Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 23/12/2008 n. 30054; Pres. Carbone V.

Redazione 23/12/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. T.R. con citazione 27/30 luglio 1990 convenne dinanzi al tribunale di Treviso V.A. e la Tirrena Assicurazioni s.p.a., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in seguito ad un incidente stradale avvenuto in data 24 dicembre 1988. I convenuti si costituivano chiedendo il rigetto della domanda.

Essendo stata la Tirrena Assicurazioni posta il liquidazione coatta amministrativa il processo veniva riassunto nei confronti di questa in persona del Commissario liquidatore, del Fondo di garanzia per le vittime della strada e della designata compagnia Assicurazioni Generali s.p.a. Su richiesta dell’attore il G.I., in data 16 aprile 1997, pronunciava ordinanza ex art. 186 quater c.p.c., condannando V.A. e il Fondo di garanzia per le vittime della strada al pagamento di L. 165.565.000, oltre accessori.

Avverso tale sentenza proponeva appello, previa dichiarazione di rinuncia alla sentenza, il Commissario liquidatore della Tirrena Assicurazioni s.p.a.. Gli appellati T. e V. proponevano appelli incidentali. La Corte di appello di Venezia, con sentenza depositata il 15 dicembre 2003, dichiarava inammissibile l’appello principale perchè tardivo, in quanto proposto dopo la scadenza del termine di cui all’art. 325 c.p.c., decorrente dal deposito in cancelleria della notifica della rinuncia alla sentenza, ai sensi dell’art. 186 quater c.p.c., ed inefficaci gli appelli incidentali.

Avverso tale sentenza la Compagnia Tirrena Assicurazione s.p.a. in liquidazione ha proposto ricorso a questa Corte, con atto notificato al T. ed al V. in data 27 maggio 2004. Le parti intimate non hanno depositato difese. La causa, assegnata alla terza sezione, con ordinanza 31 marzo 2008 è stata rimessa al Presidente della Corte per eventuale rimessione alle sezioni unite, rilevandosi l’esistenza di un contrasto all’interno della Corte sulla questione attinente alla decorrenza dei termini d’impugnazione dell’ordinanza ex art. 184 quater c.p.c., nel testo, applicabile "ratione temporis", alla fattispecie, in vigore prima delle modifiche introdotte dalla L. n. 263 del 2005. Il Presidente ha rimesso la causa alle sezioni unite.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 Con il ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 186 quater c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 263 del 2005, nonchè degli artt. 325, 326 e 327 c.p.c.. Si deduce al riguardo che erroneamente la sentenza impugnata ha dichiarato inammissibile l’appello affermando che il termine per proporre impugnazione, in caso di rinuncia alla sentenza, ai sensi dell’art. 186 quater, ultimo comma, c.p.c, per l’intimato che abbia notificato alla controparte la rinuncia alla sentenza non è quello annuale, ma è quello breve, di trenta giorni e decorre dal deposito della rinuncia notificata in cancelleria.

2 Il ricorso, assegnato alla terza sezione civile, a seguito di ordinanza interlocutoria di quella sezione è stato assegnato alle sezioni unite per risolvere il contrasto – involgente il motivo di ricorso – insorto all’interno di questa Corte relativamente alla decorrenza del termine breve per l’impugnazione dell’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 263 del 2005, nell’ipotesi di rinuncia, da parte dell’intimato, alla pronuncia della sentenza, con riferimento alla disciplina originaria contenuta nel quarto comma di detto articolo, applicabile "ratione temporis" alla fattispecie oggetto del ricorso.

3 Al riguardo va premesso che l’art. 186 quater c.p.c., – introdotto dalla D.L. 18 ottobre 1995, n. 423, art. 7, conv. con mod. dalla L. 20 dicembre 1995, n. 534 – ha aggiunto un nuovo provvedimento anticipatorio della sentenza finale rispetto a quelli già inseriti nel c.p.c., dalla novella del 1990, disponendo (al comma 1) che il giudice istruttore, esaurita l’istruttoria "su istanza della parte che ha proposto la domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con ordinanza il pagamento ovvero la consegna o il rilascio, nei limiti per cui ritiene raggiunta la prova". Tale ordinanza (secondo comma) è titolo esecutivo, è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio ma (terzo comma), se dopo la pronuncia dell’ordinanza il processo si estingue, acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza. L’ultimo comma dell’articolo (secondo il testo originario) prevedeva: "La parte intimata può dichiarare di rinunciare alla pronuncia della sentenza con atto notificato all’altra parte e depositato in cancelleria. Dalla data di deposito dell’atto notificato, l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza".

