Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 26/10/2006 n. 22910; Pres. Carbone V.

Redazione 26/10/06
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 5 febbraio 1996, P.G. proponeva opposizione davanti al Tribunale di Foggia avverso lo stato passivo del fallimento della Winners’s Sporting Footwear s.p.a., dal quale era stato escluso il suo credito di lavoro (L. 286.755.831, oltre accessori), insinuato in via privilegiata a titolo di indennità di mancato preavviso, t.f.r., ferie non godute, trasferte, patto di non concorrenza, retribuzione per prestazioni in giornate festive, canoni di locazione, e rimborso spese. Sosteneva a fondamento della sua pretesa che aveva svolto di fatto attività lavorativa in qualità di direttore marketing in favore della s.p.a.

Master Sport, facente parte del medesimo gruppo della Winners’s Sporting, pur essa fallita, dalla quale era stato formalmente assunto e che l’aveva periodicamente retribuito, a seguito di accordi intervenuti tra gli amministratori delle due società sicchè, configurandosi come unico il centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, anche la Winners’s doveva rispondere del credito di lavoro di esso istante.

Dopo la costituzione della società convenuta che deduceva tra l’altro l’infondatezza della domanda attrice per avere il P. reso le sue prestazioni solo in favore della Master Sport, cui aveva rassegnato le dimissioni – e per non essere la sola apertura di una posizione assicurativa indice della costituzione del rapporto di lavoro con la Winners’s, e dopo che nel corso del giudizio il suddetto P. aveva ridotto la sua pretesa per avere ottenuto, a seguito di transazione, il pagamento di parte del suo credito dal fallimento della Winners’s Sporting – il Tribunale adito rigettava l’opposizione e condannava il P. al pagamento delle spese del giudizio.

A seguito di gravame del P., la Corte d’Appello di Bari con sentenza del 21 ottobre 2001 rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spese, del grado a favore del fallimento della Winners’s Sporting. Nel pervenire a tale conclusione la Corte Territoriale osservava che – contrariamente a quanto sostenuto dal P. – il disposto della L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1, occupandosi delle prestazioni di lavoro rese in violazione del divieto di intermediazione di manodopera sanciva, con il suo tenore letterale, il principio che in detta fattispecie il lavoratore deve considerarsi "a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato" le sue prestazioni. Nel ritenere privo di qualsiasi rilievo il riferimento che, a sostegno della sua richiesta, il P. aveva fatto alla suddetta L. n. 1369 del 1960, art. 3, la Corte Territoriale precisava poi che detta norma ha un ambito applicativo differente da quello proprio dell’art. 1, in quanto quel che rileva ai fini della operatività delle due disposizioni è la natura delle prestazioni appaltate perchè nel caso in cui esse siano riconducibili a mere prestazioni di lavoro si ha "l’inserimento del prestatore nella struttura organizzativa dell’azienda appaltante (ipotesi prevista dall’art. 1 della citata Legge)", nel caso invece in cui le prestazioni appaltate riguardano altri fattori produttivi (capitali, macchine ed attrezzature) permane "l’inserimento del prestatore nella struttura organizzativa dell’azienda appaltatrice" (ipotesi che di norma implica l’obbligo solidale di appaltante ed appaltatore di assicurare i trattamenti minimi retributivi e normativi praticati ai dipendenti del primo ai sensi della L. n. 1369 del 1960, artt. 3 e 5). Nel caso in esame non risultava che la prestazione oggetto di appalto tra le due società fosse andata al di là della sola prestazione lavorativa del P. sicchè l’unica società obbligata al pagamento delle spettanze rivendicate dal lavoratore doveva ritenersi la Master Sport. Avverso la suddetta decisione P. G. propone ricorso per Cassazione, affidato ad un unico articolato motivo.

Resiste con controricorso il fallimento della società Winners’s Sporting Footwear.

Ambedue le parti hanno depositato memorie difensive ex art. 378 c.p.c..

