agli onorari alla condizione che riprendessero i rapporti professionali con detto Condominio e che si verificasse un immediato mutamento nell’attuale gestione del residence (capo 6), nell’aver assunto l’avvocato P.F. il patrocinio contro l’ex cliente in un giudizio comunque ricollegabile al cessato ruolo di legale di fiducia del Condominio (capo 8), nell’aver dedotto l’avvocato P.F., nel patrocinare R.S. nel giudizio contro il Condominio, circostanze non veritiere circa il mancato pagamento dei decreti ingiuntivi n. 227 e 228 del 2000 e sull’esistenza di una esecuzione contro il Condominio stesso, al fine di ottenere la provvisoria esecuzione (capo 9), ed infliggeva loro la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per la durata di due mesi.

Avverso tale decisione i due professionisti proponevano ricorso, che il Consiglio Nazionale Forense rigettava con decisione del 25 maggio – 19 settembre 2007.

Gli avvocati G. e P.F. hanno proposto ricorso per cassazione fondato su undici motivi illustrati con memoria. Non vi è controricorso.


Motivi della decisione

Va innanzi tutto rilevata l’irricevibilità dei documenti depositati dai ricorrenti unitamente alla memoria illustrativa, in quanto estranei alla tipologia di documenti la cui produzione è eccezionalmente consentita, nel rispetto delle forme di cui all’art. 372 cpv. c.p.c., in sede di legittimità.

Con il primo motivo di ricorso si propone la questione di costituzionalità delle seguenti norme:

a) del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 38, nella parte in cui attribuisce l’esercizio del potere disciplinare al consiglio dell’ordine che ha la custodia dell’albo in cui il professionista è iscritto, per violazione degli artt. 3, 24 e 97 Cost.. Si deduce al riguardo che la previsione di competenza territoriale attribuita dal menzionato art. 38 (anche) al consiglio dell’ordine presso il quale è iscritto l’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare non garantisce il minimo di indipendenza ed imparzialità richiesto per l’esercizio del potere disciplinare, non valendo a far salva tale garanzia neppure gli istituti della astensione e della ricusazione;

b) del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 14, nella parte in cui assegna il potere disciplinare ai consigli dell’ordine, per contrasto con gli artt. 3, 41 e 97 Cost., in ragione del fatto che questi sono composti interamente da professionisti appartenenti alla stessa categoria professionale, senza alcuna partecipazione dello Stato, a differenza di quanto avviene per la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura in relazione alla responsabilità dei magistrati. Si aggiunge che tale composizione appare anche in contrasto con il principio di ragionevolezza, stante l’incoerenza rispetto alla previsione della presenza di magistrati nelle commissioni di esame per l’accesso alla professione forense;

c) del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 50, comma 2, e art. 54, e del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 64, nella parte in cui attribuiscono al Consiglio Nazionale Forense il potere di decidere sui ricorsi avverso le decisioni dei consigli dell’ordine, per contrasto con l’art. 101 Cost., comma 2, art. 102 Cost., e art. 108 Cost., comma 2. Si sostiene che l’incostituzionalità delle richiamate disposizioni risiede nel fatto che il meccanismo di nomina elettiva dei componenti del Consiglio Nazionale non assicura la piena e necessaria indipendenza nei confronti dei singoli consigli dell’ordine, i quali partecipano alla loro elezione ed incidono sulla rinnovazione delle nomine, così esercitando un implicito sindacato sull’esercizio della funzione giurisdizionale di detto Consiglio Nazionale. Si aggiunge che la medesima disciplina si pone in contrasto con il nuovo testo dell’art. 117 Cost., il quale fa obbligo al legislatore nazionale di rispettare gli obblighi internazionali, tra i quali quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che agli artt. 6 e 13 pone la garanzia di un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice indipendente, nonchè con l’art. 111 Cost.;

c) del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 49, comma 2, e R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 54, nella parte in cui dispongono che la cognizione sui motivi di ricusazione appartiene allo stesso consiglio dell’ordine, quando, per effetto di essa, esclusi i componenti ricusati, gli altri raggiungono il numero prescritto per decidere, mentre in caso contrario il ricorso deve essere proposto alla commissione centrale. Si osserva che dette norme non appaiono coerenti con i principi di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., essendo affidata la decisione sulla ricusazione al medesimo organo cui partecipa il componente ricusato.

