Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 2/12/2008 n. 28544; Pres. Prestipino G.

Redazione 02/12/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 20.10.2004 ed il 18.4.2005 il P.G. presso la Corte di Cassazione chiedeva al Presidente della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura di fissare il giorno di discussione per due procedimenti a carico del dr. C.A., Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, al quale era stata addebitata la violazione del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, in entrambe le incolpazioni. Con il primo procedimento (n. 129/04) al dr. C. si contestava di aver ottenuto, a seguito di richiesta avanzata il 2.5.2001, l’esecuzione dei lavori di messa in sicurezza dell’abitazione sita in piazza (omissis), per una spesa pari ad Euro 119.241,00, eludendo il necessario parere del Procuratore ******** e tacendo circostanze che avrebbero potuto precludere o ostacolare l’esecuzione delle opere, ed in particolare che l’appartamento, diversamente da quanto era legittimo ritenere sulla base del riferimento alla "propria abitazione" contenuto nella richiesta, era stato preso in locazione dal figlio e che la sua residenza abituale non era in quell’appartamento.

Con il secondo procedimento (n. 49/05) si incolpava il C. di aver preso in locazione tale appartamento, sia pure con l’interposizione del figlio,dalla soc. Risanamento di Napoli, i cui rappresentanti era sottoposti a procedimento penale presso la procura di Napoli fin dal 1999, del quale procedimento era costantemente informato; che egli aveva concluso la locazione per tale appartamento, sito in zona pregiata e dell’estensione di mq. 305, alle condizioni vantaggiose costituite da un canone mensile di L. 3 milioni, contro quello di L. 4.500.000, pagate dai precedenti locatari; che il contratto veniva redatto il 12.12.2000, e cioè un solo giorno prima che l’immobile venisse venduto alla Centrale Immobiliare s.p.a. del gruppo Pirelli; che la locazione veniva preordinata al successivo acquisto, per cui il 18.3.2004 l’apparente locatario, Co.Co., figlio dell’incolpato, stipulava preliminare di vendita dell’appartamento per Euro 640.000,00, pari ad Euro 2.045,90 al mq., prezzo notevolmente inferiore a quel mercato di zona centrale e di pregio, quale è piazza (omissis).

La Sezione disciplinare con sentenza emessa il 18.7.2006 dichiarava non doversi procedere nei confronti del dr. C.A., osservando che nelle more era sopravvenuto il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32, per cui non essendo intervenuta la decisione della Sezione entro un anno dalla richiesta del P.G., il procedimento doveva essere dichiarato estinto.

Su ricorso del P.G., la corte di cassazione cassava la predetta sentenza, ritenendo che la norma detta non poteva applicarsi, ratione temporis, al procedimento disciplinare in questione, a norma del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis, con la conseguenza che il termine per l’estinzione del procedimento per mancanza di tempestiva decisione (dalla richiesta di giudizio del P.G.) da parte della Sezione era di anni due e non uno.

Riassunto il giudizio davanti alla Sezione Disciplinare del C.S.M., questa con sentenza depositata il 22.2.2008 affermava la responsabilità disciplinare del C. e gli infliggeva la sanzione della perdita di anzianità di anni due.

Riteneva la Sezione che potesse affermarsi la responsabilità dell’incolpato per le infrazioni ascrittegli sulla base delle risultanze delle deposizioni testimoniali e dei documenti acquisiti e che il comportamento dell’incolpato era di grave nocumento per il prestigio,la fiducia e la considerazione di cui deve godere un magistrato, soprattutto se trattasi del Procuratore della Repubblica di una città con le gravi problematiche di Napoli.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione C.A..

Non hanno svolto attività difensiva gli intimati.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Per ragioni di ordine logico-giuridico vanno anzitutto esaminati i motivi settimo e nono del ricorso.

Con il settimo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 396, 178 e 179 c.p.p., artt. 1930 e 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata aveva disatteso l’eccezione di nullità della citazione a giudizio per il primo (in effetti trattasi del secondo) procedimento disciplinare, in quanto l’accertamento della legittimità ed assolutezza dell’impedimento a comparire atteneva a questione di merito rimessa al giudice ed il ricorrente aveva ricevuto ampia contestazione dei fatti con atto formale.

