Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 19/12/2007 n. 26725; Pres. Carbone V.

Redazione 19/12/07
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Svolgimento del processo

Il 21 agosto 1995 il presidente del Tribunale di Torino, accogliendo un ricorso proposto dall’Istituto Bancario San Paolo (cui è poi succeduta la San Paolo IMI s.p.a., e che in prosieguo sarà comunque indicato solo come San Paolo), ingiunse con decreto al Sig. G.L. di pagare all’istituto ricorrente la somma di L. 427.168.304, costituente il saldo debitorio di un conto corrente al quale accedeva una linea di credito per operazioni in valuta e per operazioni su titoli derivati.

L’ingiunto propose opposizione ed, oltre a sollevare contestazioni sulla ritualità del procedimento monitorio, sull’addebito della commissione di massimo scoperto, sulla decorrenza e sulla misura degli interessi convenzionali applicati, eccepì che ai crediti della banca derivanti dall’esecuzione di contratti in questione non competeva azione per il pagamento, trattandosi di negozi assimilabili al gioco o alla scommessa e perciò rientranti nella previsione dell’art. 1933 c.c.. In corso di causa sostenne, poi, che il passivo accumulato sul conto era frutto di operazioni finanziarie nel compimento delle quali l’istituto di credito era venuto meno ai doveri impostigli dall’art. 6 dell’allora vigente L. n. 1 del 1991, perchè aveva suggerito investimenti estremamente rischiosi senza adeguata informazione per il cliente ed in eccesso rispetto alle disponibilità finanziarie del medesimo e perchè aveva agito in conflitto d’interessi con il cliente medesimo. Eccepì quindi la nullità dei contratti stipulati con il San Paolo e chiese la condanna in proprio favore di detto istituto al risarcimento dei danni.

L’opposizione fu accolta dal tribunale, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo, solo per i profili attinenti alla commissione di massimo scoperto ed alla decorrenza degli interessi. Le ulteriori ragioni addotte dall’opponente non furono invece ritenute fondate ed il medesimo opponente fu perciò condannato al pagamento del debito capitale indicato nel ricorso monitorio, oltre agli interessi al tasso convenzionale richiesto.

Il gravame proposto contro tale decisione dal ******* fu rigettato dalla Corte d’appello di Torino con sentenza depositata il 10 novembre 2001.

La corte piemontese ritenne infondata l’eccezione di nullità dei contratti aventi ad oggetto le operazioni finanziarie in questione osservando che le violazioni dedotte in causa riguardavano la condotta prenegoziale dell’istituto di credito, oppure obblighi legali accessori afferenti all’adempimento dei contratti già conclusi, ma non potevano riflettersi sulla validità di detti contratti. Escluse che alle menzionate operazioni potesse applicarsi la previsione dell’art. 1933 c.c., rientrando esse tra quelle che la L. n. 1 del 1991, art. 23, espressamente sottrae alla citata previsione del codice. Stimò inammissibili, perchè generiche, le doglianze riguardanti la ritualità del procedimento monitorio e la misura degli interessi debitori. Dichiarò inammissibile la domanda di risarcimento dei danni in quanto proposta tardivamente solo in corso di causa. Seguì la condanna dell’appellante alle spese del grado, comprensive di compensi professionali liquidati però non secondo i dettami della tariffa forense, ritenuta inapplicabile alla stregua dei principi desumibili dal Trattato dell’Unione europea, bensì sulla base dei parametri posti dall’art. 2233 c.c., comma 2.

Avverso tale sentenza il ******* ha proposto ricorso per Cassazione articolato in cinque motivi ed illustrato poi con memoria.

Ha resistito con controricorso e memoria il San Paolo.

Con ordinanza n. 3684 del 16 febbraio 2007, la prima sezione civile di questa corte ha rilevato che, nella sentenza della stessa prima sezione del 29 settembre 2005, n. 19024, è stato escluso che l’inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, possa cagionare la nullità del negozio, poichè quegli obblighi informativi riguardano elementi utili per la valutazione della convenienza dell’operazione e la loro violazione non da luogo a mancanza del consenso, e perchè la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula una violazione attinente ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, e non invece all’illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative ovvero in fase di esecuzione, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista anche in riferimento a dette ipotesi. Nella citata ordinanza della prima sezione è stato però manifestato il dubbio che il principio dianzi ricordato, quantunque corrispondente ad un tradizionale filone giurisprudenziale, non sia coerente con i presupposti da cui muovono molteplici altre decisioni di questa corte: la quale ha ravvisato ipotesi di nullità c.d. virtuale del contratto in caso di mancanza di autorizzazione a contrarre o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti, in caso di contratti concepiti in modo da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti o da consentire l’aggiramento di divieti a contrarre, ed in caso di circonvenzione d’incapace. Situazioni, queste, nelle quali è appunto la violazione di norme imperative concernenti la fase precontrattuale o le modalità esecutive del rapporto contrattuale a venire in evidenza.