Si chiede infine di rimettere alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità delle richiamate disposizioni con gli artt. 10, 81 e 82 dello stesso Trattato. Si osserva in particolare che, una volta qualificata l’attività professionale forense come attività di impresa secondo il diritto comunitario, si pone il quesito se l’attribuzione esclusiva al consiglio dell’ordine locale, senza alcuna partecipazione dello Stato, del potere di inibire temporaneamente o definitivamente al professionista lo svolgimento della propria attività non concreti una ingiustificata delega in favore dell’organo professionale di poteri di carattere pubblicistico in materia economica e di accesso al mercato, in quanto tale incompatibile con il diritto comunitario, e che analogo quesito va posto in relazione alle funzioni esercitate dal Consiglio Nazionale Forense, non contemplando la normativa di riferimento alcuna presenza dello Stato neppure per la composizione di tale organo.

Tutte le questioni di costituzionalità sollevate, impropriamente proposte nelle forme del motivo di ricorso, sono manifestamente infondate e per alcuni profili inammissibili.

Quanto alle eccezioni relative ai consigli dell’ordine di cui ai punti a) e b) sopra richiamati, va ricordato che la funzione disciplinare esercitata da detti consigli costituisce espressione di un potere amministrativo, loro attribuito dalla legge per l’attuazione del rapporto di appartenenza all’ordine professionale cui spetta stabilire i criteri di conformità dei comportamenti dei singoli professionisti rispetto ai fini che intende perseguire (v., ex plurimis, S.U. 2005 n. 6213; 2004 n. 6406; 2004 n. 1229; 2002 n. 10688; 2002 n. 1904), e quindi esercitato a tutela di interessi che sono essenzialmente propri della stessa categoria professionale. La natura amministrativa dei consigli dell’ordine rende chiaramente non pertinente il riferimento all’art. 24 Cost..

Escluse e neppure prospettate le ragioni del denunciato contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e con quello di libertà dell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost., anche il dubbio di costituzionalità per violazione dei principi di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione posti dall’art. 97 Cost., appare privo di ogni consistenza, atteso che la previsione – di competenza (anche) del consiglio che ha la custodia dell’albo in cui il professionista è iscritto trova evidente e logica ragione nel rilievo che detto consiglio rappresenta il gruppo professionale più direttamente offeso dal comportamento di uno dei propri membri, e quindi maggiormente interessato alla repressione della condotta deontologicamente scorretta, attraverso la irrogazione della sanzione. Peraltro la richiamata natura amministrativa dell’organo, se da un lato comporta la non applicabilità del principio di terzietà del giudice, dall’altro lato non incide sui diritti difensivi dell’incolpato, i quali appaiono sufficientemente tutelati dalle norme che prevedono la contestazione specifica degli addebiti, la formalità della citazione, i termini di comparizione, la facoltà di farsi assistere da un difensore, la ricorribilità della decisione al Consiglio Nazionale Forense.

La questione di costituzionalità, proposta al punto c), della normativa sulla formazione e composizione del Consiglio Nazionale Forense, in quanto non garantirebbe l’indipendenza del giudice imposta dai richiamati precetti costituzionali, è stata ritenuta manifestamente infondata da queste Sezioni Unite in numerose occasioni, ed in particolare con le sentenze n. 9097 del 2005, 6213 del 2005, n. 18771 del 2004, n. 1229 del 2004, n. 10688 del 2002, n. 1904 del 2002 e n. 1732 del 2002, le quali hanno ricordato che la disciplina relativa alla composizione di detto Consiglio Nazionale vale ad assicurare, per il metodo elettivo della nomina dei suoi componenti, per la prescrizione dell’osservanza delle comuni regole processuali e della presenza, a garanzia dell’osservanza della legge, del pubblico ministero, per la impugnabilità delle sue decisioni dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il corretto esercizio della funzione giurisdizionale con riguardo ai principi di indipendenza ed imparzialità ed alla garanzia della difesa (v. altresì sul punto, più di recente, S.U. 2007 n. 26810), non potendo influire negativamente al riguardo la circostanza che i componenti del Consiglio stesso appartengono al medesimo ordine dei professionisti nei confronti dei quali esso è chiamato ad esercitare le sue funzioni, atteso che elemento caratteristico della c.d. giurisdizione professionale è proprio quello della partecipazione, diretta o attraverso il sistema elettivo, degli stessi soggetti appartenenti alla categoria interessata, particolarmente qualificati a pronunziare in una materia attinente alle regole deontologiche che essa si è data.

