Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 19/12/2007 n. 26724; Pres. Carbone V.

Redazione 19/12/07
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 21 agosto 1995 il presidente del Tribunale di Torino, accogliendo un ricorso proposto dall’Istituto Bancario San Paolo (cui è poi succeduta la San Paolo IMI s.p.a., e che in prosieguo sarà comunque indicato solo come San Paolo), ingiunse con decreto alla Fin., Com.

Valori s.r.l. (in prosieguo Fincom) di pagare all’istituto ricorrente la somma di L. 4.371.350.619, costituente il saldo debitorio di un conto corrente al quale accedeva una linea di credito per operazioni in valuta e per operazioni su titoli derivati. Col medesimo decreto fu altresì ingiunto alla Edilcentro Immobiliare s.r.l. (in prosieguo Edilcentro) il pagamento di L. 1.500.000.000 ed al Sig. G. L. il pagamento di L. 2.500.000.000, in forza delle garanzie da costoro a suo tempo prestate.

Gli ingiunti proposero separate opposizioni, poi riunite. Oltre a sollevare contestazioni sulla ritualità del procedimento monitorio, sull’addebito della commissione di massimo scoperto, sulla decorrenza e sulla misura degli interessi convenzionali applicati, essi eccepirono l’invalidità dei contratti stipulati, in quanto estranei all’oggetto sociale della Fincom, e negarono che ai crediti della banca derivanti dall’esecuzione di detti contratti competesse azione per il pagamento, trattandosi di negozi assimilabili al gioco o alla scommessa e perciò rientranti nella previsione dell’art. 1933 c.c..

Sostennero poi che il passivo accumulato sul conto era frutto di operazioni finanziarie nel compimento delle quali l’istituto di credito era venuto meno ai doveri impostigli dall’art. 6 dell’allora vigente L. n. 1 del 1991, perchè aveva suggerito investimenti estremamente rischiosi senza adeguata informazione per il cliente ed in eccesso rispetto alle disponibilità finanziarie del medesimo e perchè aveva agito in conflitto d’interessi con il cliente medesimo.

La Fincom chiese perciò anche, in via riconvenzionale, la condanna in proprio favore del San Paolo al risarcimento dei danni. La sola Edilcentro eccepì inoltre l’invalidità della concessa fideiussione, sia perchè estranea al proprio oggetto sociale, sia perchè rilasciata da un amministratore, il già menzionato *******, che versava in conflitto d’interessi essendo al tempo stesso anche amministratore della Fincom.

In corso di causa gli opponenti eccepirono altresì la nullità dei contratti dai quali le perdite erano scaturite, per violazione delle norme imperative contenute nella citata L. n. 1, art. 6, ed anche il sig. G. formulò domanda di risarcimento dei danni.

L’opposizione fu accolta dal tribunale, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo, solo per i profili attinenti alla commissione di massimo scoperto ed alla decorrenza degli interessi. Le ulteriori ragioni addotte dagli opponenti non furono invece ritenute fondate ed i medesimi opponenti furono perciò condannati al pagamento del debito capitale indicato nel ricorso monitorio, oltre agli interessi al tasso convenzionale richiesto.

I gravami proposti contro tale decisione dalla Fim.com, dalla Edilcentro e dal ******* furono riuniti e rigettati dalla Corte d’appello di Torino con sentenza depositata il 10 novembre 2001.