D’altronde – ha osservato ancora l’ordinanza – il tradizionale principio di non interferenza delle regole di comportamento con quelle di validità del negozio, cui la citata sentenza n. 19024/05 si ispira, appare incrinato da molteplici recenti interventi del legislatore, che assegnano rilievo al comportamento contrattuale delle parti anche ai fini della validità del contratto: tali la L. n. 192 del 1998, art. 9, in tema di abuso di dipendenza economica nei contratti di subfornitura di attività produttive, l’art. 52, comma 3, del codice del consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005), in tema di contratti stipulati telefonicamente, l’art. 34 del citato codice, in tema di clausole vessatorie, il D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 7, in tema di clausola di dilazione dei termini di pagamento, e la L. n. 287 del 1990, art. 3, in tema di clausole imposte con abuso di posizione dominante.

Il ricorso è stato perciò rimesso alle sezioni unite, sia per dirimere il ravvisato contrasto di giurisprudenza sull’interferenza tra regole di comportamento e regole di validità del contratto, sia comunque perchè si tratta di questione di massima e di particolare importanza.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo del ricorso tocca la questione di diritto per la cui risoluzione sono state investite le sezioni unite.

Il ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 1418 c.c., e della L. 2 gennaio 1991, n. 1, art. 6, nonchè vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, critica la corte d’appello per aver affermato che la violazione delle prescrizioni con cui il citato art. 6, impone determinati comportamenti agli intermediari finanziari nei riguardi dei propri clienti, incidendo tali prescrizioni sul momento prenegoziale o su quello esecutivo ma non sul contenuto del contratto, non potrebbe determinarne la nullità. Altrimenti – argomenta il ricorrente – non sarebbe mai possibile far discendere la nullità del contratto dalla violazione di norme imperative che pongono limiti alla libertà delle parti con riferimento a situazioni esterne al negozio, come ad esempio quelle concernenti la qualità dei contraenti o i presupposti e le procedure del contrarre; ma, viceversa, vi sono molteplici casi (per esempio: mancanza di autorizzazione allo svolgimento dell’attività d’intermediazione mobiliare, difetto di adempimenti preliminari in materia valutaria, e simili) in cui la violazione di norme non attinenti al contenuto del negozio è stata ritenuta sufficiente a provocare la nullità.

La sentenza impugnata è poi anche censurata per avere erroneamente ritenuto che le violazioni contestate alla banca riguardassero soltanto attività prenegoziali o esecutive di contratti già conclusi. Quelle violazioni invece – a parere del ricorrente – concernevano comportamenti incidenti sulla formazione del consenso delle parti, e quindi sul contenuto dell’accordo che del contratto è uno degli elementi essenziali.

1.1. Prima di affrontare la questione controversa, giova premettere che, nell’ambito del giudizio di merito, è stato accertato come le operazioni finanziarie dalle quali trae origine il credito azionato in causa, poste in essere dal San Paolo su disposizione del *******, rientrino, per il loro oggetto e per le loro modalità negoziali ed attuative, tra quelle cui si applicava, al tempo dei fatti di causa, la disciplina della L. 2 gennaio 1991, n. 1 (in seguito abrogata e sostituita prima dal D.Lgs. 23 luglio 1996, n. 415, e poi dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, con successive modificazioni). Tale premessa, che appunto deriva essenzialmente da un accertamento in punto di fatto circa le caratteristiche di dette operazioni, è ovviamente destinata a restare ferma anche nel presente giudizio di legittimità. 1.2. Ciò posto, è utile brevemente ricordare che l’art. 6 della citata L. n. 1 del 1991 detta "principi generali e regole di comportamento" cui l’intermediario deve uniformarsi nei rapporti con il cliente. La norma, dopo aver enunciato il dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi di quest’ultimo (lett. a) e dopo aver posto a carico dell’intermediario il preliminare obbligo di pubblicare e trasmettere un documento contenente informazioni circa le proprie attività e la relativa regolamentazione, nonchè circa il proprio eventuale gruppo di appartenenza (lett. b), stabilisce che i diversi servizi alla cui prestazione l’intermediario si obbliga verso il cliente debbono essere disciplinati da un contratto scritto (perciò destinato ad assolvere alla funzione c.d. di "contratto quadro" rispetto alle singole successive attività negoziali in cui l’espletamento di quei servizi si esplicherà), contratto di cui la stessa norma indica il contenuto minimo necessario ed una copia del quale deve essere trasmessa al cliente (lett. e). Segue poi una serie di regole legali, per la gran parte volte a disciplinare la prestazione dei servizi ipotizzati nel contratto: l’intermediario deve preventivamente acquisire, sulla situazione finanziaria del cliente, le informazioni rilevanti ai fini dello svolgimento dell’attività (know your customer rule) (lett. d); deve tenere costantemente informato il cliente sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni delle operazioni e su qualsiasi altro fatto necessario per il compimento di scelte consapevoli (lett. e); non deve consigliare nè effettuare operazioni con frequenza non necessaria o di dimensioni inadeguate alla situazione finanziaria del cliente (suitability rule) (lett. f);

non può, salvo espressa autorizzazione scritta, effettuare con il cliente o per suo conto operazioni nelle quali egli abbia, direttamente o indirettamente, un interesse conflittuale (lett. g);

deve dotarsi di adeguate procedure di controllo interno (lett. h).