In ordine al prospettato contrasto della normativa che regola la nomina del Consiglio Nazionale con gli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, va ricordato che la CEDU ha da tempo riconosciuto il requisito dell’indipendenza degli organi della giurisdizione professionale (sent. 23.6.1981, nel caso Le Compte, **********, ********* e sent. 10.2.1983, nel caso Albert e Le Compte), ponendo in evidenza che i membri dei collegi professionali partecipano al giudizio non già come rappresentanti dell’ordine professionale, quindi in una posizione incompatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale, ma a titolo personale, quindi in posizione di terzietà, come tutte le magistrature, e che non giudicano in cause proprie degli stessi membri, ma in controversie relative a soggetti estranei all’organo giurisdizionale.

In ordine ancora alla sospetta incostituzionalità, prospettata al punto d), del sistema di ricusazione dei componenti dei consigli dell’ordine, va ricordato che con sentenza n. 2509 del 2006 queste Sezioni Unite hanno dichiarato manifestamente infondata analoga questione, sollevata sul rilievo che il numero ristretto dei componenti dell’organo disciplinare può rendere difficoltoso garantire la terzietà del giudice attraverso un adeguato meccanismo di incompatibilità, osservando che l’eliminazione del prospettato inconveniente potrebbe realizzarsi non attraverso la correzione di un dettaglio che non alteri il sistema normativo da parte della Corte Costituzionale, ma solo mediante la soppressione di tale giurisdizione speciale, ovvero con una modifica dell’intero sistema, che appartiene alla competenza del legislatore e non al giudice delle leggi. Tali ragioni di inammissibilità soccorrono anche in relazione alla questione qui proposta, postulando anch’ essa una sostanziale revisione della disciplina della ricusazione, attraverso scelte riservate alla discrezionalità del legislatore.

Chiaramente inaccoglibile è infine la richiesta di rinvio alla Corte di Giustizia, non venendo qui in discussione l’interpretazione di regole comunitarie e non vertendosi quindi in fattispecie di pregiudiziale comunitaria di cui all’art. 234 del Trattato. L’interpretazione degli artt. 10, 81 e 82 del Trattato ed anche di quella, indicata in sede di memoria illustrativa, di cui alla direttiva 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, che si richiede di rimettere alla Corte di Giustizia non ha alcuna relazione con l’oggetto della causa, che attiene all’esercizio del potere disciplinare ed alla applicazione di norme sanzionatorie che nulla hanno a che vedere con i principi comunitari in materia di libera concorrenza e con il dovere di collaborazione – sostanziandosi esso nel giudizio di conformità del comportamento del singolo professionista alle regole deontologiche che l’organo elettivo rappresentativo dell’ordine professionale ha posto per tutti gli appartenenti, secondo valori e parametri di valutazione chiaramente estranei alla tematica in relazione alla quale si sollecita il rinvio agli organi della giustizia comunitaria – così che la soluzione della questione interpretativa non potrebbe in alcun modo influire sull’esito della lite.

Con il secondo motivo, denunciando violazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51, in relazione anche all’art. 157 c.p.c., si deduce l’errore della decisione impugnata per non aver dichiarato di ufficio improcedibile l’azione disciplinare per intervenuta prescrizione, risalendo al più tardi al 7 maggio 2000 la cessazione delle condotte oggetto dell’incolpazione.

L’illustrazione del motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto:

se la mancata rilevazione d’ufficio del decorso del termine per la prescrizione della azione disciplinare configuri violazione della norma di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51, in relazione all’art. 157 c.p. e ss., e sia deducibile ex art. 360 c.p.c., n. 3, ai fini della declaratoria di annullamento e/o revoca della decisione di sanzione disciplinare da parte della Corte Suprema di Cassazione per improcedibilità della suddetta azione ovvero di rinvio al Consiglio Nazionale Forense per la relativa pronuncia.

Il motivo è inammissibile per la evidente genericità del quesito.

Come queste Sezioni Unite hanno in più occasioni chiarito, i quesiti di diritto imposti dall’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, comma 1, secondo una prospettiva volta a riaffermare la cultura del processo di legittimità, rispondono alla esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie. Il quesito di diritto costituisce pertanto il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata, e quindi non ammissibile, l’investitura stessa del giudice di legittimità.

Nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di questa Suprema Corte è ormai chiaramente orientata a ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di Cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso: ove tale articolazione logico – giuridica mancasse, il quesito si risolverebbe in un’astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte, in funzione nomofilattica (così, ex plurimis, S.D. 2008 n. 8466; 2008 n. 6420; S.V. 2008 n. 3519; **** 2008 n. 2658; S.V. 2007 n. 22640; 2007 n. 14682; S.V. 2007 n. 14385).

Il quesito non può pertanto consistere In una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.

Il quesito sopra riportato non risponde agli enunciati requisiti, in quanto dà per scontato che si fosse verificata la dedotta prescrizione dell’azione disciplinare e che quindi il Consiglio Nazionale Forense avesse errato nel non rilevarla di ufficio e si limita a porre l’interrogativo, in termini generali ed astratti, circa gli effetti di un errore siffatto, omettendo qualsiasi riferimento agli elementi temporali ed alle ragioni per le quali detto Consiglio avrebbe dovuto ritenere – peraltro escludendo l’esistenza di atti interruttivi conseguenti all’inizio dell’azione disciplinare – che detta prescrizione si fosse verificata.

Con il terzo motivo, denunciando nullità del procedimento e della decisione per violazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, artt. 49, 53 e ss., e succo modif., art. 51 c.p.c., comma 1, n. 3, e comma 2, art. 78 disp. att. c.p.c., art. 137 c.p.c. e ss., art. 170 c.p.c., e R.D.L. citato, art. 50, in relazione all’art. 158 c.p.c., si deduce che la decisione impugnata ha errato nel ritenere equipollente alla notificazione ai sensi degli artt. 137 e 170 c.p.c., la semplice menzione del rigetto dell’istanza di ricusazione contenuta nella citazione in riassunzione del Consiglio dell’Ordine di Rieti e nel non considerare che non poteva surrogare detta notifica il rinvio dell’ udienza per consentire ai due avvocati di prendere cognizione della delibera di rigetto dell’istanza di ricusazione. Si sostiene altresì che erroneamente detta decisione ha ritenuto l’inapplicabilità ai fini in discorso del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 50, avendo tale disposizione riguardo, in ordine alla prevista notifica, non solo alle decisioni di merito, ma a tutte le pronunzie dell’organo disciplinare. Si aggiunge che la decisione sulla ricusazione doveva ritenersi impugnabile, in analogia alla disciplina dettata dall’art. 41 c.p.p., per la ricusazione in materia penale, e considerarsi nella specie come effettivamente impugnata unitamente alle ulteriori decisioni del Consiglio dell’Ordine, sulla base degli stessi motivi circostanziatamente dedotti nell’istanza di ricusazione. Si rileva infine che la decisività dei motivi esposti valeva non solo ai fini della ricusazione, bensì anche a quelli della astensione obbligatoria dei componenti ricusati, e che comunque esistevano ragioni di convenienza ad astenersi, che avrebbero dovuto essere riconosciute dal Consiglio Nazionale Forense.

Il motivo è inammissibile per l’assoluta genericità del quesito con il quale si conclude, che si risolve nel mero interrogativo se configuri nullità del procedimento e della decisione la violazione di tutte le norme innanzi richiamate. Trattasi chiaramente di un quesito del tutto teorico, privo di ogni riferimento alla fattispecie e del tutto inidoneo a dimostrare l’eventuale discrasia tra una ratio decidendi in alcun modo enunciata ed il principio di diritto, anch’esso non espresso, che si vorrebbe porre a fondamento di una diversa decisione.

Con il quarto motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 62, L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 6, e art. 43 del codice deontologico forense, omissione, insufficienza e contraddittorietà di motivazione, si deduce, in relazione al capo 2) dell’incolpazione del quale è stato ritenuto responsabile il solo avvocato P.G., per aver richiesto competenze in ordine ad attività mai prestate, che deve considerarsi legittima la richiesta di compenso formulata da avvocato che abbia prestato la propria attività unitamente ad altro avvocato e che nella specie la riduzione dell’onorario operata dal giudice dell’opposizione ad ingiunzione ai sensi del richiamato art. 62 non valeva a rendere ex post illegittima la stessa richiesta. Si aggiunge che l’affermazione contenuta nella sentenza resa in sede di opposizione che alcune prestazioni non apparivano con certezza effettuate non consentiva di ritenere per questo scorretta in sede disciplinare la relativa pretesa.