Assume il ricorrente che egli aveva tempestivamente fatto valere tale eccezione di nullità, non avendo potuto rendere l’interrogatorio per impedimento assoluto, dovuto a gravissime ragioni di salute (ricoveri prima per angioplastica carotidea sinistra e poi per applicazione di 5 by-pass coronarici il giorno fissato per l’ultimo interrogatorio); che, pur essendo rimessa la valutazione dell’impedimento al P.G., la Sezione disciplinare avrebbe dovuto valutare la legittimità e razionalità di tale valutazione, mentre era irrilevante ai fini del soddisfacimento dell’obbligo dell’interrogatorio, il fatto che all’incolpato fosse stata effettuata la contestazione degli addebiti.

2.1. Il motivo è inammissibile per due ordini di ragioni.

Anche a voler convenire con il ricorrente (pur non essendo ciò pacifico) sia che l’ipotesi di mancato espletamento dell’interrogatorio per impedimento assoluto e legittimo dell’incolpato equivalga a mancato soddisfacimento dell’obbligo di preventivo interrogatorio rispetto alla richiesta di citazione a giudizio di cui all’art. 396 c.p.p. 1930, non potendo il caso ritenersi equivalente all’ipotesi di mandato di comparizione rimasto senza effetto (che egualmente rende legittima la richiesta di rinvio a giudizio, art. 396 c.p.p., u.c.) e sia che il legittimo ed assoluto impedimento dell’incolpato rilevi non solo per la fase dibattimentale (ove è allocato: art. 497 c.p.p. 1930), va tuttavia osservato che trattasi di nullità attinente all’ipotesi di cui all’art. 185 c.p.p., comma 1, n. 3, 1930, relativa all’intervento dell’incolpato, e pertanto da far valere a norma dell’art. 185 c.p.p., comma 3, e art. 439 c.p.p..

Secondo tali norme, le nullità incorse nell’istruttoria devono essere fatte valere prima che siano compiute le formalità di apertura del giudizio, mentre non possono essere poi fatte valere in ogni stato e grado del procedimento, come per le nullità assolute insanabili di cui all’art. 185 c.p.p., comma 2. Trattasi – quindi – di nullità relative e sanabili (Cass. pen.,Sentenza n. 1255 del 09/10/1981; Sentenza n. 1369 del 12/11/1986).

2.2. Nella fattispecie l’incolpato nel primo giudizio davanti alla Commissione disciplinare fece valere tempestivamente detta eccezione di nullità. La Commissione nell’udienza del 5.5.2006, in sede di rinnovazione degli atti, così come aveva fatto nelle sedute del 23.9.2005 e del 9.2.2006, rigettò tale eccezione di nullità.

La Sezione disciplinare con sentenza del 18.7.2006, dichiarava estinto il procedimento per decorso dell’anno previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 7.

Tale sentenza fu impugnata dal P.G. ed in via incidentale anche dall’incolpato.

Sennonchè il ricorso incidentale dell’incolpato, come emerge dalla sentenza delle S.U. n. 16624/07, atteneva solo alla censura per il mancato proscioglimento nel merito a norma dell’art. 152 cpv. c.p.p., 1930.

L’incolpato, quindi, non impugnò, sia pure in via condizionata ed in una alla sentenza, anche le ordinanze predette della Sezione, che rigettavano la sua eccezione di nullità della richiesta di giudizio avanzata dal P.G., per mancato interrogatorio (cfr. Cass. 2/10/2003, n. 14678; Cass. Civ., 14/12/1981, n. 6602).

In ogni caso l’incolpato non fece valere quale vizio della sentenza il fatto che essa fosse stata pronunziata in conseguenza delle predette ordinanze di rigetto dell’eccezione di nullità della richiesta di giudizio.

Ciò comporta che l’eccezione di nullità in questione, rigettata nel primo giudizio e non sottoposta ad impugnazione, neppure in via condizionata, in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza conclusiva di questo primo giudizio di merito, non potesse essere riproposta nel successivo giudizio di rinvio.

2.3. In ogni caso la preclusione deriva, oltre che dalla mancata impugnazione sul punto della prima sentenza della Sezione Disciplinare, anche dalla struttura e dalla natura del giudizio di rinvio, anche se nella fattispecie è pur sempre quello regolato dal c.p.p. 1930, giusto il richiamo del R.D.L. n. 511 del 1946, artt. 32 e 34, (cfr. Cass. S.U. 25.11.1996, n. 9334).