La corte piemontese ritenne infondata l’eccezione di nullità dei contratti aventi ad oggetto le operazioni finanziarie in questione osservando che le violazioni dedotte in causa riguardavano la condotta prenegoziale dell’istituto di credito, oppure obblighi legali accessori afferenti all’adempimento dei contratti già conclusi, ma non potevano riflettersi sulla validità di detti contratti. Escluse che alle menzionate operazioni potesse applicarsi la previsione dell’art. 1933 c.c., rientrando esse tra quelle che la L. n. 1 del 1991, art. 23, espressamente sottrae alla citata previsione del codice. Stimò inammissibili, perchè generiche, le doglianze riguardanti la ritualità del procedimento monitorio e la misura degli interessi debitori. Negò che le più volte richiamate operazioni finanziarie potessero dirsi estranee all’oggetto sociale della Fincom e considerò che, comunque, non vi era prova dell’ipotizzata mala fede dell’istituto di credito in ordine all’asserita estraneità di dette operazioni all’oggetto sociale. Per analoghe ragioni la corte giudicò infondata anche l’eccezione di estraneità della fideiussione prestata della Edilcentro all’oggetto sociale di quest’ultima società, ed escluse la configurabilità della situazione di conflitto di interessi in cui l’amministratore si sarebbe trovato nel rilasciare fideiussione per debiti di altra società appartenente al medesimo gruppo. Quanto, infine, alle domande di risarcimento dei danni, la corte d’appello dichiarò inammissibile quella proposta tardivamente, solo in corso di causa, dal *******; reputò invece ammissibile, nei soli limiti dell’originaria formulazione, quella proposta dalla Fincom, ma non fondata, per difetto di prova del nesso causale tra il danno sofferto da detta società e l’asserita situazione di conflitto d’interessi in cui l’istituto di credito avrebbe agito e per essere rimasto indimostrato che i funzionari di detto istituto avevano istigato il cliente a compiere operazioni eccessivamente rischiose. Seguì la condanna in solido degli appellanti alle spese del grado, comprensive di compensi professionali liquidati però non secondo i dettami della tariffa forense, ritenuta inapplicabile alla stregua dei principi desumibili dal Trattato dell’Unione europea, bensì sulla base dei parametri posti dall’art. 2233 c.c., comma 2.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione, articolato in otto motivi ed illustrato con memoria, la Fincom, la Edilcentro ed il Sig. G..

Ha resistito con controricorso e memoria il San Paolo.

Con ordinanza n. 3683 del 16 febbraio 2007, la prima sezione civile di questa corte ha rilevato che, nella sentenza della stessa prima sezione del 29 settembre 2005, n. 19024, èò stato escluso che l’inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, possa cagionare la nullità del negozio, poichè quegli obblighi informativi riguardano elementi utili per la valutazione della convenienza dell’operazione e la loro violazione non da luogo a mancanza del consenso, e perchè la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula una violazione attinente ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, e non invece all’illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative ovvero in fase di esecuzione, a meno che questa sanzione non sìa espressamente prevista anche in riferimento a dette ipotesi. Nella citata ordinanza della prima sezione è stato però manifestato il dubbio che il principio dianzi ricordato, quantunque corrispondente ad un tradizionale filone giurisprudenziale, non sia coerente con i presupposti da cui muovono molteplici altre decisioni di questa corte: la quale ha ravvisato ipotesi di nullità c.d. virtuale del contratto in caso di mancanza di autorizzazione a contrarre o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti, in caso di contratti concepiti in modo da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti o da consentire l’aggiramento di divieti a contrarre, ed in caso di circonvenzione d’incapace. Situazioni, queste, nelle quali è appunto la violazione di norme imperative concernenti la fase precontrattuale o le modalità esecutive del rapporto contrattuale a venire in evidenza.

D’altronde – ha osservato ancora l’ordinanza – il tradizionale principio di non interferenza delle regole di comportamento con quelle di validità del negozio, cui la citata sentenza n. 19024/05 si ispira, appare incrinato da molteplici recenti interventi del legislatore, che assegnano rilievo al comportamento contrattuale delle parti anche ai fini della validità del contratto: tali la L. n. 192 del 1998, art. 9, in tema di abuso di dipendenza economica nei contratti di subfornitura di attività produttive, l’art. 52, comma 3, del codice del consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005), in tema di contratti stipulati telefonicamente, l’art. 34 del citato codice, in tema di clausole vessatorie, il D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 7, in tema di clausola di dilazione dei termini di pagamento, e la L. n. 287 del 1990, art. 3, in tema di clausole imposte con abuso di posizione dominante.

Il ricorso è stato perciò rimesso alle sezioni unite, sia per dirimere il ravvisato contrasto di giurisprudenza sull’interferenza tra regole di comportamento e regole di validità del contratto, sia comunque perchè si tratta di questione di massima e di particolare importanza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso tocca la questione di diritto per la cui risoluzione sono state investite le sezioni unite.

I ricorrenti, lamentando la violazione dell’art. 1418 c.c., e della L. 2 gennaio 1991, n. 1, art. 6, nonchè vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, criticano la corte d’appello per aver affermato che la violazione delle prescrizioni con cui il citato art. 6, impone determinati comportamenti agli intermediari finanziari nei riguardi dei propri clienti, incidendo tali prescrizioni sul momento prenegoziale o su quello esecutivo ma non sul contenuto del contratto, non potrebbe determinarne la nullità. Altrimenti – argomentano i ricorrenti – non sarebbe mai possibile far discendere la nullità del contratto dalla violazione di norme imperative che pongono limiti alla libertà delle parti con riferimento a situazioni esterne al negozio, come ad esempio quelle concernenti la qualità dei contraenti o i presupposti e le procedure del contrarre; ma, viceversa, vi sono molteplici casi (per esempio: mancanza di autorizzazione allo svolgimento dell’attività d’intermediazione mobiliare, difetto di adempimenti preliminari in materia valutaria, e simili) in cui la violazione di norme non attinenti al contenuto del negozio è stata ritenuta sufficiente a provocare la nullità.