Tale ultima disposizione – successivamente innovata nel meccanismo, ma non nella finalità, dalla L. n. 263 del 2005, a norma della quale "l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza se la parte intimata non manifesta entro trenta giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all’altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata sentenza" – aveva lo scopo di rendere possibile all’intimato, attraverso la rinuncia alla sentenza notificata alla controparte e depositata in cancelleria, d’impugnare l’ordinanza di condanna senza dovere attendere l’emanazione della sentenza, così da potere anche proporre al giudice dell’impugnazione la domanda di sospensione dell’esecutività dell’ordinanza, altrimenti non proponibile, salva la prosecuzione del giudizio relativamente alle eventuali domande estranee all’istanza stessa.

4,Come esposto nell’ordinanza interlocutoria della terza sezione civile, in relazione al regime d’impugnazione dell’ordinanza, convertita in sentenza impugnabile secondo il meccanismo previsto dall’originario testo dell’art. 186 quater c.p.c., con riferimento al "dies a quo" del decorso del termine breve per l’impugnazione di cui all’art. 325 c.p.c., nella giurisprudenza di questa Corte si sono venuti a manifestare due diversi orientamenti.

Secondo un primo orientamento (formulato nelle sentenze n. 1692 del 2004 della seconda sezione, nn. 13997 e 20750 del 2004 della terza sezione e n. 18642 della prima sezione) dal deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia notificato dall’intimato alla controparte decorrerebbe il solo termine lungo d’impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c., mentre per rendere operante il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c., sarebbe necessaria un’ulteriore notifica dell’ordinanza – con l’attestazione del deposito in cancelleria della notifica della rinuncia – dopo che essa abbia acquistato valore di sentenza impugnabile, decorrendo, pertanto, il termine breve solo da tale notifica.

Partendo dalla constatazione che l’art. 186 quater c.p.c., nulla dispone in proposito, tale indirizzo ritiene incompatibile con il sistema processuale ricavabile dagli artt. 325 e 327 c.p.c., una diversa interpretazione, che faccia decorrere per l’intimato sia il termine breve per impugnare, sia il termine lungo dal deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia alla pronuncia della sentenza notificato all’altra parte.

Secondo altro orientamento (formulato nelle sentenze n. 19602 del 2004 della seconda sezione civile e n. 22533 del 2006 della terza sezione civile, che a questa si è conformata), dal deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia notificato dall’intimato alla controparte decorrerebbe per l’intimato il termine breve per l’impugnazione, dovendosi desumere da tale attività la legale conoscenza del provvedimento da parte dell’intimato, nonchè della sua volontà di fare acquisire all’ordinanza efficacia di sentenza impugnabile, restando esclusa per lui l’applicabilità del termine lungo, mentre per la controparte il termine breve decorrerebbe solo dall’ulteriore notifica dell’ordinanza dopo che essa abbia acquistato valore di sentenza impugnabile, decorrendo altrimenti, per essa, da tale momento, unicamente il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c.,

5. Tale secondo indirizzo muove – in conformità di quanto evidenziato al riguardo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 385 del 1997 – dalla considerazione che l’art. 186 quater c.p.c., oltre a perseguire la finalità primaria consistente nell’anticipare i tempi di realizzazione del petitum rispetto all’ordinario schema processuale in tutti quei casi in cui la domanda abbia ad oggetto il pagamento di somme, ovvero la consegna od il rilascio di beni, ed il giudice ritenga raggiunta la prova del fatto costitutivo invocato, perseguirebbe l’effetto ulteriore di determinare una riduzione della pendenza dei procedimenti, in attuazione della "ratio" delle linee programmatiche della normativa avente ad oggetto le misure urgenti per il processo civile, intervenute a partire dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, così soddisfacendo, oltre all’interesse delle parti, in via indiretta e mediata, tale fondamentale finalità d’interesse collettivo.

In questa ottica, secondo la sentenza n. 19602 del 2004, "la possibilità di ottenere l’ordinanza post-istruttoria di condanna munita "ex lege di efficacia esecutiva, concessa all’una delle parti" con i primi due commi della norma in esame, è contestualmente bilanciata dalla facoltà, concessa all’altra parte con il successivo comma 4, di rinunziare alla successiva pronunzia della sentenza…. facendo conseguire l’efficacia della stessa all’ordinanza e, in tal modo, ponendosi in condizione d’impugnarla e di chiederne la sospensione dell’esecutività, diversamente non conseguibile". Ma essendo tale facoltà concessa all’intimato diretta, parimenti, a soddisfare "l’esigenza collettiva di riduzione dei tempi di definizione delle controversie", l’interpretazione della normativa in questione dovrebbe avvenire "in considerazione di siffatta finalità d’ordine generale, cui il legislatore ha informato l’intera sua azione riformatrice", che "si riverbera anche nel contenuto precettivo delle singole disposizioni in esame".