Il giudizio di rinvio non costituisce la rinnovazione o la prosecuzione del giudizio di merito, in cui è stata emessa la sentenza impugnata; costituisce bensì la fase rescissoria rispetto a quella rescindente del giudizio di cassazione, diretta a colmare quanto è venuto meno per effetto della pronuncia di annullamento. Ciò comporta, tra l’altro e per quanto ora interessa, che in sede di rinvio operano preclusioni connaturate alla suindicata funzione, inesistenti nel pregresso giudizio di merito.

Più specificamente, in sede di rinvio, non possono formare oggetto di discussione tutte le questioni che costituiscono presupposti, esplicitamente o implicitamente decisi, della pronuncia della Corte di Cassazione.

Ancor più specificamente e per quanto concerne il caso in esame, qualora la Corte abbia cassato la sentenza per violazione di legge regolante il rapporto sostanziale dedotto in causa, per ragioni obiettive e non inerenti alla posizione nel processo delle parti in causa, ed abbia enunciato il principio di diritto, si devono ritenere implicitamente e positivamente risolte e non più discutibili le questioni relative alla regolare instaurazione del giudizio di merito, in cui è stata emessa detta sentenza (Cass. 27/03/1996, n. 2749).

Infatti la forza preclusiva della sentenza di cassazione ha per oggetto le questioni che costituiscono il presupposto necessario e logicamente inderogabile della sentenza, ancorchè non siano state dedotte o rilevate in quel giudizio (Cass. 23/03/2005, n. 6260).

Ne consegue che, nella fattispecie, avendo la sentenza delle S.U. n. 16624/07 cassato con rinvio la sentenza della Sezione disciplinare del CSM per violazione della norma in tema di estinzione dell’azione disciplinare, senza nulla rilevare in merito alla legittimità dell’instaurazione del giudizio dinanzi alla Sezione, tale questione, costituendo il necessario presupposto della sentenza cassata, non è più rilevabile nè nella sede di rinvio nè nel successivo giudizio di impugnazione della sentenza di rinvio.

3. Con il nono motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 3 Cost., e normativa CEE per l’illegittimità della L. n. 269 del 2006, art. 1, comma 3, lett. q), e del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, ed eccezione di incostituzionalità di tali articoli.

Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: "Dica la S.C. che la L. 24 ottobre 2006, n. 269, art. 1, comma 3, lett. q, e il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 2, sono illegittimi in relazione all’art. 3 Cost., art. 15 del patto Internazionale di New York 16.12.1996, all’art. 6 trattato Unione Europea, ratificato con L. 16 giugno 1998, n. 209, e con riferimento alle sentenza della Corte di giustizia della Comunità Europea 3.5.05, 12.6.2003. 10.7.2003 e conseguentemente che la prescrizione penale va applicata anche ai procedimenti disciplinari e, nel caso in esame, al dr. C.".

4.1. Il motivo è inammissibile e la sollevata questione di illegittimità costituzionale è priva di rilevanza.

In buona sostanza con il suddetto motivo il ricorrente richiede che sia ritenuta l’estinzione dell’azione disciplinare per prescrizione sulla base di argomentazioni giuridiche diverse da quelle vagliate dalla S.C. ed in ogni caso solleva l’eccezione di incostituzionalità della L. n. 269 del 2006, art. 1, ed D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15.

Sennonchè quanto alle diverse argomentazioni giuridiche sulla base delle quali dovrebbe ritenersi estinta l’azione disciplinare per mancata tempestiva decisione da parte della Sezione disciplinare, l’inammissibilità del motivo discende dal principio secondo cui l’autorità del giudicato copre tutte le possibili prospettazioni sul punto deciso.

Stante la sentenza delle S.U. n. 16624/07, che ha escluso che l’azione disciplinare si sia estinta, la questione non può essere riproposta sotto diverse argomentazioni giuridiche al giudice di rinvio.

4.2. Quanto alla sollevata eccezione di incostituzionalità del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, ed L. n. 269 del 2006, art. 1, comma 3, lett. Q, la stessa è inammissibile per difetto di rilevanza.