La sentenza impugnata è poi anche censurata per avere erroneamente ritenuto che le violazioni contestate alla banca riguardassero soltanto attività prenegoziali o esecutive di contratti già conclusi. Quelle violazioni invece – a parere dei ricorrenti – concernevano comportamenti incidenti sulla formazione del consenso delle parti, e quindi sul contenuto dell’accordo che del contratto è uno degli elementi essenziali.

1.1. Prima di affrontare la questione controversa, giova premettere che, nell’ambito del giudizio di merito, è stato accertato come le operazioni finanziarie dalle quali trae origine il credito azionato in causa, poste in essere dal San Paolo su disposizione della Fincom e corredate dalle garanzie fideiussorie della Edilcentro e del *******, rientrino, per il loro oggetto e per le loro modalità negoziali ed attuative, tra quelle cui si applicava, al tempo dei fatti di causa, la disciplina della L. 2 gennaio 1991, n. 1 (in seguito abrogata e sostituita prima dal D.Lgs. 23 luglio 1996, n. 415, e poi dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, con successive modificazioni). Tale premessa, che appunto deriva essenzialmente da un accertamento in punto di fatto circa le caratteristiche di dette operazioni, è ovviamente destinata a restare ferma anche nel presente giudizio di legittimità. 1.2. Ciò posto, è utile brevemente ricordare che la citata L. n. 1 del 1991, art. 6, detta "principi generali e regole di comportamento" cui l’intermediario deve uniformarsi nei rapporti con il cliente. La norma, dopo aver enunciato il dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi di quest’ultimo (lett. a) e dopo aver posto ai carico dell’intermediario il preliminare obbligo di pubblicare e trasmettere un documento contenente informazioni circa le proprie attività e la relativa regolamentazione, nonchè circa il proprio eventuale gruppo di appartenenza (lett. b), stabilisce che i diversi servizi alla cui prestazione l’intermediario si obbliga verso il cliente debbono essere disciplinati da un contratto scritto (perciò destinato ad assolvere alla funzione c.d. di "contratto quadro" rispetto alle singole successive attività negoziali in cui l’espletamento di quei servizi si esplicherà), contratto di cui la stessa norma indica il contenuto minimo necessario ed una copia del quale deve essere trasmessa al cliente (lett. c). Segue poi una serie di regole legali, per la gran parte volte a disciplinare la prestazione dei servizi ipotizzati nel contratto: l’intermediario deve preventivamente acquisire, sulla situazione finanziaria del cliente, le informazioni rilevanti ai fini dello svolgimento dell’attività (know your customer rule) (lett. d);

deve tenere costantemente informato il cliente sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni delle operazioni e su qualsiasi altro fatto necessario per il compimento di scelte consapevoli (lett. e);

non deve consigliare nè effettuare operazioni con frequenza non necessaria o di dimensioni inadeguate alla situazione finanziaria del cliente (suitability rule) (lett. f); non può, salvo espressa autorizzazione scritta, effettuare con il cliente o per suo conto operazioni nelle quali egli abbia, direttamente o indirettamente, un interesse conflittuale (lett. g); deve dotarsi di adeguate procedure di controllo interno (lett. h). Siffatte regole di comportamento, in esecuzione di quanto previsto dalla disposizione della lettera a) sopra citata, sono state poi ulteriormente precisate dalla Consob con proprio regolamento (reg. n. 5386 del 1991).