Sulla base di tale criterio, secondo l’orientamento in esame diffusamente illustrato dalla sentenza n. 19602 del 2004, occorre "tener presente come la previsione, nel codice di rito, d’un termine cosiddetto lungo per l’impugnazione non abbia lo scopo di concedere alla parte interessata all’impugnazione stessa uno spatium deliberandi di tale entità temporale, bensì quello di far fronte all’esigenza di formazione della cosa giudicata, per tutti i soggetti interessati, presenti o meno nel giudizio (salva, per questi ultimi, l’eccezione di cui all’art. 327 c.p.c., u.c.), con il decorso d’un appropriato periodo di tempo dalla pronunzia della sentenza, decorso il quale è attribuita l’efficacia d’una presunzione assoluta di conoscenza della sentenza stessa", mentre "la previsione del termine cosiddetto breve abbia lo scopo di consentire, alla parte interessata, d’accelerare i tempi della formazione del giudicato sulla sentenza o dell’impugnazione della stessa con il portare la sentenza, mediante la notificazione, a legale conoscenza della controparte". Sarebbe, pertanto, in entrambe le ipotesi, "la legale conoscenza dell’intervenuta decisione della controversia e delle ragioni di essa, presunta ex lege nell’una e realizzata con la notificazione nell’altra, a determinare l’entità del periodo di tempo entro il quale può essere proposta l’impugnazione". Una simile ricostruzione della "ratio" degli artt. 325 e 327 c.p.c., sarebbe conforme alle affermazioni giurisprudenziali secondo le quali il termine breve per l’impugnazione decorre dalla notificazione della sentenza anche per il notificante, ai fini della tempestività del rinnovo di un’impugnazione inammissibile per il notificante il termine breve decorre dalla prima notificazione, il termine breve decorre per tutte le parti, indipendentemente dalla notificazione della sentenza, ove avverso di essa sia stato già proposto un diverso tipo d’impugnazione, dalla notificazione di detta impugnazione.

Sulla base di queste considerazioni si dovrebbe ritenere "che, se l’attività posta in essere dall’intimato, ex art. 186 quater c.p.c., con la notificazione alla controparte dell’atto di rinunzia alla sentenza e con il deposito in cancelleria dell’atto di rinunzia notificato, cui consegue l’acquisto per l’ordinanza post-istruttoria di condanna dell’efficacia di sentenza, costituisce adeguata dimostrazione della legale conoscenza del provvedimento da parte dell’intimato ed, inoltre, della specifica volontà dello stesso di far acquisire all’ordinanza medesima l’efficacia della sentenza impugnabile, allora nel momento in cui detta attività si perfeziona deve necessariamente ravvisarsi il "dies a quo" per il decorso del termine breve d’impugnazione da parte dell’intimato". Interpretazione che sarebbe confermata dalla "ratio" sollecitatoria della definizione delle controversie alla quale è improntato l’intero complesso delle misure nelle quali è inserito l’art. 184 quater c.p.c., con cui "sarebbe palesemente incompatibile il frustrare gli effetti connessi al meccanismo acceleratorio predisposto con l’istituto in esame consentendo alla parte, che ad esso abbia dato impulso, di sottrarsi, poi, alle logiche conseguenze dell’adottata iniziativa ritenendo, invece, applicabile il termine lungo per l’impugnazione".

Ne deriverebbe che, in tal modo, di fatto verrebbe ad operare per l’intimato il solo termine breve e non anche quello lungo, ma questo sarebbe proprio l’intento del legislatore, "il quale può scegliere una diversificata disciplina processuale laddove la peculiarità del rapporto sostanziale controverso e/o le particolari connotazioni del giudizio ne rappresentino una ragionevole giustificazione". Fermo restando che per la controparte, rimasta ignara del prosieguo del procedimento iniziato con la rinuncia alla sentenza notificatale, tale principio non vale, decorrendo il termine breve dalla notifica dell’ordinanza-sentenza divenuta esecutiva.

6. Il contrasto interpretativo, a giudizio di queste sezioni unite va risolto in favore del primo orientamento, sulla base delle seguenti considerazioni.

Innanzitutto va premesso che il principio costituzionale della giusta durata del processo, sancito dall’art. 111 Cost., che può essere attuato mediante la previsione di termini processuali di decadenza, va sempre coordinato, dal legislatore come dall’interprete, con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, che deve trovare effettiva attuazione perchè si realizzi, nella ragionevole durata, il "giusto processo" garantito dallo stesso art. 111.