Si osserva altresì che la decisione impugnata appare viziata da omissione, contraddittorietà, apparenza ed insufficienza della motivazione nella parte in cui, letteralmente reiterando la motivazione adottata dal Consiglio territoriale ed omettendo di darsi carico dei motivi di impugnazione, ha trascurato la ragione della riduzione effettuata dal giudice dell’opposizione delle competenze procuratorie spettanti all’avvocato P.G., costituita dalla sola mancanza di certezza di alcune prestazioni, e si fonda su presunzioni prive di gravità, precisione e concordanza.

La censura così sintetizzata, nonostante il richiamo formale anche al vizio di violazione di legge, si limita a denunciare asserite carenze argomentative in ordine all’accertamento del compimento dell’attività procuratoria della quale era stato chiesto il compenso.

Va al riguardo rilevato che la pronunzia impugnata è stata emessa dopo l’entrata in vigore della riforma del giudizio di cassazione di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, onde trova applicazione ll’art. 360 c.p.c., nuovo comma 4, secondo il quale le disposizioni di cui al primo comma dell’stesso art. 360 c.p.c., e quindi anche il n. 5, si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalle sentenze contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge: ne deriva che nei confronti delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare possono denunciarsi anche vizi di motivazione, senza peraltro che la deduzione di detti vizi possa essere intesa ad ottenere un riesame delle prove e degli accertamenti di fatto operati dal Consiglio ed un nuovo apprezzamento della loro rilevanza rispetto alle imputazioni (v. sul punto S.D. 2008 n. 6529; 2006 n. 26182).

Nella specie la motivazione adottata sul punto investito dal motivo in esame non è suscettibile di censura, atteso che il Consiglio Nazionale Forense, puntualmente esaminando i rilievi svolti in sede di impugnazione, ha argomentatamente ritenuto che l’avvocato P.G. avesse richiesto il pagamento di competenze relative ad attività da lui mai prestate, osservando altresì che alcune specifiche voci, come quelle relative a compensi per trasferte a Roma per richiesta notificazione o richiesta stato di famiglia erano di tale natura da non giustificare una duplicazione, in quanto concernenti attività eseguibili da un solo professionista, e traendo infine argomento a sostegno della propria valutazione dalla sentenza del Tribunale di Rieti che aveva drasticamente ridotto le note spese di detto avvocato.

Con il quinto motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2233 c.c., e art. 43 del codice deontologico forense, nonchè degli artt. 1362 – 1371 c.c., in relazione all’interpretazione dell’art. 43 dello stesso codice deontologico, omissione, insufficienza e contraddittorietà di motivazione in relazione al capo 3) dell’incolpazione, consistente nell’aver violato l’impegno assunto di richiedere i minimi tariffari, si deduce che la decisione impugnata, incentrando le proprie argomentazioni soltanto sulla figura del cliente, non ha considerato che il rapporto di mandato professionale è connotato dall’intuitus personae in senso bilaterale e che pertanto sia l’accettazione del mandato che la determinazione delle condizioni di pagamento del compenso postulano la valutazione da parte del professionista della figura del mandante. In particolare, non ha rilevato che l’impegno contenuto nella scrittura in data 12 gennaio 1996 che l’importo della parcella sarebbe stato contenuto nel minimo consentito dalle tariffe professionali era stato assunto nella presupposizione della permanenza dell’incarico professionale agli avvocati P. ed alla condizione della irripetibilità dalla controparte della nota spese a tariffa piena. Per contro, la revoca dei mandati, sottraendo a detti legali il potere e la responsabilità del recupero, aveva fatto venir meno la operatività della clausola condizionata. Si aggiunge che la condotta contestata non è riconducibile all’illecito di cui all’art. 43, secondo capoverso, del codice deontologico, atteso che gli onorari esposti nei due ricorsi per decreto ingiuntivo non erano mai stati indicati in misura diversa e che la richiamata scrittura del 12 gennaio 1996 aveva formalizzato espressa riserva di commisurare gli onorari al di sopra dei minimi tariffari.