Siffatte regole di comportamento, in esecuzione di quanto previsto dalla disposizione della lettera a) sopra citata, sono state poi ulteriormente precisate dalla Consob con proprio regolamento (reg. n. 5386 del 1991).

Dal "contratto quadro", cui può darsi il nome di contratto d’intermediazione finanziaria e che per alcuni aspetti può essere accostato alla figura del mandato, derivano dunque obblighi e diritti reciproci dell’intermediario e del cliente. Le successive operazioni che l’intermediario compie per conto del cliente, benchè possano a loro volta consistere in atti di natura negoziale, costituiscono pur sempre il momento attuativo del precedente contratto d’intermediazione. Gli obblighi di comportamento cui alludono le citate disposizioni della L. n. 1 del 1991, art. 6 (non diversamente, del resto, da quelli previsti dall’art. 21 del più recente D.Lgs. n. 58 del 1998), tutti in qualche modo finalizzati al rispetto della clausola generale consistente nel dovere per l’intermediario di comportarsi con diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell’interesse del cliente, si collocano in parte nella fase che precede la stipulazione del contratto d’intermediazione finanziaria ed in altra parte nella fase esecutiva di esso. Attiene evidentemente alla fase prenegoziale l’obbligo di consegnare al cliente il documento informativo menzionato nella lett. b) della citata disposizione dell’art. 6, ed attiene sempre a tale fase preliminare il dovere dell’intermediario di acquisire le informazioni necessarie in ordine alla situazione finanziaria del cliente, come prescritto dalla successiva lett. d), così da poter poi adeguare ad essa la successiva operatività. Ma doveri d’informazione sussistono anche dopo la stipulazione del contratto d’intermediazione, e sono finalizzati alla sua corretta esecuzione: tale è il dovere di porre sempre il cliente in condizione di valutare appieno la natura, i rischi e le implicazioni delle singole operazioni d’investimento o di disinvestimento, nonchè di ogni altro fatto necessario a disporre con consapevolezza dette operazioni (art. cit., lett. e), e tale è il dovere di comunicare per iscritto l’esistenza di eventuali situazioni di conflitto d’interesse, come condizione per poter eseguire ugualmente l’operazione se autorizzata (lett. g). Nè può seriamente dubitarsi che anche l’obbligo dell’intermediario di tenersi informato sulla situazione del cliente, in quanto funzionale al dovere di curarne diligentemente e professionalmente gli interessi, permanga attuale durante l’intera fase esecutiva del rapporto e si rinnovi ogni qual volta la natura o l’entità della singola operazione lo richieda, per l’ovvia considerazione che la situazione del cliente non è statica bensì suscettibile di evolversi nel tempo. Attengono poi del pari al momento esecutivo del contratto i doveri di contenuto negativo posti a carico dell’intermediario: quelli di non consigliare e di non effettuare operazioni di frequenza o dimensione eccessive rispetto alla situazione finanziaria del cliente (lett. f).

1.3. Il ricorrente sostiene che, nella specie, il San Paolo ha violato alcune delle disposizioni sopra ricordate. L’istituto bancario, infatti, avrebbe suggerito, e poi direttamente eseguito in veste di controparte, operazioni nelle quali aveva un interesse conflittuale con quello del cliente (con violazione, dunque, della lett. g del citato art. 6), ed avrebbe consigliato ed eseguito operazioni eccessivamente rischiose, se rapportate alla situazione patrimoniale del medesimo cliente (con violazione, dunque, della lett. f del medesimo articolo).

Su tale presupposto il ricorrente afferma che i contratti mediante i quali il San Paolo ha, di volta in volta, compiuto dette operazioni sono da ritenere nulli, in quanto contrari a norme imperative, non potendosi condividere l’assunto della corte d’appello secondo cui la violazione delle norme sopra richiamate potrebbe generare, eventualmente, una responsabilità risarcitoria o esser causa di risoluzione dei contratti in questione, ma non anche determinarne la nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c..

E’ specificamente su questo punto, come già accennato, che è stato sollecitato l’intervento in chiave nomofilattica delle sezioni unite.

Giova però preliminarmente chiarire, a tal proposito, che nel caso in esame non si ravvisa la necessità di comporre un contrasto giurisprudenziale derivante dalla presenza di precedenti difformi decisioni delle sezioni semplici sulla questione di diritto appena riferita, perchè le diverse decisioni menzionate nell’ordinanza di rimessione hanno ad oggetto questioni diverse, nessuna della quali (ad eccezione di quella trattata nella sentenza del 29 settembre 2005, n. 19024, di cui si dirà) investe specificamente il tema della presente causa. La circostanza che tutte o alcune tra tali precedenti sentenze possano, per certi aspetti, risultare più o meno coerenti con principi di diritto sottesi ad altre pronunce non è sufficiente ad identificare un contrasto di giurisprudenza in senso proprio. Essa è però certamente sintomo del fatto che ci si trova in presenza di una questione di massima e particolare importanza, appunto perchè chiama in causa profili di principio: ciò che, d’altronde, è confermato anche dall’incertezza affiorata sul punto nella giurisprudenza di merito.