In tale ottica va rilevato che, quando il legislatore statuisce che un termine processuale di decadenza decorra dal verificarsi di un determinato atto o fatto, l’interprete non può sostituirne la decorrenza con altro fatto o atto diverso, ancorchè ad effetti in qualche misura analoghi o equivalenti, senza compromettere l’esatta osservanza del criterio interpretativo stabilito dall’art. 12 disp. gen., in connessione con il principio costituzionale di effettività del diritto di difesa, il quale ammette che tale diritto possa essere sottoposto a termini di decadenza, ma impone, affinchè non ne risulti svuotato, non solo che essi siano congrui nella durata, ma anche rapportati – quanto al "dies a quo" – ad un fatto o atto specifico, predeterminato dalla legge, che il soggetto onerato, a quel momento, conosce o, secondo legge, avrebbe dovuto conoscere.

Ne deriva, già in base al su detto rilievo, la constatazione che mentre l’art. 326 c.p.c., fa decorrere il termine breve dalla notifica della sentenza e, nel caso previsto dall’ultimo comma, di processo con pluralità di parti con cause scindibili, per il soccombente, dalla notifica dell’impugnazione ad una delle parti, l’interpretazione prospettata da Cass. 29 settembre 2004, n. 19602 (e dalla sentenza n. 22533 del 2006), fa decorrere detto termine, per l’intimato, dal deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia all’emanazione della sentenza notificato alla controparte, così discostandosi in modo evidente dal tenore della normativa che disciplina la decorrenza di quel termine, facendolo decorrere, contro il suo tenore, da un fatto completamente diverso da quelli da essa previsti.

A ciò aggiungasi che, se è vero che nel sistema posto in essere dagli artt. 325 e 327 c.p.c., sia il temine lungo sia il termine breve sono finalizzati a limitare nel tempo il diritto d’impugnare la sentenza allo scopo della formazione del giudicato, va parimenti considerato che l’attivazione del termine breve è rimesso alla valutazione ed all’interesse delle parti, le quali lo debbono manifestare nelle forme tipiche, previste dall’art. 326 c.p.c..

Mentre nel caso previsto dall’art. 186 quater c.p.c., il deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia alla pronuncia della sentenza, secondo l’espressa previsione della norma, ha l’effetto di fare acquistare all’ordinanza "l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza", con la conseguenza che non vi è ragione di desumere da una manifestazione di volontà dell’intimato, diretta a perseguire quel suo interesse ed a conseguire quell’effetto, l’ulteriore e diverso significato, non previsto dalla legge e per lui pregiudizievole, di fare iniziare da essa il decorso del termine breve, onerandolo di proporre entro trenta giorni l’impugnazione che, secondo la regola generale posta dall’art. 327 c.p.c., ha invece diritto di proporre entro l’anno da tale deposito. E ciò in presenza di una statuizione legislativa che, secondo il suo tenore, si limita a fare acquistare all’ordinanza "l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza".

Dall’osservazione che l’ultimo comma dell’art. 186 quater c.p.c., ha lo scopo di attribuire all’ordinanza, ai fini dell’impugnazione, efficacia di sentenza, deriva che la situazione giuridica che la legge ricollega al deposito in cancelleria della rinuncia della parte intimata alla sentenza, è in tutto analoga a quella che si sarebbe verificata se il giudice in tale data avesse depositato la sentenza.

E pertanto risulta coerente con il sistema attribuire a tale fatto giuridico l’effetto tipico previsto dall’art. 327 c.p.c., che è quello di far decorrere da esso il termine lungo per l’impugnazione, mentre non appare coerente con il sistema attribuirgli l’effetto di far decorrere da esso il termine breve, che l’art. 326 c.p.c., riconnette ad atti giuridici completamente diversi.

La soluzione prospettata dal secondo orientamento interpretativo in esame, inoltre, da luogo ad ulteriori incongruenze sistematiche, che non lo rendono idoneo a determinare quella minore durata del processo che si vorrebbe perseguire.