Dal "contratto quadro", cui può darsi il nome di contratto d’intermediazione finanziaria e che per alcuni aspetti può essere accostato alla figura del mandato, derivano dunque obblighi e diritti reciproci dell’intermediario e del cliente. Le successive operazioni che l’intermediario compie per conto del cliente, benchè possano a loro volta consistere in atti di natura negoziale, costituiscono pur sempre il momento attuativo del precedente contratto d’intermediazione. Gli obblighi di comportamento cui alludono le citate disposizioni della L. n. 1 del 1991, art. 6 (non diversamente, del resto, da quelli previsti dall’art. 21 del più recente D.Lgs. n. 58 del 1998), tutti in qualche modo finalizzati al rispetto della clausola generale consistente nel dovere per l’intermediario di comportarsi con diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell’interesse del cliente, si collocano in parte nella fase che precede la stipulazione del contratto d’intermediazione finanziaria ed in altra parte nella fase esecutiva di esso. Attiene evidentemente alla fase prenegoziale l’obbligo di consegnare al cliente il documento informativo menzionato nella lett. b) della citata disposizione dell’art. 6, ed attiene sempre a tale fase preliminare il dovere dell’intermediario di acquisire le informazioni necessarie in ordine alla situazione finanziaria del cliente, come prescritto dalla successiva lett. d), così da poter poi adeguare ad essa la successiva operatività. Ma doveri d’informazione sussistono anche dopo la stipulazione del contratto d’intermediazione, e sono finalizzati alla sua corretta esecuzione: tale è il dovere di porre sempre il cliente in condizione di valutare appieno la natura, i rischi e le implicazioni delle singole operazioni d’investimento o di disinvestimento, nonchè di ogni altro fatto necessario a disporre con consapevolezza dette operazioni (art. cit., lett. e), e tale è il dovere di comunicare per iscritto l’esistenza di eventuali situazioni di conflitto d’interesse, come condizione per poter eseguire ugualmente l’operazione se autorizzata (lett. g). Nè può seriamente dubitarsi che anche l’obbligo dell’intermediario di tenersi informato sulla situazione del cliente, in quanto funzionale al dovere di curarne diligentemente e professionalmente gli interessi, permanga attuale durante l’intera fase esecutiva del rapporto e si rinnovi ogni qual volta la natura o l’entità della singola operazione lo richieda, per l’ovvia considerazione che la situazione del cliente non è statica bensì suscettibile di evolversi nel tempo. Attengono poi del pari al momento esecutivo del contratto i doveri di contenuto negativo posti a carico dell’intermediario: quelli di non consigliare e di non effettuare operazioni di frequenza o dimensione eccessive rispetto alla situazione finanziaria del cliente (lett. f).

1.3. I ricorrenti sostengono che, nella specie, il San Paolo ha violato alcune delle disposizioni sopra ricordate. L’istituto bancario, infatti, avrebbe suggerito, e poi direttamente eseguito in veste di controparte, operazioni nelle quali aveva un interesse conflittuale con quello della cliente Fincom (con violazione, dunque, della lett. g del citato art. 6), ed avrebbe consigliato ed eseguito operazioni eccessivamente rischiose, se rapportate alla situazione patrimoniale della medesima Fincom (con violazione, dunque, della lett. f del medesimo articolo).

Su tale presupposto i ricorrenti affermano che i contratti mediante i quali il San Paolo ha, di volta in volta, compiuto dette operazioni sono da ritenere nulli, in quanto contrari a norme imperative, non potendosi condividere l’assunto della corte d’appello secondo cui la violazione delle norme sopra richiamate potrebbe generare, eventualmente, una responsabilità risarcitoria o esser causa di risoluzione dei contratti in questione, ma non anche determinarne la nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c..

E’ specificamente su questo punto, come già accennato, che è stato sollecitato l’intervento in chiave nomofilattica delle sezioni unite.

Giova però preliminarmente chiarire, a tal proposito, che nel caso in esame non si ravvisa la necessità di comporre un contrasto giurisprudenziale derivante dalla presenza di precedenti difformi decisioni delle sezioni semplici sulla questione di diritto appena riferita, perchè le diverse decisioni menzionate nell’ordinanza di rimessione hanno ad oggetto questioni diverse, nessuna della quali (ad eccezione di quella trattata nella sentenza del 29 settembre 2005, n. 19024, di cui si dirà) investe specificamente il tema della presente causa. La circostanza che tutte o alcune tra tali precedenti sentenze possano, per certi aspetti, risultare più o meno coerenti con principi di diritto sottesi ad altre pronunce non è sufficiente ad identificare un contrasto di giurisprudenza in senso proprio. Essa è però certamente sintomo del fatto che ci si trova in presenza di una questione di massima e particolare importanza, appunto perchè chiama in causa profili di principio: ciò che, d’altronde, è confermato anche dall’incertezza affiorata sul punto nella giurisprudenza di merito.