A seguito di ordinanza del 5 dicembre 2005 della Sezione lavoro, che ha rilevato come sulla questione posta dal ricorso le decisioni di questa Corte presentino un panorama non omogeneo, la controversia è stata assegnata, alla stregua dell’art. 142 disp. att. c.p.c., alle Sezioni Unite.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il ricorso la società Winners’s Sporting deduce violazione e falsa applicazione della L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Più precisamente la società ricorrente addebita alla impugnata sentenza di avere interpretato la suddetta norma sulla base del solo dato letterale senza tenere così conto che essa – nulla dicendo in ordine alla responsabilità dell’appaltatore o interposto – presenta una lacuna colmabile con una corretta opzione ermeneutica che guardando, invece, alla disposizione nel suo complesso deve condurre a ritenere l’interposto non esonerato dagli obblighi conseguenti al rapporto di lavoro. In altri termini la nullità del rapporto di intermediazione o di interposizione nelle prestazioni lavorative non comporta la liberazione dell’appaltatore o dell’interposto dagli obblighi nati dal rapporto di lavoro perchè la responsabilità di tali soggetti, che sono pur sempre i titolari del rapporto di lavoro, permane e concorre in via autonoma con quella dell’imprenditore che ha effettivamente utilizzato dette prestazioni.

1.1. Come è stato ricordato la presente controversia è stata rimessa a queste Sezioni Unite per dirimere un contrasto giurisprudenziale sorto sull’interpretazione della L. n. 1369 del 1960, art. 1, che ha regolato – sino alla sua abrogazione ad opera dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 85, comma 1, lettera c) – il divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, che originariamente previsto ex art. 2127 c.c., soltanto per i lavori a cottimo, è stato poi esteso dalla norma ora scrutinata ad ogni attività di lavoro subordinato.

2. Ed invero, un primo indirizzo giurisprudenziale ha ritenuto che in capo all’interposto, ed in concorso con l’interponente, permangono gli obblighi derivanti dal rapporto lavorativo o correlati allo stesso.

Si è in alcune decisioni affermato che i lavoratori, se pure sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze di chi ne abbia utilizzato le prestazioni, possono comunque richiedere l’adempimento di alcuni obblighi, come il versamento dei contributi previdenziali, al datore di lavoro interposto (cfr. tra le altre: Cass. 5 aprile 2004 n. 6649; Cass. 24 marzo 2004 n. 6144; Cass. 3 marzo 2001 n. 3096; Cass. 3 febbraio 1993 n. 1355), evidenziandosi nell’ambito di tale indirizzo: che si configura tra il committente ed il datore di lavoro interposto una obbligazione solidale per il pagamento delle retribuzioni (cfr. in tali sensi: Cass. 27 marzo 2004 n. 6144 cit., secondo cui dal credito retributivo azionato nei confronti del datore di lavoro interposto deve essere detratto comunque quanto percepito dall’interponente datore di lavoro); che in ogni caso il datore di lavoro interposto non può essere sottratto alla responsabilità "retributiva" dei lavoratori da lui formalmente dipendenti sicchè questi ultimi, in caso di fallimento del datore di lavoro apparente, ben possono esigere dal fondo di garanzia il pagamento del t.f.r. secondo modalità e termini di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2 (cfr. Cass. 3 marzo 2001 n. 3096 cit.); che l’essere per legge i lavoratori considerati a tutti gli effetti alle dipendenze di chi ha utilizzato le sue prestazioni non vale a liberare l’appaltatore o l’interposto dagli obblighi (anche in materia di assicurazioni sociali) nati dal rapporto di lavoro, perchè essi rimangono sempre titolari di detto rapporto in virtù dell’apparenza del diritto e dell’affidamento dei terzi in buona fede (Cass. 3 febbraio 1993 n. 1355 cit., cui adde Cass. 30 marzo 1987 n. 3066, Cass. 23 gennaio 1987 n. 659, Cass. 18 febbraio 1982 n. 1041, che ribadiscono anche esse come la responsabilità dell’appaltatore o dell’interposto permanga e concorra in via autonoma con quella dell’imprenditore che ha utilizzato le prestazioni del lavoratore).

2.1. Un siffatto iter argomentativo ha trovato conforto, come ha ricordato puntualmente la società ricorrente, anche in ampi settori dottrina. Si è sostenuto,infatti, che dall’esame complessivo della L. n. 1369 del 1960, emergono indicazioni univoche per addossare anche all’interposto gli obblighi scaturenti dal rapporto di lavoro perchè risulterebbe privo di coerenza logica ritenere che il legislatore, mentre in sede penale punisce insieme all’interponente anche l’interposto, lasci poi quest’ultimo indenne in sede civile svincolandolo dalla obbligazioni nei confronti dei lavoratori. Sotto, altro versante si è patrocinata la tesi volta ad applicare analogicamente la responsabilità solidale dell’appaltante e dell’appaltatore di opere e di servizi da eseguire all’interno delle aziende ai sensi della L. n. 1369 del 1060, art. 3; e si è, infine, rimarcato come l’interposto risulti obbligato in base ad un meccanismo di novazione oggettiva legale, che trasforma l’obbligazione originaria del suddetto interposto in una obbligazione di garanzia in ragione dello sfavore con il quale è stata vista l’attività contrattuale volta al perseguimento di un obiettivo dannoso per il lavoratore.