Quando un punto della controversia sia stato deciso dalla Corte di Cassazione con sentenza di annullamento con rinvio fondata sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, di cui si sia successivamente eccepita nel giudizio di rinvio l’illegittimità costituzionale, è inammissibile il nuovo ricorso con cui si proponga detta questione, in quanto il punto stesso, in conseguenza della anteriore decisione di cassazione, non è suscettibile in diritto di una impugnazione e comunque di riesame (Cass. 11/06/1999, n. 5769; Cass. 1/07/1993, n. 7166).

5.1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione ed erronea applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che è stata del tutto omessa la valutazione delle deposizioni delle testi G.C. e R.M.L., nonchè dei testi Ru.Lu. e B.C., nonchè degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza, sulla base dei quali elementi probatori, se esaminati, si sarebbe giunti all’esclusione che il C. intrattenne rapporti patrimoniali con indagati dal proprio Ufficio; che ottenne – avvantaggiandosi del proprio ruolo – l’affitto dell’immobile; che gli venne praticato un affitto inferiore a quello di mercato; che proprio dalla deposizione del dr. B., amministratore delegato della soc. Pirelli Real Estate, risultava che fu quest’ultimo ad autorizzare i funzionari della soc. Risanamento a locare l’appartamento in questione.

5.2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria su fatti decisivi della controversia a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto dalle suddette prove emergeva che chi aveva autorizzato la locazione (dr. B.) non era mai stato indagato; che è apodittica l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui la delega del visto da parte del dr. C. non trovava giustificazione nel carico di lavoro; che in ogni caso egli non aveva cognizione del procedimento a carico degli amministratori della soc. Risanamento, prima della stipula della locazione.

5.3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione ed erronea applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e motivazione carente e contraddittoria ex art. 360 c.p.c., n. 5. Lamenta il ricorrente che nella fattispecie la sentenza impugnata non ha posto a fondamento della decisione le prove documentali rappresentate sia dal contratto di locazione sia dal provvedimento di archiviazione del Gip nel procedimento penale a suo carico, da cui risultava che la locazione era destinata alle esigenze dell’intero nucleo della famiglia C. (sicchè nessuna interposizione fittizia vi fu di detto contratto, e che quindi non vi fu violazione del R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18).

5.4. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta il vizio di motivazione della sentenza, per aver ritenuto che era difficile apprezzare l’interposizione fittizia di suo figlio come dovuta ai suoi impegni di lavoro, mentre ciò era vero, tenuto conto della disastrosa eredità della procura circondariale, dopo l’unificazione; che, in ogni caso, il C. pagava il canone più alto dell’immobile, come risultava dal rapporto della Guardia di Finanza; che, contrariamente all’assunto della sentenza, i P.M. Ca. e D.M. ed il P.A. M. non avevano informato esso C. dell’esistenza del procedimento prima della stipula del contratto.

6.1. I suddetti motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono infondati.

Anzitutto non sussiste la violazione dell’art. 115 c.p.c..

Il principio consacrato nell’art. 115 c.p.c., secondo cui il giudice ha l’obbligo di decidere "iuxta alligata et probata", importa, tra l’altro, che la decisione sia tratta unicamente dalle allegazioni delle parti, cioè dalle circostanze di fatto dedotte a fondamento della domanda o dell’eccezione, e dalle prove offerte dalle parti medesime. Detta norma è intesa ad assicurare il rispetto dei principi fondamentali della difesa e del contraddittorio, impedendo che una parte possa subire una decisione basata su fatti ad essa sconosciuti ed in relazione ai quali non si sia potuta difendere. (Cass. 6/09/2002, n. 12980; Cass. 15/02/1983, n. 1165).

Nella fattispecie la sentenza ha posto a base della sua decisione solo prove raccolte regolarmente nel corso del procedimento.

6.2. Neppure ha consistenza la lamentata violazione e falsa applicazione della norma di diritto costituita dall’art. 116 c.p.c..

L’art. 116 c.p.c., comma 1, consacra il principio generale del libero convincimento del giudice, per cui lo stesso deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. La norma in questione sancisce la fine del sistema fondato sulla predeterminazione legale dell’efficacia della prova, conservando solo specifiche ipotesi di fattispecie di prova legale, e la formula del "prudente apprezzamento" allude alla ragionevole discrezionalità del giudice nella valutazione della prova, che va compiuta tramite l’impiego di massime di esperienza.

