Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 24/9/2010 n. 20160

Redazione 24/09/10
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Svolgimento del processo
1. – Con decisione in data 16 ottobre 2007, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma irrogò la sanzione della censura all’esito di un procedimento disciplinare promosso nei confronti dell’avv. M.L. per violazione dell’art. 5 del Codice deontologico forense, per essersi rivolto alla collega G.C. all’interno della cancelleria del Tribunale del riesame profferendo espressioni – che avevano provocato reazioni indignate tra i presenti – ritenute contrastanti con i doveri di probità e decoro richiesti all’avvocato non solo nell’esercizio della sua professione, ma anche per fatti che non riguardino strettamente l’attività forense ma che comunque si riverberino sulla sua reputazione, compromettendo l’immagine della classe forense.

L’avv. M.L. propose ricorso avverso detta decisione, sostenendo, per un verso, che, in assenza di una disposizione specifica, la eventuale violazione di norme di generica opportunità, in cui si sarebbe sostanziata la pronuncia della frase contestata ("Scusa collega ti dovrei togliere quel coso che ti ho lasciato prima in mezzo alle gambe"), non potrebbe comportare la violazione della norma deontologica evocata; per l’altro, che il Consiglio dell’Ordine avrebbe omesso di valutare le circostanze nelle quali si era svolto l’episodio, la occasionalità ed estemporaneità dello stesso, il riferimento che egli aveva inteso fare, nel profferire la frase riportata (che, asseriva il ricorrente, non corrispondeva esattamente a quella da lui effettivamente pronunciata, del seguente tenore: "dovrei toglierti qualcosa che hai tra le gambe"), alla borsa da lui deposta in cancelleria. Tali circostanze, che, ad avviso del professionista, escludevano la configurabilità, nelle espressioni da lui usate, di ogni aspetto di molestia nei confronti della collega, inducevano a ritenere la vicenda irrilevante sul piano deontologico. Nè le argomentazioni svolte nella decisione erano, secondo il incorrente, idonee a suffragare la contestata lesione della dignità e del decoro professionale.

2. – Con decisione depositata in data 27 novembre 2009, il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso. Premesso che il fatto storico era di per sè pacifico e sostanzialmente confermato dall’incolpato, il C.N.F. ha ribadito il giudizio di indecorosità del comportamento di costui, per essere le espressioni in questione oggettivamente licenziose e profferite in un contesto pubblico: donde la conferma dell’avvenuta violazione dell’art. 5 del Codice deontologico forense.

3. – Per la cassazione di tale decisione ricorre l’avv. M. sulla base di un unico, articolato motivo.

Motivi della decisione
1. – Nel ricorso si lamenta violazione di legge per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. La decisione del C.N.F. avrebbe ricostruito in modo inesatto la vicenda che aveva dato luogo al procedimento disciplinare a carico del ricorrente, il quale si sarebbe, in realtà, rivolto alla collega al solo scopo di togliere la propria borsa, che costei aveva tra le gambe, come dimostrerebbe la circostanza, ammessa dalla stessa, che dopo la frase in contestazione egli si sarebbe chinato a riprendere la borsa. Nè la pronuncia di detta frase avrebbe provocato alcuna reazione indignata da parte dei presenti, come confermato dalla deposizione di altro collega. In definitiva, secondo il ricorrente, non sarebbe stata profferita alcuna espressione offensiva o lesiva della dignità della collega e di rilievo disciplinare: tutt’al più, sarebbe stata riscontrabile nell’episodio in questione una certa improprietà di linguaggio.

La illustrazione del motivo di ricorso si conclude con la enunciazione di un duplice quesito di diritto del seguente tenore: "Dica la Corte Suprema se la sentenza del C.N.F. motivando con una errata esposizione della vicenda G. nella sezione Fatto, sostenendo che il fatto storico di per sè è pacifico mentre ne descrive il contenuto in modo difforme dai verbali del C.O.A.R., e sostenendo di un pugno avuto dal M. nella vicenda – quindi allontanandosi dalle stesse dichiarazioni a verbale C.O.A.R. di G., I. e M. – svolga, in violazione di legge, una motivazione contraddittoria ed erronea (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5)"; "Premesso che la sentenza del C.N.F. espone: è fuor di dubbio che l’episodio di cui è stato protagonista l’avv. M. non può sottrarsi ad un giudizio di indecorosità in quanto le espressioni (termine utilizzato al plurale, per la vicenda G.) da lui usate verso una collega sono oggettivamente ed impudicamente licenziose oltre ogni limite di buona educazione stravolgendo il fatto realmente avvenuto ed accertato dai verbali di interrogatorio del Consiglio dell’Ordine consistito nella richiesta del M. di consentire di riprendersi la propria borsa a chi arbitrariamente – sia pure forse in buona fede, forse senza accorgersi – la tratteneva, e premesso che detta motivazione di sentenza determina un travisamento del fatto, il ricorrente chiede alla Suprema Corte se detta motivazione del CNF sulla frase o vicenda incriminata attribuendo appellativi plurali e incoerenti rispetto alla espressione? (o frase) accertata (al singolare), espressione causalmente collegata alla propria borsa illegittimamente trattenuta, rappresenti una ipotesi di motivazione errata e contraddittoria". 2.1. – La censura non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità. 2.2. – Al riguardo, sotto un primo profilo, deve rilevarsi che il ricorrente chiede sostanzialmente a questa Corte di sottoporre a revisione critica la ricostruzione fattuale che della vicenda che ha dato luogo al procedimento disciplinare a suo carico ha operato il C.N.F. Ebbene, in subiecta materia, per consolidata giurisprudenza di legittimità (v., ex plurimis, Cass. S.U. sentt. n. 7103 del 2007, n. 10046 del 1996), è insuscettibile di ulteriore valutazione l’accertamento compiuto dal giudice disciplinare in ordine alla materialità dei fatti contestati all’incolpato, essendo precluso alla Corte di Cassazione il riesame dei fatti e delle risultanze istruttorie, la cui valutazione spetta esclusivamente all’organo giudicante disciplinare. Quest’ultimo ha solo l’obbligo di fornire una motivazione adeguata ed esente da vizi logici e giuridici: obbligo che risulta, nella specie, correttamente adempiuto, avuto riguardo alla congrua esplicitazione delle ragioni del proprio convincimento in ordine alla responsabilità disciplinare dell’avv. M. da parte del CNF, che ha con dovizia di dettagli ricostruito l’episodio di cui si tratta, facendosi ampiamente carico anche delle tesi difensive del professionista.

2.3. – Sotto un secondo aspetto, la doglianza, che, al di là del generico riferimento al vizio di violazione di legge, sostanzialmente si esaurisce nella denuncia di preteso vizio di motivazione circa la concreta individuazione della ipotesi costituente illecito disciplinare, costituisce censura in fatto, inammissibile in questa sede.

In materia di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, con riguardo alla concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare, il controllo di legittimità non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi al Consiglio Nazionale Forense nella enunciazione di ipotesi di illiceità nell’ambito della regola generale di riferimento, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, atteso che l’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alle incolpazioni appartiene alla esclusiva competenza dell’organo disciplinare. Il quale, nella specie, ha esposto una congrua e non illogica motivazione circa la responsabilità del professionista per il suo comportamento ritenuto, in virtù della natura delle espressioni usate Giudicate "impudicamente licenziose oltre ogni limite di buona educazione" -, del contesto pubblico dell’episodio e della qualità di avvocato del M., lesivo della immagine della classe forense.

3. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.
La forte rigetta il ricorso.

Redazione