3. Altro indirizzo giurisprudenziale è pervenuto all’opposta conclusione – condivisa nella impugnata sentenza – secondo cui gli obblighi retributivi per le prestazioni rese dal lavoratore fanno carico unicamente sul datore di lavoro che dette prestazioni ha utilizzato, così come dettato in maniera chiara dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1, u.c., sicchè deve escludersi una concorrente responsabilità dell’appaltatore o dell’interposto. Nell’ambito di tale indirizzo formatosi prevalentemente con riguardo agli obblighi di natura non retributiva perchè scaturenti dalla disciplina delle assicurazioni sociali – sulla premessa della nullità del contratto del committente e appaltatore (per illegittimità dell’oggetto e della causa) e sulla base della instaurazione "ex lege" di un rapporto diretto fra lavoratori ed imprenditori che ne utilizzano le prestazioni si è messo in rilievo che la titolarità del rapporto lavorativo fa capo all’utilizzatore e che l’esclusività di tale titolarità non subisce limitazione alcuna per effetto dei principi dell’apparenza e dell’affidamento (cfr. in tali sensi: Cass. 14 giugno 1999 n. 5901 nonchè Cass. 16 febbraio 2000 n. 1733 che – in applicazione degli stessi principi – in una fattispecie relativa a prestazioni previdenziali ha escluso la necessità di estendere il contraddittorio all’appaltatore o al soggetto interposto). Ed in senso conforme, utilizzando cioè sempre la lettera della legge – e precisamente il disposto della L. n. 1369 del 1960, art. 1, dei primi tre commi (comportante la nullità del contratto tra committente ed appaltatore o intermediario), e dell’ultimo comma della stessa norma (secondo cui "I prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni") – si è statuito che esclusivamente sull’appaltante (o interponente), e non anche sull’appaltatore (o interposto), gravano gli obblighi in materia di assicurazioni sociali nati dal rapporto di lavoro senza che possa configurarsi una concorrente responsabilità di quest’ultimo (così: Cass. 18 agosto 2004 n. 16160; Cass. 14 giugno 1999 n. 5901 cit.; ed ancora Cass. 21 gennaio 2004 n. 970, che ha però precisato come il principio enunciato non operi in relazione all’azione di rivalsa proposta dall’INAIL nei confronti dell’appaltatore del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, ex art. 11).

4. Oltre alla lettera della legge numerose ulteriori ragioni di ordine logico-sistematico, inducono a condividere questo secondo indirizzo.

A tale riguardo va in primo luogo rimarcato come tale conclusione sia confortata dal chiaro tenore della più volte ricordata disposizione di cui alla L. n. 1369 del 1960, art. 1, u.c., che mostra in maniera chiara come il legislatore abbia nella fattispecie ora scrutinata inteso seguire quella vasta corrente dottrinale e giurisprudenziale volta a svalutare la funzione del contratto individuale di lavoro e la formale conclusione, dello stesso – quale fonte regolatrice del rapporto di lavoro – devolvendo in buona misura la disciplina dello stesso a fonti extranegoziali ed alla legge sino a pervenire alla conseguenza di individuare l’effettivo datore di lavoro attraverso una sostituzione di quello indicato dalle parti – mediante la manifestazione della loro volontà contrattuale – con quello che in concreto si giova dell’opera del prestatore. In altri termini, come si è puntualmente evidenziato, al fine di evitare ai danni del lavoratore un trattamento (sia sotto il versante economico che sotto quello normativo) ingiusto perchè non corrispondente alle prestazioni rese e non parametrato sulla reale inserzione delle sue prestazioni nell’organizzazione produttiva dell’impresa, il legislatore si è attenuto al principio secondo cui il vero datore di lavoro è quello che effettivamente utilizza le prestazioni lavorative anche se i lavoratori sono stati formalmente assunti da un altro(datore apparente) e prescindendosi da ogni indagine (che tra l’altro risulterebbe particolarmente difficoltosa) sull’esistenza di accordi fraudolenti(tra interponente ed interposto).