Nella fattispecie il ricorrente non lamenta nè che il giudice abbia attribuito valore predeterminato legalmente ad alcune prove,invece di liberamente apprezzarle, nè il contrario e cioè che abbia apprezzato liberamente fattispecie che invece integravano gli estremi di prova legale.

Ne consegue che non sussiste la lamentata violazione dell’art. 116 c.p.c..

La doglianza, invece, che il giudice abbia fatto un cattivo uso del suo "prudente apprezzamento" nella valutazione della prova si risolve in una doglianza sulla motivazione della sentenza, che può trovare ingresso in sede di legittimità solo nei limiti in cui è ammissibile il sindacato da parte della cassazione sulla motivazione della sentenza.

6.3. Egualmente possono essere fatte valere solo nei limiti del vizio motivazionale le censure relative alle omesse valutazioni di elementi di prova.

A questo fine va ricordato,come principio generale, che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, nè a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 6 settembre 1995, n. 9384).

Ne deriva che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si riveli incompleto, incoerente e illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte. (Cass. 15/04/2004, n.7201; Cass. S.U. 27/12/1997, n.13045, Cass. 14/02/2003, n.2222; Cass. 25.8.2003, n.12467; Cass. 15.4.2000, n. 4916).

7. Nella fattispecie non è nè mancante nè insufficiente nè contraddittoria la motivazione dell’impugnata sentenza, alla luce dei suddetti principi.

Infatti la Sezione disciplinare ha ritenuto che dal contratto di locazione e dal preliminare di vendita emerge che tali contratti siano stati conclusi dal dr. C. con l’interposizione del figlio Co. e che tale interposizione non risulta spiegabile con gli assunti impegni di lavoro e con ragioni di sicurezza; che dalla deposizione del teste Ci.Pa. risultava che il C. aveva richiesto fin dal 1998 la disponibilità di un appartamento da locare e che di tale esigenza si occupava non direttamente lui, ma il capo dell’ufficio della società proprietaria dell’immobile, poi locato; che dalla deposizione del predetto teste, nonchè del rag. A. era risultato che della locazione di appartamenti di particolare pregio si interessava direttamente l’Amministratore delegato o il direttore dell’ufficio di amministrazione. Riteneva poi la Sezione che dalla deposizione degli avvocati *** e ************, precedenti conduttori dell’appartamento, fino al loro sfratto per morosità, emergeva che gli stessi pagavano circa L. 6 milioni (così p. 9 della sentenza); che l’appartamento fu rilasciato per morosità il 21.2.2000, mentre il contratto con il C. fu stipulato il 12 dicembre 2000, con decorrenza marzo 2001; che la stipulazione del contratto per L. tre milioni mensili rappresentava un indubbio vantaggio economico, e ciò non solo per il canone di locazione, ma anche perchè il passaggio di proprietà dalla soc. Risanamento alla soc. Pirelli Real Estate lasciava intravedere la prospettiva di una dismissione programmata che avrebbe consentito l’acquisto a prezzi ridotti in favore dei conduttori.

Riteneva la Sezione che dalla deposizione dell’avv. Ru., direttore generale della soc. Risanamento, emergeva che egli chiamò il dr. B., amministratore della soc. Pirelli Real Estate per illustragli l’esigenza di affittare l’appartamento alla sig.ra C.; che dell’esistenza di un procedimento penale nei confronti degli amministratori della soc. Risanamento, per questa opera di dismissione, iniziato a seguito di esposto dell’avv. P. nel 1999, il C. era a conoscenza, come risultava dalla deposizione del P.M. Dr. D.M., titolare dell’indagine nella fase finale,per averlo appreso dal P.M. dr. M., procuratore aggiunto delegato, e dal Dr. Ca., primo assegnatario del procedimento.