Nel prosieguo della presente sentenza non ci si soffermerà perciò tanto sull’esame dei singoli precedenti di questa corte in cui l’ordinanza di rimessione ha ravvisato il preteso contrasto di giurisprudenza, ma si affronterà direttamente la questione controversa, muovendo dall’unico precedente in termini già prima ricordato. Va da sè che le conclusioni cui si perverrà, nella misura in cui risulteranno idonee a fornire chiarimenti su questioni di principio suscettibili altresì di riflettersi su decisioni aventi oggetto ed ambiti diversi, potranno giovare a meglio definire la giurisprudenza di questa corte in termini anche più generali.

1.4. Si deve certamente convenire – ed anche l’impugnata sentenza d’altronde ne conviene – sul fatto che le norme dettate dalla citata L. n. 1 del 1991, art. 6 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite) hanno carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari (come è ora reso esplicito dalla formulazione del D.Lgs n. 58 del 1998, art. 21, lett. a, ma poteva ben ricavarsi in via d’interpretazione sistematica già nel vigore della legislazione precedente), si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti.

Questo rilievo, tuttavìa, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall’intermediario col cliente. E’ ovvio che la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze – e se ne dirà – ma non è detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del contratto.

Innanzitutto, è evidente che il legislatore – il quale certo avrebbe potuto farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo – non ha espressamente stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase genetica del contratto e produce l’effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude l’art. 1418 c.c., comma 3.

Neppure i casi di nullità contemplati dal comma 2, dell’articolo da ultimo citato, però, sono invocabili nella situazione in esame. E’ vero che tra questi casi figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, e che il primo di tali requisiti è l’accordo delle parti. Ma, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell’intermediario sopra ricordati siano idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso – se pur di essi sì possa parlare – non determinano la nullità del contratto, bensì solo la sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste dall’art. 1427 c.c. e segg..

Resta però da considerare l’ipotesi che, in casi come quello di cui qui si discute, la nullità possa dipendere dall’applicazione della disposizione dettata dal comma 1 del citato art. 1418: che si possa, cioè, predicare la nullità (c.d. virtuale) del contratto perchè contrario a norme imperative, tali essendo appunto le norme dettate dalla L. n. 1 del 1991, art. 6. 1.5. La domanda che si è appena formulata ha ricevuto già una motivata risposta negativa nella menzionata sentenza n. 19024 del 2005, pronunciata dalla prima sezione di questa corte, la quale, dopo aver affermato che la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, ha escluso che l’illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative prenegoziali ovvero nella fase dell’esecuzione del contratto stesso possa esser causa di nullità, indipendentemente dalla natura delle norme con le quali siffatta condotta contrasti, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista. Donde la conclusione che nè l’inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, nè la violazione da parte dell’intermediario del divieto di effettuare operazioni con o per conto del cliente qualora abbia un interesse conflittuale (a meno che non abbia comunicato per iscritto la natura e l’estensione del suo interesse nell’operazione ed il cliente abbia preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto all’operazione) sono idonee a cagionare nullità.

L’ordinanza di rimessione chiama ora le sezioni unite a valutare se tali affermazioni, e l’impianto argomentativo ad esse sotteso, debbano o meno esser tenute ferme, anche alla luce di un esame sistematico che tenga conto di orientamenti giurisprudenziali manifestati da questa stessa corte in campi diversi, nonchè delle tendenze legislative emerse in questo ed in altri settori, dai quali potrebbero eventualmente scaturire indicazioni di segno contrario a quelle espresse in subjecta materia dalla sentenza n. 19024 del 2005. 1.6. Il cardine intorno al quale ruota la sentenza da ultimo citata è costituito dalla riaffermazione della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: la violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità.

Che tale distinzione, sovente ribadita anche dalla dottrina, sia fortemente radicata nei principi del codice civile è difficilmente contestabile. Per persuadersene è sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede – immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., e sottostante a quasi tutti i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi compresi quelli qui in esame) – il codice civile faccia discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla sopravvivenza dell’atto (come nel caso dell’annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da determinare la nullità radicale del contratto (semmai eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile), ancorchè l’obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere imperativo. E questo anche perchè il suaccennato dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite.

L’assunto secondo il quale, nella moderna legislazione (anche per incidenza della normativa europea), la distinzione tra norme di validità e norme di comportamento starebbe tuttavia sbiadendo e sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto non è sufficiente a dimostrare il già avvenuto sradicamento dell’anzidetto principio nel sistema del codice civile.