Nel prosieguo della presente sentenza non ci si soffermerà perciò tanto sull’esame dei singoli precedenti di questa corte in cui l’ordinanza di rimessione ha ravvisato il preteso contrasto di giurisprudenza, ma si affronterà direttamente la questione controversa, muovendo dall’unico precedente in termini già prima ricordato. Va da sè che le conclusioni cui si perverrà, nella misura in cui risulteranno idonee a fornire chiarimenti su questioni di principio suscettibili altresì di riflettersi su decisioni aventi oggetto ed ambiti diversi, potranno giovare a meglio definire la giurisprudenza di questa corte in termini anche più generali.

1.4. Si deve certamente convenire – ed anche l’impugnata sentenza d’altronde ne conviene – sul fatto che le norme dettate dalla citata L. n. 1 del 1991, art. 6 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite) hanno carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari (come è ora reso esplicito dalla formulazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, lett. a, ma poteva ben ricavarsi in via d’interpretazione sistematica già nel vigore della legislazione precedente), si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti.

Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall’intermediario col cliente. E’ ovvio che la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze – e se ne dirà – ma non è detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del contratto.

Innanzitutto, è evidente che il legislatore – il quale certo avrebbe potuto farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo – non ha espressamente stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase genetica del contratto e produce l’effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude l’art. 1418 c.c., comma 3.

Neppure i casi di nullità contemplati dal comma 2 dell’articolo da ultimo citato, però, sono invocabili nella situazione in esame. E’ vero che tra questi casi figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, e che il primo di tali requisiti è l’accordo delle parti. Ma, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell’intermediario sopra ricordati siano idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso – se pur di essi si possa parlare – non determinano la nullità del contratto, bensì solo la sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste dall’art. 1427 c.c. e segg..

Resta però da considerare l’ipotesi che, in casi come quello di cui qui si discute, la nullità possa dipendere dall’applicazione della disposizione dettata dal comma 1 del citato art. 1418: che si possa, cioè, predicare la nullità (c.d. virtuale) del contratto perchè contrario a norme imperative, tali essendo appunto le norme dettate dalla L. n. 1 del 1991, art. 6. 1.5. La domanda che si è appena formulata ha ricevuto già una motivata risposta negativa nella menzionata sentenza n. 19024 del 2005, pronunciata dalla prima sezione di questa corte, la quale, dopo aver affermato che la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, ha escluso che l’illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative prenegoziali ovvero nella fase dell’esecuzione del contratto stesso possa esser causa di nullità, indipendentemente dalla natura delle norme con le quali siffatta condotta contrasti, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista. Donde la conclusione che nè l’inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, nè la violazione da parte dell’intermediario del divieto di effettuare operazioni con o per conto del cliente qualora abbia un interesse conflittuale (a meno che non abbia comunicato per iscritto la natura e l’estensione del suo interesse nell’operazione ed il cliente abbia preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto all’operazione) sono idonee a cagionare nullità.

L’ordinanza di rimessione chiama ora le sezioni unite a valutare se tali affermazioni, e l’impianto argomentativo ad esse sotteso, debbano o meno esser tenute ferme, anche alla luce di un esame sistematico che tenga conto di orientamenti giurisprudenziali manifestati da questa stessa corte in campi diversi, nonchè delle tendenze legislative emerse in questo ed in altri settori, dai quali potrebbero eventualmente scaturire indicazioni di segno contrario a quelle espresse in subjecta materia dalla sentenza n. 19024 del 2005. 1.6. Il cardine intorno al quale ruota la sentenza da ultimo citata è costituito dalla riaffermazione della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: la violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità.

Che tale distinzione, sovente ribadita anche dalla dottrina, sia fortemente radicata nei principi del codice civile è difficilmente contestabile. Per persuadersene è sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede – immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., e sottostante a quasi tutti i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi compresi quelli qui in esame) – il codice civile faccia discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla sopravvivenza dell’atto (come nel caso dell’annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da determinare la nullità radicale del contratto (semmai eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile), ancorchè l’obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere imperativo. E questo anche perchè il suaccennato dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite.

L’assunto secondo il quale, nella moderna legislazione (anche per incidenza della normativa europea), la distinzione tra norme di validità e norme di comportamento starebbe tuttavia sbiadendo e sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto non è sufficiente a dimostrare il già avvenuto sradicamento dell’anzidetto principio nel sistema del codice civile.