Infatti, nel vigente sistema processuale, la notifica della sentenza è di regola richiesta dalla parte vittoriosa ed è diretta a provocare l’impugnazione di quella soccombente e, in difetto, il giudicato in proprio favore e fa decorrere il termine breve per entrambe le parti. Nel caso di specie, invece, il deposito dell’atto di rinuncia alla sentenza, che viene ad essere, di norma, eseguito dalla parte soccombente, avrebbe l’effetto di far decorrere il termine breve solo nei confronti di tale parte (come si riconosce nella stessa sentenza n. 19602 del 2004), non avendo l’altra parte notizia di tale deposito, cosicchè, con una grave disarmonia sistematica, per una parte decorrerebbe il termine breve e per l’altra il termine lungo, così da essere resa comunque non perseguibile per tale via quella "ratio" acceleratoria posta a base dell’interpretazione adottata. Mentre, frustrandosi parimenti tale "ratio" acceleratoria, ove il deposito della rinuncia notificatagli fosse effettuata dall’intimante (come questa Corte ha ritenuto ammissibile: Cass. 22 dicembre 2005, n. 28419), si verificherebbe la stessa situazione a parti invertite.

Inoltre va ancora rilevato che essendo l’art. 186 quater c.p.c., inserito nella disciplina del giudizio di primo grado, la sua "ratio" acceleratoria non può che attenere alla più rapida conclusione di tale giudizio cosicchè – anche per tale ulteriore ragione di ordine sistematico – non può essere utilizzata per fondarvi, senza un esplicito appiglio normativo, una deroga alla disciplina dei termini d’impugnazione.

7 In linea con le regole ed i principi posti dagli art. 325, 326 e 327 c.p.c., appare, invece, l’indirizzo interpretativo adottato dalle sentenze nn. 1692, 13997 18642 e 20750 del 2004, che identifica nel deposito dell’atto di rinuncia notificato, a seguito del quale l’ordinanza acquista efficacia di sentenza impugnabile, il "dies a quo" del decorso del termine lungo d’impugnazione previsto dall’art. 327 c.p.c., mentre per il decorso del termine breve d’impugnazione di cui all’art. 325 c.p.c., richiede, al termine del procedimento previsto dell’art. 186 quater c.p.c., u.c., per fare acquistare all’ordinanza efficacia di sentenza, una nuova notifica di essa con l’attestazione del deposito in cancelleria della notifica della rinuncia.

Infatti – disponendo l’art. 186 quater c.p.c., (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 263 del 2005) che dalla data del deposito in cancelleria della rinuncia alla pronuncia della sentenza "l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza" – l’indirizzo in esame, in piena aderenza a tale disposto, afferma che la situazione che si viene a creare è in tutto analoga a quella determinata dal deposito, in tale data, di una sentenza: deposito che, a norma dell’art. 327 c.p.c., determina l’inizio del decorso del termine annuale di decadenza dall’impugnazione. Con la logica e congruente conseguenza che, nel caso previsto dall’art. 186 quater c.p.c., dalla data del deposito in cancelleria della rinuncia alla pronuncia della sentenza inizia il decorso del termine annuale d’impugnazione in conformità della statuizione dell’art. 327 c.p.c..

Parimenti aderente al disposto dell’art. 326 c.p.c., comma 1, risulta l’assunto secondo il quale perchè decorra anche il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c., è necessaria la notifica dell’ordinanza con l’attestazione del deposito in cancelleria della notifica della rinuncia alla sentenza.

Una volta perfezionato l’iter previsto dall’art. 186 quater c.p.c., u.c., infatti, non avendo il legislatore dettato alcuna disposizione che autorizzi ad applicare all’ordinanza che abbia acquistato efficacia di sentenza una disciplina del decorso dei termini d’impugnazione diversa da quella generale, per il decorso del termine breve deve necessariamente farsi riferimento alla disciplina generale dell’art. 326 c.p.c., con gli adattamenti resi necessari dalla circostanza che l’atto impugnabile è un’ordinanza con efficacia di sentenza, la quale dovrà essere, pertanto, notificata con le attestazioni necessarie a dimostrare al destinatario della notifica tale sua acquistata efficacia.

Il contrasto, pertanto, deve essere risolto con l’affermazione del seguente principio di diritto: "In tema d’impugnazione dell’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c., – nel testo introdotto del D.L. 18 ottobre 1995, n. 423, art. 7, conv. con mod. dalla L. 20 dicembre 1995, n. 534 – l’adempimento, da parte dell’intimato, degli oneri di notifica e di deposito della rinuncia alla sentenza, ai sensi del comma 4 della norma citata, fa si che l’ordinanza stessa acquisti, dal momento del deposito, l’efficacia della sentenza impugnabile pubblicata, con conseguente decorrenza del termine annuale di cui all’art. 327 c.p.c., mentre perchè decorra anche il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c., è necessaria una nuova notifica dell’ordinanza con l’attestazione del deposito in cancelleria della notifica della rinuncia all’emanazione della sentenza". 8. Dalla soluzione del contrasto nei sensi sopra indicati deriva la fondatezza del ricorso, che va pertanto accolto, cosicchè la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, la quale deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione.

Redazione