Trattasi di accertamenti fattuali, effettuati dal giudice del merito,a fronte dei quali le censure del ricorrente si risolvono in una rivalutazione degli elementi probatori, con assegnazione di prevalenza a quelli implicitamente esclusi dal giudice del merito. Tanto è inammissibile in questa sede, sia pure sotto il profilo del vizio motivazionale, tenuto conto che in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, il ricorso avverso le decisioni della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura non può essere rivolto ad un riesame dei fatti che hanno formato oggetto di accertamento e di apprezzamento da parte della Sezione stessa, dovendo le Sezioni Unite della Corte di cassazione limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, adeguatezza e logicità della motivazione che sorregge la decisione impugnata (Sez. U, 07/02/2007, n. 2685). Ciò vale tanto più a seguito della modifica apportata dal D.Lgs. n. 40, all’art. 360 c.p.c., n. 5, dove il vizio motivazionale ha rilevanza solo se investe il "fatto controverso", per cui è necessario non solo che siano indicati specificamente i fatti controversi, in relazione ai quali la motivazione si assume viziata, ma anche che sia indicata la rilevanza di tali fatti (Cass. S.U. n. 16528/2008).

8.1. Di nessun rilievo è poi la censura secondo cui esso ricorrente non avesse un obbligo di astensione, ovvero che i contratti in questione erano stati stipulati dal figlio, ovvero che egli si fosse disinteressato dello svolgimento del procedimento penale e che il soggetto, con cui materialmente fu stipulato il contratto di locazione, non fosse tra gli amministratori indagati della soc. Risanamento.

Sul punto la Sezione ha ritenuto che ragioni di opportunità avrebbero dovuto indurre il dr. C. a non entrare in rapporti di affari con la società indagata dal suo Ufficio e a non avvalersi di schermi formalmente legittimi, per conseguire senza comparire una situazione di vantaggio.

8.2. Stante l’atipicità dell’illecito disciplinare del magistrato di cui al R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18, il giudice competente alla sua cognizione è tenuto ad un’attività ermeneutica consistente nello stabilire se la condotta oggetto dell’incolpazione rientri o meno nel richiamato paradigma normativo, dovendo valutare, in proposito, che non basta a concretare il suddetto illecito la circostanza che il magistrato abbia compiuto atti scorretti o contrari alla legge, risultando necessario che detti atti siano muniti dell’idoneità ad incidere negativamente sulla fiducia di cui deve godere o a compromettere il prestigio dell’ordine giudiziario. La rilevanza disciplinare dei comportamenti ascritti al magistrato incolpato risiede essenzialmente nel discredito che quelle condotte, anche all’infuori di ogni illecita preordinazione, sono idonee a gettare sull’esercizio dell’attività giudiziaria e che il magistrato è comunque tenuto ad evitare.

Il relativo accertamento delle suddette condizioni compete alla Sezione disciplinare del Cons. Sup. Magistratura ed è incensurabile in sede di legittimità se la relativa decisione risulti sorretta da adeguata e logica motivazione, come ritengono queste Sezioni Unite che sia avvenuto nella fattispecie nella fattispecie. (Sez. U, 27/07/2007, n. 16626; Sez. U, 27/07/2007 n. 16618; Sez. U, 27/07/2007, 16625).

9.1. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione ed erronea applicazione del D.M. 28 ottobre 1983, art. 1, e R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ed omessa, insufficiente motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, su fatto decisivo della controversia, rappresentata dall’esatto contenuto della circolare 3.7.1998 del dr. C. e della missiva 9.12.2003 del Ministero dell’interno. Sostiene il ricorrente che la circolare ed il D.M. suddetti, nell’individuare il P.G. come unico referente del Ministro per la sicurezza della persona del magistrato e della tutela delle strutture, si riferiscono esclusivamente alla sicurezza personale del magistrato ed a quella delle sedi giudiziarie e non all’abitazione del magistrato; che conseguentemente ben egli aveva operato nel non richiedere il parere consultivo del P.G., nella pratica per la blindatura dell’appartamento da parte del Ministero dell’Interno; che in questi termini andava interpretata anche la sua circolare, quale Procuratore della Repubblica, n. 317/1998;

che negli stessi termini era la missiva del Ministero dell’Interno del 9.12.2003. 9.2. Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente lamenta il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza, per aver pretermesso tutte le disposizioni ministeriali che escludono l’obbligo del parere del P.G. e per aver contraddittoriamente ritenuto che la pretermissione della Procura Generale nella riunione prefettizia del CPOSP non avesse rilevanza penale e che tuttavia detta presenza fosse doverosa.