E’ possibile che una tendenza evolutiva in tal senso sia effettivamente presente in diversi settori della legislazione speciale, ma – a parte la considerazione che molte delle disposizioni invocate a sostegno di questo assunto sono posteriori ai fatti di causa, e non varrebbero quindi a dimostrare che già a quell’epoca il legislatore avesse abbandonato la tradizionale distinzione cui s’è fatto cenno – un conto è una tendenza altro conto è un’acquisizione. E va pur detto che il carattere sempre più frammentario e sempre meno sistematico della moderna legislazione impone molta cautela nel dedurre da singole norme settoriali l’esistenza di nuovi principi per predicarne il valore generale e per postularne l’applicabilità anche in settori ed in casi diversi da quelli espressamente contemplati da singole e ben determinate disposizioni. D’altronde, non si è mai dubitato che il legislatore possa isolare specifiche fattispecie comportamentali, elevando la relativa proibizione al rango di norma di validità dell’atto, ma ciò fa ricadere quelle fattispecie nella già ricordata previsione del terzo (non già del comma 1) del citato art. 1418 c.c.. Si tratta pur sempre, in altri termini, di disposizioni particolari, che, a fronte della già ricordata impostazione del codice, nulla consente di elevare a principio generale e di farne applicazione in settori nei quali analoghe previsioni non figurano, tanto meno quando – come nel caso in esame – l’invocata nullità dovrebbe rientrare nella peculiare categoria delle cosiddette nullità di protezione, ossìa nullità di carattere relativo, che già di per sè si pongono come speciali.

1.7. Quanto appena osservato, naturalmente, non esaurisce affatto il tema, perchè occorre ancora chiedersi se una regola diversa non viga proprio nello specifico settore del diritto dei mercati finanziari.

Prima di rispondere a questo quesito, e restando per un momento ancora sul piano dei principi generali, giova però aggiungere che tanto l’impugnata sentenza della corte d’appello di Torino, quanto la più volte menzionata sentenza di questa Corte n. 19024 del 2005, sembrano individuare le norme imperative la cui violazione determina la nullità del contratto essenzialmente in quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti. Ma – si obietta – la giurisprudenza ha in passato spesse volte individuato ipotesi di nullità nella violazione di norme che invece riguardano elementi estranei a quel contenuto o a quella struttura: per esempio, in caso di mancanza di una prescritta autorizzazione a contrarre o di clausole concepite in modo da consentire l’aggiramento di divieti a contrarre (cfr., tra le altre, Cass. 19 settembre 2006, n. 20261; Cass. 10 maggio 2005, n. 9767;

Cass. 16 luglio 2003, n. 11131) o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti (cfr., tra le altre, Cass. 3 agosto 2005, n 16281; Cass. 18 luglio 2003, n. 11247; Cass. 5 aprile 2001, n. 5052; Cass. 15 marzo 2001, n, 3753; e Cass. 7 marzo 2001, n. 3272) oppure in caso di contratti le cui clausole siano tali da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti (cfr.

Cass. 8 luglio 1983, n. 4605), ed inoltre in caso di circonvenzione d’incapace (cfr. Cass. 23 maggio 2006, n. 12126; Cass. 27 gennaio 2004, n. 1427; e Cass. 29 ottobre 1994, n. 8948).

Tralasciando la circonvenzione d’incapace, con riferimento alla quale occorrerebbe forse rimeditare se ed entro quali limiti l’illiceità penale della condotta basti a giustificare l’ipotizzata nullità del contratto sotto il profilo civile, tali esempi (ed altri analoghi che si potrebbero fare) stanno certamente a dimostrare che l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell’art. 1418 c.c., comma 1, è in effetti più ampia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo. Vi sono ricomprese sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalle legge, o in mancanza dell’iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni – se così può dirsi – ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo.

Neppure in tali casi, tuttavia, si tratta di norme di comportamento afferenti alla concreta modalità delle trattative prenegoziali o al modo in cui è stata data di volta in volta attuazione agli obblighi contrattuali gravanti su una delle parti, bensì del fatto che il contratto è stato stipulato in situazioni che lo avrebbero dovuto impedire. E conviene anche osservare che, pur quando la nullità sia fatta dipendere dalla presenza nel contratto di clausole che consentono o suggeriscono comportamenti contrari al precetto di buona fede o ad altri inderogabili precetti legali, non è il comportamento in concreto tenuto dalla parte a provocare la nullità del contratto stesso, bensì il tenore della clausola in esso prevista.

1.8. Tanto chiarito, sul piano generale, è tempo di tornare alla domanda se, nello specifico settore dell’intermediazione finanziaria, sia eventualmente riscontrabile un principio di segno diverso, tale cioè da derogare al criterio di distinzione sopra tracciato tra norme di comportamento e norme di validità degli atti negoziali e da condurre ad una differente conclusione.

La risposta dev’essere negativa.

In detto settore non è dato assolutamente rinvenire indici univoci dell’intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d’informazione dell’altro contraente, alla stregua di regole di validità degli atti.