4.1. E proprio su tali presupposti ed a seguito di analogo approccio teorico con la problematica in esame la giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha già avuto occasione di statuire, seppure in controversie attinenti a problematiche di natura processuale, che il divieto della L. n. 1369 del 1960, ex art. 1 – volto ad evitare che la dissociazione fra l’autore dell’assunzione e l’effettivo beneficiario delle prestazioni lavorative si risolva in un ostacolo al diritto del lavoratore di pretendere il più vantaggioso trattamento che gli sarebbe spettato se assunto direttamente da tale beneficiario – opera oggettivamente prescindendo da un intento fraudolento o simulatorio delle parti e senza che l’incidenza del divieto stesso sia limitata al momento genetico del rapporto, ossia all’ipotesi in cui l’assunzione dei lavoratori da parte del datore di lavoro interposto coincida con l’inizio dell’esecuzione delle prestazioni lavorative a favore dell’effettivo beneficiario delle medesime (cfr. in tali sensi Cass., Sez. Un., 21 marzo 1997 n. 2517, che precisa altresì come il suddetto divieto operi anche in un momento successivo alla costituzione del rapporto ove il lavoratore distaccato presso altra impresa non renda più le proprie prestazioni al datore di lavoro distaccante ma si ponga al servizio esclusivo dell’imprenditore di destinazione, pur continuando ad apparire alle dipendenze del primo, che assume così la figura dell’interposto dalla L. n. 1369 del 1960, ex art. 1; ed in precedenza negli identici termini: Cass. 9 agosto 1991 n. 8706).

Al riguardo va ribadito, dando maggiore compiutezza argomentativa a quanto ora detto, che l’indirizzo volto a reputare il beneficiario delle prestazioni lavorative come l’unico tenuto ai sensi della L. n. 1369 del 1960, art. 1, non solo all’adempimento degli obblighi connessi al trattamento economico e normativo spettante al lavoratore ma anche alla corresponsione dei contributi previdenziali, si pone in continuità logico-giuridico, oltre che con la già ricordata decisione, anche con un precedente sentenza con la quale le stesse Sezioni Unite nel negare la configurabilità di un litisconsorzio necessario nel processo di accertamento dell’interposizione vietata – e di condanna del vero datore di lavoro a soddisfare i crediti del lavoratore – hanno escluso che nella fattispecie di interposizione di manodopera sia ravvisabile quell’unica "situazione giuridica complessa" richiesta ex art. 102 c.p.c.. Hanno osservato sul punto i giudici di legittimità che la "struttura del rapporto di lavoro subordinato, quale risulta dalla normativa sostanziale (art. 2094 c.c.) è bilaterale e non plurilaterale" ed hanno poi sottolineato che "il lavoratore che, agendo in giudizio, afferma l’esistenza di un rapporto con un certo datore di lavoro e ne nega uno diverso con altra persona, non deduce in giudizio alcun rapporto plurisoggettivo nè alcuna situazione di contitolarità ma tende ad una utilità (il petitum) ottenibile rivolgendosi ad una sola persona, ossia al datore vero" mentre "l’accertamento negativo del rapporto fittizio con il datore di lavoro interposto – rapporto che per lo più è frutto di accordo simulatorio con il datore di lavoro interposto – costituisce oggetto di questione pregiudiziale, conosciuta dal Giudice in via soltanto incidentale, ovvero senza vincolare il terzo attraverso la cosa giudicata, ovvero, ancora, senza alcuna lesione del suo diritto di difesa (cfr. in questi testuali termini in motivazione: Cass., Sez. Un., 22 ottobre 2002 n. 14897).

5. E’ stato osservato da più parti che, nonostante la già ricordata abrogazione della L. n. 1369 del 1960, art. 1, il dibattito sorto intorno alla intermediazione di manodopera – stante la presenza di valori permanenti di stampo costituzionale diretti a collegare al rapporto di lavoro subordinato e solo ad esso una serie di posizioni di vantaggio – è destinato a spostarsi in giurisprudenza anche all’interno del nuovo quadro normativo delineato dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, con riferimento in particolare alla "somministrazione irregolare", ipotesi prevista dall’art. 27, comma 1, di detto Decreto (secondo cui il lavoratore può "chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’art. 414 cod. proc. civ., notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione").