Ribadisce poi il ricorrente quanto già oggetto dei precedenti motivi e che cioè egli non ebbe conoscenza del procedimento penale contro gli amministratori della soc. Risanamento, se non dopo la conclusione del contratto, e che egli non ebbe mai contatti con tale società nè ebbe vantaggi ingiusti, mentre i procedimenti penali a suo carico erano stati archiviati.

Ritiene il ricorrente che non si vede in base a quale principio giuridico si possa ritenere violato il dovere di correttezza di cui al R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18, o che tale dovere di correttezza gli imponesse di informare il P.G. della richiesta di blindatura dell’appartamento.

10.1. I due motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

Va, anzitutto, escluso che nella fattispecie sussista una ipotesi di violazione di norma di diritto relativamente al D.M. 28 dicembre 1983, art. 1. Infatti va osservato che tale decreto non ha, in ogni caso, natura regolamentare o normativa.

Le "enorme di diritto", di cui è denunciabile la violazione o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, comprendono, oltre le leggi, anche la normativa secondaria del potere esecutivo che specifichi o integri, con effetti non circoscritti ai soggetti di un particolare ordinamento, la disciplina contenuta nella legge (Cass. 18/01/1993, n. 550).

Com’è noto, i caratteri che, sul piano del contenuto sostanziale, valgono a differenziare i regolamenti dagli atti e provvedimenti amministrativi generali, vanno individuati in ciò, che questi ultimi costituiscono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono diretti alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili; i regolamenti, invece, sono espressione di una potestà normativa attribuita all’Amministrazione, secondaria rispetto alla potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all’ordinamento giuridico esistente, con precetti che presentano, appunto, i caratteri della generalità e dell’astrattezza, intesi essenzialmente come ripetibilità nel tempo dell’applicazione delle norme e non determinabilità dei soggetti cui si riferiscono.

Inoltre, ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, l’esercizio della potestà normativa attribuita all’esecutivo, quando sia consentito e necessario, deve svolgersi con l’osservanza di un particolare modello procedimentale, secondo cui per i regolamenti di competenza ministeriale sono richiesti il parere del Consiglio di Stato, la preventiva comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri,il visto e la registrazione della Corte dei conti e la pubblicazione nella G.U. (Cass. S.U. 28/11/1994, n. 10124).

Ne consegue che il D.M. 28 dicembre 1983, a norma dell’art. 1 preleggi, sia sotto il profilo formale che sostanziale, non costituisce una fonte di diritto, ma un atto amministrativo. Ciò comporta, anzitutto, che non possa trovare ingresso la censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 1, di tale D.M., attesa la natura non normativa di detto decreto.

10.2. Eguale discorso va effettuato per la circolare ministeriale evocata.

Le circolari della P.A. sono atti interni, destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l’attività degli organi inferiori e quindi hanno natura non normativa, ma di atti amministrativi sicchè la violazione di essi non è denunciabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, potendo ivi dedursi ai sensi della stessa norma solo la violazione di criteri legali di ermeneutica contrattuale nell’interpretazione delle circolari medesime, oltre che ai sensi del n. 5, dello stesso articolo, vizi di motivazione nei quali il giudice di merito sia incorso nella interpretazione predetta (Cass. 03/03/1999, n. 1793). La rilevanza solo "interna ai singoli uffici dell’amministrazione" delle circolari è stata ribadita dalle S.U. di questa corte, anche recentemente (Cass. S.U. 2.11.2007, n. 23031).

10.3. Egualmente infondata è la censura di violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18.

Infatti il R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, non contiene un catalogo di ipotesi di illecito tipiche e tassative, bensì clausole generali, perchè attribuisce al giudice di merito il compito di individuare le condotte sanzionabili, sicchè il giudice di legittimità non può sostituirsi ad esso riformulando ipotesi nuove e del tutto diverse, mentre il controllo sulla sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta è limitato alla verifica, da effettuarsi soprattutto attraverso la motivazione, della ragionevolezza di tale sussunzione del fatto (Cass. S.U. 20/10/2006, n. 22510; Sez. U. 28/12/2007, n. 27174).

Quindi, perchè ricorra la responsabilità del magistrato, è necessario che i fatti contestati incidano sulla credibilità del medesimo e/o sul prestigio dell’intero ordine giudiziario; stante l’ampia formulazione del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, nell’accertamento della sussistenza di detto requisito è legittimo il ricorso a modelli deontologici o clausole di carattere generale ai quali la condotta del magistrato deve uniformarsi.