E’ possibile che una tendenza evolutiva in tal senso sia effettivamente presente in diversi settori della legislazione speciale, ma – a parte la considerazione che molte delle disposizioni invocate a sostegno di questo assunto sono posteriori ai fatti di causa, e non varrebbero quindi a dimostrare che già a quell’epoca il legislatore avesse abbandonato la tradizionale distinzione cui s’è fatto cenno – un conto è una tendenza altro conto è un’acquisizione. E va pur detto che il carattere sempre più frammentario e sempre meno sistematico della moderna legislazione impone molta cautela nel dedurre da singole norme settoriali l’esistenza di nuovi principi per predicarne il valore generale e per postularne l’applicabilità anche in settori ed in casi diversi da quelli espressamente contemplati da singole e ben determinate disposizioni. D’altronde, non si è mai dubitato che il legislatore possa isolare specifiche fattispecie comportamentali, elevando la relativa proibizione al rango di norma di validità dell’atto, ma ciò fa ricadere quelle fattispecie nella già ricordata previsione del terzo (non già del comma 1) del citato art. 1418. Si tratta pur sempre, in altri termini, di disposizioni particolari, che, a fronte della già ricordata impostazione del codice, nulla consente di elevare a principio generale e di farne applicazione in settori nei quali analoghe previsioni non figurano, tanto meno quando – come nel caso in esame – l’invocata nullità dovrebbe rientrare nella peculiare categoria delle cosiddette nullità di protezione, ossia nullità di carattere relativo, che già di per sè si pongono come speciali.

1.7. Quanto appena osservato, naturalmente, non esaurisce affatto il tema, perchè occorre ancora chiedersi se una regola diversa non viga proprio nello specifico settore del diritto dei mercati finanziari.

Prima di rispondere a questo quesito, e restando per un momento ancora sul piano dei principi generali, giova però aggiungere che tanto l’impugnata sentenza della corte d’appello di Torino, quanto la più volte menzionata sentenza di questa Corte n. 19024 del 2005, sembrano individuare le norme imperative la cui violazione determina la nullità del contratto essenzialmente in quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti. Ma – si obietta – la giurisprudenza ha in passato spesse volte individuato ipotesi di nullità nella violazione di norme che invece riguardano elementi estranei a quel contenuto o a quella struttura: per esempio, in caso di mancanza di una prescritta autorizzazione a contrarre o di clausole concepite in modo da consentire l’aggiramento di divieti a contrarre (cfr., tra le altre, Cass. 19 settembre 2006, n. 20261; Cass. 10 maggio 2005, n. 9767;

Cass. 16 luglio 2003, n. 11131) o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti (cfr., tra le altre, Cass. 3 agosto 2005, n 16281; Cass. 18 luglio 2003, n. 11247; Cass. 5 aprile 2001, n. 5052; Cass. 15 marzo 2001, n, 3753; e Cass. 7 marzo 2001, n. 3272) oppure in caso di contratti le cui clausole siano tali da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti (cfr.

Cass. 8 luglio 1983, n. 4605), ed inoltre in caso di circonvenzione d’incapace (cfr. Cass. 23 maggio 2006, n, 12126; ; Cass. 27 gennaio 2004, n. 1427; e Cass. 29 ottobre 1994, n. 8948).

Tralasciando la circonvenzione d’incapace, con riferimento alla quale occorrerebbe forse rimeditare se ed entro quali limiti l’illiceità penale della condotta basti a giustificare l’ipotizzata nullità del contratto sotto il profilo civile, tali esempi (ed altri analoghi che si potrebbero fare) stanno certamente a dimostrare che l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell’art. 1418 c.c., comma 1, è in effetti più ampia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo. Vi sono ricomprese sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalle legge, o in mancanza dell’iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni – se così può dirsi – ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo.

Neppure in tali casi, tuttavia, si tratta di norme di comportamento afferenti alla concreta modalità delle trattative prenegoziali o al modo in cui è stata data di volta in volta attuazione agli obblighi contrattuali gravanti su una delle parti, bensì del fatto che il contratto è stato stipulato in situazioni che lo avrebbero dovuto impedire. E conviene anche osservare che, pur quando la nullità sia fatta dipendere dalla presenza nel contratto di clausole che consentono o suggeriscono comportamenti contrari al precetto di buona fede o ad altri inderogabili precetti legali, non è il comportamento in concreto tenuto dalla parte a provocare la nullità del contratto stesso, bensì il tenore della clausola in esso prevista.