Tale considerazione oltre a confortare le ragioni già svolte sollecita l’esternazione di ulteriori motivi, che spingono – in linea con quanto queste Sezioni Unite hanno già statuito sul versante processuale – a ribadire anche su quello sostanziale come nella interposizione di mano d’opera il beneficiario delle prestazioni lavorative sia l’unico soggetto tenuto all’adempimento di tutte le prestazioni che nel rapporto fanno carico sul datore di lavoro, incluso il versamento dei contributi previdenziali, salvo sempre la possibilità, nel caso che il prestatore subisca un deterioramento della propria posizione, di agire nei riguardi dell’interponente con una autonoma azione, che in presenza di una condotta produttiva di danni per il lavoratore, trova fondamento in una ipotesi di responsabilità extra-contrattuale ex art. 2043 c.c..

5.1. In particolare devono reputarsi non condivisibili le diverse ragioni addotte per affermare che il disposto dell’art. 1 cit., contempli una responsabilità solidale – per il pagamento delle retribuzioni del lavoratore – tra il committente ed il datore di lavoro interposto. Ed infatti, non vale parlare al riguardo di novazione oggettiva legale in obbligazione di garanzia dell’obbligazione assunta dall’interposto nei confronti dei suoi prestatori di lavoro in quanto questa opinione finisce, nell’assoluto silenzio del legislatore, per utilizzare impropriamente un istituto caratterizzantesi non solo per la diversità della nuova obbligazione (aliquid novi) ma anche per la volontà delle parti di estinguere la precedente obbligazione e sostituirla con una nuova (animus novandi);

volontà che deve risultare invece "in modo non equivoco" (art. 1230, c.c., comma 2) sì da non potere essere desunta in base alle regole dell’interpretazione oggettiva, dovendo invece risultare sicura in applicazione dei criteri di interpretazione soggettiva.

5.2. Nè sotto altro versante, anche al fine di legittimare un obbligo oltre che dell’interponente anche sull’interposto in materia di corresponsione dei contributi previdenziali, può invocarsi il principio dell’apparenza come pure in alcuni decisioni è stato sostenuto (cfr. al riguardo: Cass. 3 marzo 2001 n. 3096; Cass. 9 ottobre 1995 n. 10556; Cass. 3 febbraio 1993 n. 1355; Cass. 4 febbraio 1987 n. 1080). A tal proposito, sul piano generale va ricordato come la teoria dell’apparenza non assurga a principio capace di sovrastare le singole figure legislativamente e esaurientemente disciplinate allorquando la normativa legale è funzionalizzata alla tutela di interessi meritevoli di una efficace tutela in ragione della loro rilevanza a livello costituzionale; ed inoltre, per quanto attiene all’individuazione dell’obbligato al versamento dei contributi, il principio in esame non risulta utilizzabile nell’ambito delle obbligazioni pubbliche, intese alla soddisfazione di interessi anzitutto di rilevanza sociale e nelle quali è parte una Pubblica Amministrazione, ed anche perchè il suddetto principio per tradursi in una tutela dell’affidamento incolpevole non appare invocabile con riferimento agli enti previdenziali in quanto la necessità su di essi incombente di corrispondere in ogni caso le prestazioni ai lavoratori induce il legislatore ad attribuire ad essi mezzi speciali per la realizzazione dei propri crediti, ivi compreso l’ausilio degli ispettori del lavoro, che vigilano sull’esecuzione delle leggi in materia, rilevano l’organizzazione del lavoro nelle singole imprese e le rimunerazioni, esercitando poteri di polizia giudiziaria, (così in motivazione:

Cass. 14 giugno 1999 n. 5901 cit., secondo cui tutto ciò assicura che i rapporti tra le parti nascano, nei loro elementi oggettivi e soggettivi, secondo le previsioni normative e le corrispondenti realtà di fatto, sulle quali non possono prevalere le parvenze).