La difesa di parte ricorrente ha inteso trarre argomento dalla previsione di nullità dei contratti di prestazione a distanza dei servizi finanziari, contemplata dal D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 190, art. 16, comma 4, per il caso in cui il fornitore ostacoli l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi eventualmente pagate, oppure violi gli obblighi informativi precontrattuali in modo da alterare significativamente la rappresentazione delle caratteristiche del servizio. Ma, oltre ad essere di molto successiva ai fatti di causa, detta previsione resta sistematicamente isolata nel nostro ordinamento e presenta evidenti caratteri di specialità, che non consentono di fondare su di essa nessuna affermazione di principio.

Se si ha poi riguardo, in modo particolare, al tenore letterale delle norme dettate per disciplinare l’attività ed i contratti delle società d’intermediazione mobiliare, si constata immediatamente come il legislatore abbia espressamente ipotizzato alcune ipotesi di nullità, afferenti alla forma ed al contenuto pattizio dell’atto (L. n. 1 del 1991, art. 8, u.c., ed ora al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, commi 1, 2 e 3, ed art. 24, u.c.), nessuna delle quali appare tuttavia riconducibile alla violazione delle regole di comportamento gravanti sull’intermediario in tema di informazione del cliente e di divieto di operazioni in conflitto d’interessi o inadeguate al profilo patrimoniale del cliente medesimo. Situazioni, queste ultime, che il legislatore ha invece evidentemente tenuto in considerazione per i loro eventuali risvolti in tema di responsabilità, laddove ha espressamente posto a carico dell’intermediario l’onere della prova di aver agito con la necessaria diligenza (L. n. 1 del 1991, art. 13, u.c., ora sostituito dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, u.c.).

Nè giova appellarsi alla valenza generale dell’interesse alla correttezza del comportamento degli intermediari finanziari, per i riflessi che ne possono derivare sul buon funzionamento dell’intero mercato. Alla tutela di siffatto interesse sono preordinati il sistema dei controlli facenti capo all’autorità pubblica di vigilanza ed il regime delle sanzioni che ad esso accede, ma nulla se ne può dedurre in ordine alla pretesa nullità dei singoli contratti sul piano del diritto civile, tanto più che questa dovrebbe pur sempre logicamente esser concepita in termini di nullità di protezione, ossia di nullità relativa (come infatti indicano le citate disposizioni del D.Lgs n. 58 e del D.Lgs. n. 190, con riguardo ai casi in cui la nullità è effettivamente contemplata), e già questo, in difetto di qualsiasi norma che espressamente lo preveda, rende problematico ogni ancoraggio alla figura generale della nullità configurata dall’art. 1418 c.c., comma 1.

E’ significativo, d’altronde, che al descritto quadro normativo, per lo specifico profilo ora considerato, il legislatore non abbia mai avvertito la necessità di apportare modifiche di rilievo da quando fu emanata la L. n. 1 del 1991, nonostante le ripetute rivisitazioni di tale normativa sino al recentissimo del D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164, che ha recepito la direttiva n. 2004/39/Ce e che del pari si è astenuto dall’estendere l’esplicita previsione di nullità alla violazione delle regole di comportamento contrattuale e precontratttuale di cui si sta discutendo.

1.9. Così stando le cose, la tesi secondo cui il mancato rispetto dei surriferiti doveri comportamentali dell’intermediario nella fase prenegoziale o in quella attuativa del rapporto sarebbe idoneo a riflettersi sulla validità genetica del contratto stipulato con il cliente, priva com’è di base testuale e di supporti sistematici, potrebbe nondimeno conservare una qualche plausibilità solo ove risultasse l’unica in grado di rispondere all’esigenza – sicuramente presente nella normativa in questione e coerente con la previsione dell’art. 47 Cost., comma 1 – di incoraggiare il risparmio e garantirne la tutela. Ma è evidente che così non è, perchè non può ragionevolmente sostenersi che la suaccennata esigenza implichi necessariamente la scelta, da parte del legislatore, del mezzo di tutela consistente proprio nel prevedere la nullità dei contratti nelle situazioni in discorso, così travolgendo sia il discrimine tra regole di comportamento e regole di validità sia quello tra vizi genetici e vizi funzionali del contratto.

Richiamando la distinzione già prima tracciata tra gli obblighi che precedono ed accompagnano la stipulazione del contratto d’intermediazione e quelli che si riferiscono alla successiva fase esecutiva, può subito rilevarsi come la violazione dei primi (ove non si traduca addirittura in situazioni tali da determinare l’annullabilità – mai comunque la nullità – del contratto per vizi del consenso) è naturalmente destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale, da cui ovviamente discende l’obbligo per l’intermediario di risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l’avvenuta stipulazione del contratto. Infatti, per le ragioni già da tempo poste in luce dalla migliore dottrina e puntualmente riprese dalla citata sentenza di questa corte n. 19024 del 2005 – alla quale si intende su questo punto dare continuità – la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto.

La violazione dei doveri dell’intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d’intermediazione può assumere i connotati di un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: giacchè quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che l’eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull’inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di gravità postulati dall’art. 1455 c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d’intermediazione finanziaria in corso.