Si deduce in subordine la falsa applicazione delle regole ermeneutiche dettate dal codice civile in relazione al criterio interpretativo di detta norma sulla base del quale il Consiglio Nazionale Forense ha ritenuto disciplinarmente rilevante la richiesta di compenso maggiore di quello già indicato.

Si denuncia infine contraddittorietà ed insufficienza della motivazione nel disattendere le doglianze degli incolpati.

Il motivo è inammissibile sotto tutti i profili denunciati.

Esso invero in primo luogo non prospetta una questione di interpretazione dell’art. 43 del codice deontologico, nella parte in cui prevede che l’avvocato non può richiedere un compenso maggiore di quello già indicato, in caso di mancato spontaneo pagamento, salvo che ne abbia fatto formale riserva, ma di valutazione del contenuto della missiva con la quale gli avvocati P. si erano impegnati ad applicare i minimi tariffari, con particolare riferimento alle condizioni in detta scrittura previste per l’operatività di detto impegno: sotto tale profilo appare inammissibile, esulando dal controllo di questo giudice di legittimità ogni apprezzamento sul contenuto di quel documento e sulla portata dell’impegno in esso assunto.

Parimenti inammissibile è la doglianza di violazione dei criteri ermeneutici dettati dal codice civile nella interpretazione della richiamata norma del codice deontologico, atteso che secondo la giurisprudenza ormai consolidata di queste Sezioni Unite le norme del codice deontologico nella cui violazione si sostanzia l’illecito disciplinare costituiscono esplicitazioni dei principi generali contenuti nella legge professionale forense ed assumono il rango di norme di diritto, la cui interpretazione costituisce una quaestio iuris come tale prospettabile dinanzi al giudice di legittimità, onde non sono proponibili in relazione ad esse censure di violazione dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 – 1371 c.c., (v. sul punto S.U. 2007 n. 26810; 2004 n. 13078; S.V. 2004 n. 5776).

E’ infine inammissibile, in quanto priva di ogni indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, secondo il disposto dell’art. 366 bis c.p.c., la censura di insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

Con il sesto motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione del codice deontologico forense, art. 9, art. 10, comma 1, e art. 49, e degli artt. 1362 – 1371 c.c., omissione, insufficienza e contraddittorietà di motivazione in relazione al capo 4) dell’incolpazione, si censura la decisione impugnata per aver ritenuto che i due legali avessero indebitamente utilizzato il verbale di assemblea condominiale del 14 marzo 1999 al fine di ottenere la provvisoria esecuzione dei decreti ingiuntivi n. 227 e 228 del 2000 emessi in loro favore dal Tribunale di Rieti, non tenendo conto che detto documento non era stato fornito dalla parte già assistita e che pertanto la sua produzione doveva ritenersi consentita ai sensi del primo comma dell’art. 9 del codice deontologico. Si aggiunge che la decisione impugnata non ha considerato che ai sensi del capoverso V, lett. c) dello stesso art. 9, la divulgazione di informazioni relative alla parte assistita è eccezionalmente consentita al fine di allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato ed assistito, come quella di specie, e che secondo l’art. 49 l’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita. Si denuncia quindi omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione sui tre fatti decisivi e controversi costituiti dalla provenienza da terzi dell’informazione divulgata, dalla acquisizione del documento non in dipendenza dal mandato e dalla necessità difensiva personale del professionista. Si deduce in subordine violazione dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 – 1371 c.c..

Anche tale motivo è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili.

Ed invero la decisione impugnata ha ravvisato nella utilizzazione del verbale di assemblea condominiale dal quale risultava la richiesta di affidamento bancario di L. 100 milioni da parte del Condominio per fini personali, e specificamente allo scopo di dimostrare il pericolo nel ritardo ed ottenere la provvisoria esecuzione dei decreti ingiuntivi emessi in favore degli avvocati P., una violazione dell’art. 10, comma 1 del codice deontologico, ai sensi del quale l’avvocato non deve tener conto di interessi riguardanti la propria sfera personale, ritenendo altresì che tale condotta integrasse anche una violazione del dovere di riservatezza nei confronti degli ex clienti posto dall’art. 9 dello stesso codice e del canone contenuto nell’art. 49, che impone di non gravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte.

La lettura dell’art. 10 fornita dalla decisione richiamata e la sua applicabilità in relazione alla condotta posta in essere dai due avvocati, tale da fornire autonoma ratio decidendi, non sono state specificamente censurate dai ricorrenti, che hanno concentrato le loro pur diffuse doglianze sulla deduzione di violazione, da parte del Consiglio Nazionale Forense, degli artt. 9 e 49 del codice deontologico.