1.8. Tanto chiarito, sul piano generale, è tempo di tornare alla domanda se, nello specifico settore dell’intermediazione finanziaria, sia eventualmente riscontrabile un principio di segno diverso, tale cioè da derogare al criterio di distinzione sopra tracciato tra norme di comportamento e norme di validità degli atti negoziali e da condurre ad una differente conclusione.

La risposta dev’essere negativa.

In detto settore non è dato assolutamente rinvenire indici univoci dell’intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d’informazione dell’altro contraente, alla stregua di regole di validità degli atti.

La difesa di parte ricorrente ha inteso trarre argomento dalla previsione di nullità dei contratti di prestazione a distanza dei servizi finanziari, contemplata dal D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 190, art. 16, comma 4, per il caso in cui il fornitore ostacoli l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi eventualmente pagate, oppure violi gli obblighi informativi precontrattuali in modo da alterare significativamente la rappresentazione delle caratteristiche del servizio. Ma, oltre ad essere di molto successiva ai fatti di causa, detta previsione resta sistematicamente isolata nel nostro ordinamento e presenta evidenti caratteri di specialità, che non consentono di fondare su di essa nessuna affermazione di principio.

Se si ha poi riguardo, in modo particolare, al tenore letterale delle norme dettate per disciplinare l’attività ed i contratti delle società d’intermediazione mobiliare, si constata immediatamente come il legislatore abbia espressamente ipotizzato alcune ipotesi di nullità, afferenti alla forma ed al contenuto pattizio dell’atto (L. n. 1 del 1991, art. 8, u.c., ed ora al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, commi 1, 2 e 3, ed art. 24, u.c.), nessuna delle quali appare tuttavia riconducibile alla violazione delle regole di comportamento gravanti sull’intermediario in tema di informazione del cliente e di divieto di operazioni in conflitto d’interessi o inadeguate al profilo patrimoniale del cliente medesimo. Situazioni, queste ultime, che il legislatore ha invece evidentemente tenuto in considerazione per i loro eventuali risvolti in tema di responsabilità, laddove ha espressamente posto a carico dell’intermediario l’onere della prova di aver agito con la necessaria diligenza (L. n. 1 del 1991, art. 13, u.c., ora sostituito dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, u.c.).

Nè giova appellarsi alla valenza generale dell’interesse alla correttezza del comportamento degli intermediari finanziari, per i riflessi che ne possono derivare sul buon funzionamento dell’intero mercato.

Alla tutela di siffatto interesse sono preordinati il sistema dei controlli facenti capo all’autorità pubblica di vigilanza ed il regime delle sanzioni che ad esso accede, ma nulla se ne può dedurre in ordine alla pretesa nullità dei singoli contratti sul piano del diritto civile, tanto più che questa dovrebbe pur sempre logicamente esser concepita in termini di nullità di protezione, ossia di nullità relativa (come infatti indicano le citate disposizioni del D.Lgs. n. 58 e del D.Lgs. n. 190, con riguardo ai casi in cui la nullità è effettivamente contemplata), e già questo, in difetto di qualsiasi norma che espressamente lo preveda, rende problematico ogni ancoraggio alla figura generale della nullità configurata dall’art. 1418 c.c., comma 1.

E’ significativo, d’altronde, che al descritto quadro normativo, per lo specifico profilo ora considerato, il legislatore non abbia mai avvertito la necessità di apportare modifiche di rilievo da quando fu emanata la L. n. 1 del 1991, nonostante le ripetute rivisitazioni di tale normativa sino al recentissimo del D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164, che ha recepito la direttiva n. 2004/39/Ce e che del pari si è astenuto dall’estendere l’esplicita previsione di nullità alla violazione delle regole di comportamento contrattuale e precontrattuale di cui si sta discutendo.

1.9. Così stando le cose, la tesi secondo cui il mancato rispetto dei surriferiti doveri comportamentali dell’intermediario nella fase prenegoziale o in quella attuativa del rapporto sarebbe idoneo a riflettersi sulla validità genetica del contratto stipulato con il cliente, priva com’è di base testuale e di supporti sistematici, potrebbe nondimeno conservare una qualche plausibilità solo ove risultasse l’unica in grado di rispondere all’esigenza – sicuramente presente nella normativa in questione e coerente con la previsione dell’art. 47 Cost., comma 1 – di incoraggiare il risparmio e garantirne la tutela. Ma è evidente che così non è, perchè non può ragionevolmente sostenersi che la suaccennata esigenza implichi necessariamente la scelta, da parte del legislatore, del mezzo di tutela consistente proprio nel prevedere la nullità dei contratti nelle situazioni in discorso, così travolgendo sia il discrimine tra regole di comportamento e regole di validità sia quello tra vizi genetici e vizi funzionali del contratto.