Si possono ovviamente avere opinioni diverse sul grado di efficacia della tutela in tal modo assicurata dal legislatore al risparmio dei cittadini, che negli ultimi anni sempre più ampiamente viene affidato alle cure degli intermediari finanziari. Ma non si può negare che gli strumenti di tutela esistono anche sul piano del diritto civile, essendo poi la loro specifica conformazione giuridica compito del medesimo legislatore le cui scelte l’interprete non è autorizzato a sovvertire, sicchè il ricorso allo strumento di tutela della nullità radicale del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non è giustificato.

1.10. Da ultimo, va preso in considerazione un ulteriore rilievo, su cui insiste particolarmente il ricorrente, il quale sostiene che gli obblighi per l’intermediario di non effettuare (oltre che di non consigliare) operazioni inadeguate alla situazione patrimoniale del cliente e di non effettuare operazioni in conflitto di interessi col cliente medesimo, rispettivamente contemplati dalle lett. f) e g) del citato art. 6, integrano veri e propri doveri di non fare, la cui violazione si traduce nella stipulazione di altrettanti contratti vietati da norma imperativa: il che, per quanto sopra detto, dovrebbe colpire alla radice gli atti vietati, rendendoli illeciti e perciò nulli.

A siffatto rilievo si deve però opporre che, come già in precedenza chiarito, il compimento delle operazioni di cui si tratta, ancorchè queste possano a loro volta consistere in atti di natura negoziale (ma è significativo che la norma le definisca col generico termine di "operazioni") si pone pur sempre come momento attuativo di obblighi che l’intermediario ha assunto all’atto della stipulazione col cliente del "contratto quadro". Il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d’interessi attiene, perciò, anch’esso -lo si è già notato – alla fase esecutiva di detto contratto, costituendo, al pari del dovere d’informazione, una specificazione del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Il modo stesso in cui la norma è formulata e l’esplicito accostamento dei suaccennati doveri di informazione e di cura dell’interesse del cliente, nel compimento delle singole operazioni, denota come il legislatore abbia qui sempre voluto contemplare obblighi di comportamento precontrattuali e contrattuali, non già regole di validità del contratto (sia esso il contratto d’intermediazione finanziaria o i singoli negozi con cui a quello vien data esecuzione); ed è appena il caso di osservare che, sotto tal profilo, è del tutto irrilevante la circostanza che l’operazione compiuta dall’intermediario sia consistita nel procurarsi da terzi i valori o gli strumenti finanziari ordinatigli dal cliente oppure nel fornirli egli stesso, trattandosi di varianti esecutive che non incidono sull’obbligo di diligenza cui l’intermediario è tenuto e che, ai fini del presente discorso, lasciano intatta la natura esecutiva dell’operazione da lui compiuta.

1.11. In conclusione, va perciò enunciato il principio per cui la violazione dei doveri d’informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d’investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può però determinare la nullità del contratto d’intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell’art. 1418 c.c., comma 1.

L’impugnata sentenza della corte d’appello non si è discostata da siffatto principio ed il primo motivo di ricorso non può perciò trovare accoglimento.

2. Col secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1933 c.c., nonchè vizi di omessa pronuncia e difetti di motivazione.

Afferma che la disposizione dettata dal citato art. 1933, in forza di quando stabilito dalla L. n. 2 del 1991, art. 23, risulta inapplicabile ai soli contratti uniformi a termine stipulati nei mercati regolamentati. Essa, quindi, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d’appello, avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie, in cui si trattava di contratti non corrispondenti ad alcuno dei tipi previsti dalla normativa secondaria di settore, stipulati al di fuori del mercato di borsa.

2.1. Anche questo motivo di ricorso appare infondato.

E’ assorbente rilevare, in proposito, anzitutto che la mera presenza in un contratto di un intento speculativo o di un certo grado di alea non vale a renderlo assimilabile ad un giuoco o ad una scommessa, cui sia applicabile il regime giuridico dettato dal citato art. 1933 c.c.; inoltre che, quando pure di vero e proprio gioco o scommessa si tratti, l’anzidetta norma è invocabile solo a condizione che vi sia stata partecipazione consapevole al gioco o alla scommessa di tutte le parti del rapporto (cfr., in argomento, Cass. 2 settembre 2004, n. 17689).

Ciò premesso, occorre subito osservare che l’acquisto e la vendita a termine di valuta e le altre operazioni finanziarie di cui nel presente caso si discute, pur comportando sicuramente un certo grado di alea e pur potendo essere anche ispirati da intenti speculativi da parte di chi quelle operazioni abbia disposto, non sono di per sè necessariamente riducibili ad una scommessa sul futuro andamento dei tassi di cambio, potendo altrettanto ragionevolmente fungere da strumenti di stabilizzazione del rischio. Da quanto riportato nell’impugnata sentenza non si ricava che, nella specie, le operazioni intraprese avessero caratteristiche incompatibili con lo scopo di copertura da rischi e tanto meno, quindi, si ricava che nel giudizio di merito sia stata raggiunta la prova che il San Paolo fosse consapevole di essere entrato con il ******* in un rapporto di gioco o scommessa. Tanto basta a rendere non applicabile nella fattispecie in esame della previsione del citato art. 1933. 3. Il terzo motivo di ricorso è volto a denunciare la violazione degli artt. 633 e 125 c.p.c., oltre che vizi di motivazione dell’impugnata pronuncia. Nega infatti il ricorrente che le censure formulate nell’atto d’appello in ordine alla ritualità dell’ingiunzione ed al difetto di valida pattuizione di interessi convenzionali fossero generiche, in rapporto alle apodittiche affermazioni contenute su tali punti nella sentenza di primo grado.