Le residue censure contenute nel motivo sono inammissibili, in quanto volte a prospettare una non consentita rivalutazione delle circostanze di fatto poste a base della affermazione di responsabilità degli incolpati e della rilevanza sul piano disciplinare del fatto contestato.

Sono altresì inammissibili, per le ragioni già esposte, le deduzioni di violazione dei canoni ermeneutici dettati dal codice civile nella interpretazione delle norme deontologiche.

Con il settimo motivo, denunciando omissione, insufficienza o contraddittorietà di motivazione, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7, 8, 35 e 36 del codice deontologico forense, nonchè degli artt. 1362 – 1371 c.c., si deduce, in relazione all’incolpazione di cui al capo 5), l’illegittimità del criterio di valutazione, adottato nella decisione impugnata, della continuazione della attività difensiva dall’avvocato P.F. dopo la revoca del mandato e si sostiene che la motivazione adottata sul punto è radicalmente viziata. Si afferma al riguardo che i fatti che il Consiglio Nazionale Forense ha ritenuto pacifici non erano affatto tali; che la revoca dei mandati era stata effettuata dal nuovo amministratore ***** senza la prescritta delibera dell’assemblea di condominio, la quale era intervenuta solo in data 7 maggio 2000; che il protrarsi della difesa nella causa contro Cingolati era giustificata dalle circostanze puntualizzate dal legale in ordine alla esclusiva responsabilità dell’amministratore per i rinvii richiesti e dalla mancata nomina di nuovi difensori; che la confusione operata tra l’effettivo cliente Condominio ed il suo amministratore ha inciso sulla interpretazione delle condotte e sulle relative valutazioni da parte del Consiglio Nazionale, finendo per rendere illegittima la conferma della incolpazione e della sanzione, con violazione e falsa applicazione delle richiamate norme del codice deontologico.

La inammissibilità del motivo è resa evidente dal rilievo che, nonostante la formale indicazione contenuta nella rubrica (anche) del vizio di violazione di legge, esso tende unicamente a prospettare, a fronte della articolata e logica motivazione della decisione impugnata, una diversa ricostruzione della vicenda ed una diversa valutazione della rilevanza disciplinare della accertata continuazione della attività difensiva dopo la revoca del mandato.

Con l’ottavo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 10 e 36 del codice deontologico forense e degli artt. 1362 – 1371 c.c., omissione, insufficienza o contraddittorietà della motivazione, si deduce, in relazione alla incolpazione di cui al capo 6), l’illegittimità del giudizio di rilevanza disciplinare della ritenuta ingerenza dei due legali negli affari del Condominio. Più specificamente si deduce che è stata omessa la motivazione sulla aggravante del fine di lucro personale e che la confusione tra Condominio ed amministratore nel rapporto clientelare ha stravolto la ricostruzione dei fatti e la relativa valutazione, rendendo illegittima la conferma dell’incolpazione, con violazione dei canoni ermeneutici innanzi richiamati.

Anche tale motivo è inammissibile, per le stesse ragioni indicate con riferimento al precedente motivo, sostanziandosi anch’esso unicamente in una censura di errata valutazione del rilievo disciplinare del comportamento dei due professionisti volto a subordinare la transazione relativa agli onorari alla condizione che riprendessero i rapporti professionali con il Condominio e che si procedesse ad un immediato mutamento della sua gestione.

Con il nono motivo, denunciando omissione, insufficienza o contraddittorietà di motivazione su un punto decisivo, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 51 del codice deontologico forense e degli artt. 1362 – 1371 c.c., si censura la decisione impugnata per aver confermato la responsabilità dell’avvocato P.F. in ordine al capo di incolpazione di cui al 8), consistente nell’aver assunto il patrocinio contro l’ex cliente Condominio in un giudizio comunque ricollegabile al ruolo di precedente legale di fiducia dello stesso. Si sostiene al riguardo che la condotta dell’avvocato non era censurabile per assoluta carenza delle condizioni richieste dalla norma deontologica del mancato decorso di un tempo ragionevole e della non estraneità dell’oggetto dell’incarico rispetto a quello espletato in precedenza: in particolare si deduce che il decorso di quasi due anni doveva ritenersi del tutto ragionevole, che il ricorso al canone complementare dettato dal richiamato art. 51 appare non pertinente e non suscettibile di applicazione analogica ed è comunque immotivato, che la motivazione adottata in ordine alla intensità del rapporto clientelare è meramente apparente, che le ragioni complessivamente addotte a sostegno della decisione sono contraddittorie. Si aggiunge che il nuovo incarico assunto era del tutto estraneo a quello precedente e che da quel contenzioso nessuna notizia poteva trarre l’avvocato P.F. a nocumento del Condominio. Si prospetta ancora la violazione dei canoni ermeneutici dettati dal codice civile nella interpretazione dell’art. 51 del codice deontologico.