6. Per concludere sul punto non è, infine, consentito fondare la responsabilità dell’interposto sulla cessione del contratto (art. 1406 c.c.), sul presupposto di analogie in realtà non ravvisabili tra detto contratto e la fattispecie regolata dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1, in quanto, a fronte della natura di negozio trilatero della cessione, la intermediazione prescinde dalla partecipazione del lavoratore al contratto tra interposto (o appaltatore) e interponente (o committente), al quale rimane anzi sovente del tutto estraneo sino a subire talvolta notevoli pregiudizi; nè tanto meno un ampliamento dei soggetti responsabili è praticabile attraverso un richiamo alla responsabilità solidale prevista nella L. n. 1369 del 1960, art. 3, stante la netta e radicale differenziazione tra i due istituti messi a confronto in quanto a differenza dell’ipotesi di interposizione di manodopera rientrante nel divieto di cui alla L. n. 1369 del 1960, art. 1, la disciplina posta per i contratti di appalto dall’art. 3 della Legge stessa è applicabile in relazione ad attività che l’appaltatore debba svolgere all’interno dello stabilimento o degli stabilimenti in cui ha sede l’attività produttiva dell’appaltante (cfr. ex plurimis: Cass. 27 agosto 2003 n. 12546, che sul presupposto della differenza dell’ambito applicativo delle disposizioni di cui alla L. n. 1369 del 1960, artt. 1 e 3, ha escluso che la domanda relativa all’accertamento della violazione del divieto di interposizione di manodopera possa ritenersi compresa in quella di riconoscimento della responsabilità solidale di cui all’art. 3 suddetto; ed ancora: Cass. 23 aprile 1999 n. 4046; Cass. 26 giugno 1998 n. 6347).

7. A ben vedere la dissoluzione delle combinazioni negoziali poste in essere, come si è visto, attraverso l’intermediazione vietata e la sostituzione dell’imprenditore beneficiario all’intermediario – non è che concreta espressione nella materia in oggetto della generale regola giuslavoristica secondo la quale in relazione ad identiche – anche per quanto attiene ai periodi temporali – prestazioni lavorative deve essere esclusa la configurabilità di due diversi datori di lavoro dovendosi considerarsi come parte datoriale solo colui su cui in concreto fa carico il rischio economico dell’impresa nonchè l’organizzazione produttiva nella quale è di fatto inserito con carattere di subordinazione il lavoratore, e l’interesse soddisfatto in concreto dalle prestazioni di quest’ultimo, con la conseguenza che chi utilizza dette prestazioni deve adempiere tutte le obbligazioni a qualsiasi titolo nascenti dal rapporto di lavoro.

7.1. Per andare in contrario avviso non può sostenersi neanche che l’indicato principio di carattere generale ha perduto consistenza giuridica a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 267 del 2003. Detta disciplina – in un prospettiva di rinnovata rimodulazione delle relazioni industriali e del mercato del lavoro da perseguirsi anche mediante un accrescimento delle tipologie negoziali ha invero espressamente riconosciuto con la somministrazione del lavoro (art. 20 D.Lgs. cit.) – ed in certa misura anche con il distacco (art. 30 D.Lgs. cit.) – una dissociazione fra titolare e utilizzatore del rapporto lavorativo con una consequenziale disarticolazione e regolamentazione tra i due degli obblighi correlati alla prestazione lavorativa (cfr. al riguardo tra le altre norme del cit. D.Lgs. n. 267, artt. 21 e 26). La indicata disciplina, pur presentandosi come una innovazione – seppure rilevante per le implicazioni di carattere teorico sulla sistemazione dogmatica del rapporto lavorativo – si configura anche nell’attuale assetto normativo come una eccezione, non suscettibile nè di applicazione analogica nè di interpretazione estensiva, sicchè allorquando si fuoriesca dai rigidi schemi voluti del legislatore per la suddetta disarticolazione si finisce per rientrare in forme illecite di somministrazione di lavoro come avviene in ipotesi di "somministrazione irregolare" ex art. 27 cit., o di comando disposto in violazione di tutto quanto prescritto dall’art. 30 cit.; fattispecie che, giusta quanto sostenuto in dottrina, continuano ad essere assoggettate a quei principi enunciati in giurisprudenza in tema di divieto di intermediazione di manodopera.

8. All’esito dell’esposto procedimento motivazionale può dunque fissarsi il seguente principio di diritto: "Nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono alla L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1, i primi tre commi (divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego della mano d’opera negli appalti di opere e di servizi) la nullità del contratto fra committente ed appaltatore (o intermediario) e la previsione dell’ultimo comma dello stesso articolo – secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni – comportano che solo sull’appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro nonchè gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell’appaltatore (o interposto) in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro stante la specificità dei suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi". 9. Il ricorso va pertanto rigettato perchè la sentenza impugnata, per essere pervenuta ad una soluzione in linea con le statuizioni sopra enunciate e per essere sorretta da una motivazione adeguata e priva di salti logici, non merita le censure che le sono state mosse.

9. Ricorrono giusti motivi – tenuto conto della natura della controversia e delle numerose questioni trattate – per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Redazione