3.1. Neppure tale doglianza è meritevole di accoglimento.

Va premesso che i rilievi riguardanti la ritualità del procedimento monitorio sono superati dall’intervenuta revoca del decreto ingiuntivo e dal fatto che la condanna al pagamento di una somma di denaro è stata pronunciata all’esito di un giudizio di opposizione da considerarsi, per questo profilo, del tutto equivalente ad un ordinario giudizio di cognizione.

Quanto agli altri rilievi, va detto che l’inammissibilità di motivi d’appello che si sostanzino nel generico richiamo alle difese di primo grado non è sanata dall’asserita insufficienza della motivazione in base alla quale quelle difese siano state rigettate dal giudice a quo. Vi osta pur sempre il principio della specificità dei motivi di gravame: principio che assolve alla duplice funzione di delimitare l’estensione del perciò postula la specificazione, sia pure in forma succinta, degli errori attribuiti alla sentenza di primo grado, ivi compreso eventualmente quello consistente proprio nell’insufficienza della motivazione posta a sostegno della decisione di rigetto.

4. Il quarto motivo di ricorso mette in discussione la declaratoria d’inammissibilità della domanda di risarcimento dei danni proposta dal ******.. Declaratoria che il ricorrente, denunciano la violazione degli artt. 183 e 189 c.p.c., nonchè vizi di motivazione della sentenza impugnata, ritiene errata perchè la corte d’appello non ha considerato che i fatti posti a base della pretesa risarcitoria formalizzata in corso di causa erano già stati sostanzialmente riferiti nell’atto introduttivo, che la domanda non poteva pertanto considerarsi davvero nuova e che, comunque, la tacita accettazione del contraddittorio ad opera della controparte avrebbe dovuto indurre senz’altro la corte territoriale ad esaminarla nel merito.

4.1. La riferita censura è manifestamente infondata.

E’ appena il caso di ricordare che, con riferimento ai profili processuali, questa corte è anche giudice del fatto, di modo che non possono trovare autonomo spazio doglianze concernenti pretesi vizi della motivazione del provvedimento impugnato.

Va poi confermato il principio secondo cui il regime di preclusioni introdotto nel codice di rito dalla L. n. 353 del 1990, è inteso non solo a tutela dell’interesse di parte ma anche dell’interesse pubblico al corretto e celere andamento del processo, con la conseguenza che la tardività di domande, eccezioni, allegazioni e richieste deve essere rilevata d’ufficio dal giudice indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte al riguardo (cfr. tra le altre, Cass., 27 luglio 2006, n. 17152; e Cass. 11 maggio 2005, n. 9875).

Tanto basta a confermare la correttezza della declaratoria d’inammissibilità della domanda di risarcimento dei danni tardivamente proposta dal ******.. Non può infatti da alcun punto di vista ritenersi che detta domanda fosse, sia pur solo implicitamente, già contenuta nell’atto introduttivo del giudizio, nel quale nessuna riconvenzionale era stata proposta, nè davvero si vede come le argomentazioni ivi formulate possano esser poste al servizio di un petitum risarcitorio del tutto inespresso.

5. L’ultimo motivo di ricorso ha ad oggetto la statuizione sulle spese di causa, che la corte d’appello ha ritenuto di dover liquidare prescindendo dalla tariffa forense, ritenuta non conforme al Trattato Ue: del che il ricorrente si duole.

5.1. La doglianza appare, tuttavia, inammissibile.

Essa, infatti, non è corredata dall’indicazione di alcun dato dal quale sia possibile ricostruire con certezza quale onorario avrebbe potuto esser liquidato dal giudice d’appello in applicazione della richiamata tariffa forense, nè ad un tale accertamento può procedere questa corte d’ufficio. Non è dato quindi con certezza sapere se la liquidazione in concreto operata sia stata, per il ricorrente, meno favorevole di quella cui si sarebbe pervenuti applicando il criterio legale che egli invoca, e ciò impedisce di vagliare la sussistenza del concreto interesse che, a pena d’inammissibilità, deve sorreggere la proposta censura.

6. Il ricorso va quindi rigettato.

La complessità della questione che ha comportato l’intervento delle sezioni unite, la mancanza di precedenti giurisprudenziali di questa corte sul punto, all’epoca della proposizione del ricorso, e la varietà delle soluzioni offerte al riguardo dalla giurisprudenza di merito fanno apparire equa la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La corte, pronunciando a sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Redazione