Anche tale censura è inammissibile. Premesso che non è in discussione l’applicabilità nella specie, ratione temporis, dell’art. 51 del codice deontologico nel testo in cui consente l’assunzione di un incarico professionale contro un ex cliente quando sia trascorso un ragionevole periodo di tempo e l’oggetto del nuovo incarico sia estraneo a quello espletato in precedenza e non vi sia comunque possibilità di utilizzazione di notizie precedentemente acquisite, disponendo altresì che la ragionevolezza del termine deve essere valutata anche in relazione all’intensità del rapporto clientelare, e che tale disposizione è stata appunto applicata dalla decisione impugnata, le censure sollevate nel motivo in esame attengono unicamente all’apprezzamento operato dal Consiglio Nazionale Forense circa la non congruità del termine decorso dalla cessazione dell’incarico, la non estraneità dell’oggetto del nuovo incarico rispetto a quello precedente, l’intensità del rapporto clientelare, quale elemento funzionale alla valutazione di congruità di detto termine, così risolvendosi chiaramente in doglianze di merito non proponibili in questa sede.

Con il decimo motivo, denunciando omissione, insufficienza o contraddittorietà della motivazione, violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto di cui all’art. 14 del codice deontologico forense e degli artt. 1362 – 1371 c.c., in relazione alla relativa interpretazione, si censura la decisione impugnata per aver ravvisato la responsabilità disciplinare dell’avvocato P.F. in relazione all’incolpazione di cui al capo 9), non prendendo in esame le contestazioni svolte in ordine alle dichiarazioni dallo stesso rese nel patrocinare R.S. nel giudizio contro il Condominio e rendendo una motivazione contraddittoria anche per travisamento dei fatti, oltre che per esplicita perplessità sul fatto e sull’intenzione del dichiarante.

La censura è inammissibile, in quanto anch’ essa si risolve, nonostante il formale richiamo (anche) al vizio di violazione di legge, unicamente in censure di erronea valutazione delle dichiarazioni rese dall’avvocato P.F. al fine di ottenere la provvisoria esecuzione dei decreti ingiuntivi.

Con l’ultimo motivo, denunciando omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione, violazione e falsa applicazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 40, artt. 1362 – 1371 c.c., anche in relazione all’art. 3 del codice deontologico forense, si deduce che nel determinare la sanzione disciplinare la decisione impugnata non ha indicato alcun criterio di valutazione, così da rendere impossibile il controllo dell’iter logico seguito. Si aggiunge che detta sanzione, data pure per ammessa la sussistenza degli illeciti contestati, appare comunque troppo grave e sproporzionata, anche tenuto conto degli orientamenti generalmente espressi dal Consiglio Nazionale Forense nell’esercizio della giurisdizione disciplinare.

La censura è inammissibile. Costituisce invero orientamento consolidato di queste Sezioni Unite che appartiene unicamente agli organi disciplinari l’apprezzamento in ordine al tipo ed alla entità della sanzione da applicare, in relazione alla gravità ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale, e che pertanto la determinazione di detta sanzione non è censurabile in sede di giudizio di legittimità, con conseguente inammissibilità del motivo volto ad ottenere un sindacato sulla scelta operata dal Consiglio Nazionale Forense (v., tra le altre, S.U. 2007 n. 7103; 2006 n. 26182; 2004 n. 13975; 2004 n. 12140; 2004 n. 1229).

Il ricorso deve essere in conclusione rigettato.

Non vi è luogo a pronuncia sulle spese di questo giudizio di cassazione, non avendo svolto la parte intimata attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, a sezioni unite, rigetta il ricorso.

Redazione