Nella fattispecie la Sezione disciplinare ha ritenuto, con argomentazioni congrue ed immuni da censure rilevabili in sede di sindacato di legittimità, che i comportamenti ascritti all’incolpato integrassero lesione del bene protetto dal cit. art. 18. 11. Nella fattispecie non si ravvisa il lamentato vizio motivazionale sul punto, nei limiti in cui esso può trovare ingresso in sede di sindacato di legittimità.

Con motivazione immune dalle censure motivazionali mosse, la Sezione ha ritenuto che sarebbe stata doverosa l’informativa al P.G. dell’esistenza di esigenze di sicurezza dell’abitazione del Procuratore della Repubblica, con rilevanti interventi di blindatura dell’abitazione, tanto più che non erano mai stati in precedenza effettuati in tale consistenza presso altri magistrati; che tale mancata informativa, nel quadro illustrato, poteva apparire quale scelta preordinata ad evitare una conoscenza del contratto da parte del P.G.; che, in ogni caso, anche dalla nota del C. del 3.7.1998 emergeva l’individuazione del P.G. come referente del Prefetto e del Comitato provinciale per la sicurezza.

Egualmente corretto è l’assunto dell’impugnata sentenza secondo cui, stante la radicale diversità tra procedimento penale e quello disciplinare, l’archiviazione del primo non comportava anche automaticamente la definizione anche del secondo, rimanendo soggetta alla valutazione deontologica della Sezione il comportamento del magistrato che intrattenga rapporti con soggetti sottoposti a procedimento penale sul quale il magistrato è potenzialmente in grado di influire.

La Sezione, contrariamente all’assunto del ricorrente, non ha applicato retroattivamente il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, lett. A) e L), ma ha solo ritenuto – correttamente, come sopra già rilevato – che tali ipotesi tipizzate di cui alla predetta norma in effetti già potevano integrare fattispecie di illecito nell’ambito dell’ampio precetto, individuato precedentemente, del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18.

12. Con l’ottavo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 24 Cost. e normativa CEE ed art. 121 c.p.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che integra violazione delle predette norme l’avere la sentenza impugnata ritenuto che il C. non avesse il diritto di presentare personalmente memorie per difendersi, a norma dell’art. 121 c.p.p..

13.1. Il motivo di ricorso è infondato.

Anzitutto va osservato che l’articolo del codice di procedura penale del 1930, relativo alle memorie e richieste delle parti non era l’art. 121, che attiene invece alle memorie e richieste delle parti nel c.p.p. vigente del 1989, bensì l’art. 145.

Poichè il ricorrente ha fatto riferimento all’art. 121 c.p.p., quale norma attinente alle memorie e richieste delle parti, egli finisce per dolersi dell’errata applicazione di una norma del codice di procedura penale vigente e ciò già sarebbe sufficiente per il rigetto del motivo.

Infatti la disposizione di cui al R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 32, comma 3, contiene un rinvio recettizio alle norme del codice di procedura penale del 1930: non può, pertanto, trovare accoglimento il ricorso per cassazione, avverso provvedimento della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con il quale si denunci la violazione di disposizioni del codice di procedura penale attualmente vigente (Cass. Sez. Unite, 06/11/1997, n. 10920).

13.2. In ogni caso l’infondatezza deriva anche dal fatto che la sentenza impugnata non ha posto in dubbio che il C. potesse proporre memorie difensive alla Sezione, ma solo mostrato di ritenere che le questioni tecniche, ivi avanzate, non necessitassero di una approfondita motivazione da parte dell’organo giudicante, ove esse non fossero state fatte proprie dalla difesa tecnica. Tuttavia la Sezione ha comunque preso in esame sia le questioni tecniche (essenzialmente quella della regolarità della richiesta di citazione per mancato interrogatorio e quella dell’estinzione del procedimento disciplinare) prospettate dall’incolpato anche personalmente, sia le questioni di merito, attinenti alla pretesa mancanza di responsabilità disciplinare, ritenendole infondate con motivazione immune da qualsiasi vizio denunziabile in sede di legittimità, come è stato sopra esposto.

14. Il ricorso va, pertanto, rigettato. Nulla per le spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione.

Redazione