Richiamando la distinzione già prima tracciata tra gli obblighi che precedono ed accompagnano la stipulazione del contratto d’intermediazione e quelli che si riferiscono alla successiva fase esecutiva, può subito rilevarsi come la violazione dei primi (ove non si traduca addirittura in situazioni tali da determinare l’annullabilità – mai comunque la nullità – del contratto per vizi del consenso) è naturalmente destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale, da cui ovviamente discende l’obbligo per l’intermediario di risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l’avvenuta stipulazione del contratto. Infatti, per le ragioni già da tempo poste in luce dalla migliore dottrina e puntualmente riprese dalla citata sentenza di questa corte n. 19024 del 2005 – alla quale si intende su questo punto dare continuità – la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto.

La violazione dei doveri dell’intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d’intermediazione può assumere i connotati di un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: giacchè quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che l’eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull’inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di gravità postulati dall’art. 1455 c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d’intermediazione finanziaria in corso.

Si possono ovviamente avere opinioni diverse sul grado di efficacia della tutela in tal modo assicurata dal legislatore al risparmio dei cittadini, che negli ultimi anni sempre più ampiamente viene affidato alle cure degli intermediari finanziari. Ma non si può negare che gli strumenti di tutela esistono anche sul piano del diritto civile, essendo poi la loro specifica conformazione giuridica compito del medesimo legislatore le cui scelte l’interprete non è autorizzato a sovvertire, sicchè il ricorso allo strumento di tutela della nullità radicale del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non è giustificato.

1.10. Da ultimo, va preso in considerazione un ulteriore rilievo, su cui insistono particolarmente i ricorrenti, i quali sostengono che gli obblighi per l’intermediario di non effettuare (oltre che di non consigliare) operazioni inadeguate alla situazione patrimoniale del cliente e di non effettuare operazioni in conflitto di interessi col cliente medesimo, rispettivamente contemplati dalle lettere f) e g) del citato art. 6, integrano veri e propri doveri di non fare, la cui violazione si traduce nella stipulazione di altrettanti contratti vietati da norma imperativa: il che, per quanto sopra detto, dovrebbe colpire alla radice gli atti vietati, rendendoli illeciti e perciò nulli.

A siffatto rilievo si deve però opporre che, come già in precedenza chiarito, il compimento delle operazioni di cui si tratta, ancorchè queste possano a loro volta consistere in atti di natura negoziale (ma è significativo che la norma le definisca col generico termine di "operazioni"), si pone pur sempre come momento attuativo di obblighi che l’intermediario ha assunto all’atto della stipulazione col cliente del "contratto quadro". Il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d’interessi attiene, perciò, anch’esso – lo si è già notato – alla fase esecutiva di detto contratto, costituendo, al pari del dovere d’informazione, una specificazione del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Il modo stesso in cui la norma è formulata e l’esplicito accostamento dei suaccennati doveri di informazione e di cu-ra dell’interesse del cliente, nel compimento delle singole operazioni, denota come il legislatore abbia qui sempre voluto contemplare obblighi di comportamento precontrattuali e contrattuali, non già regole di validità del contratto (sia esso il contratto d’intermediazione finanziaria o i singoli negozi con cui a quello vien data esecuzione); ed è appena il caso di osservare che, sotto tal profilo, è del tutto irrilevante la circostanza che l’operazione compiuta dall’intermediario sia consistita nel procurarsi da terzi i valori o gli strumenti finanziari ordinatigli dal cliente oppure nel fornirli egli stesso, trattandosi di varianti esecutive che non incidono sull’obbligo di diligenza cui l’intermediario è tenuto e che, ai fini del presente discorso, lasciano intatta la natura esecutiva dell’operazione da lui compiuta.

1.11. In conclusione, va perciò enunciato il principio per cui la violazione dei doveri d’informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d’investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può però determinare la nullità del contratto d’intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell’art. 1418 c.c., comma 1.

L’impugnata sentenza della corte d’appello non si è discostata da siffatto principio ed il primo motivo di ricorso non può perciò trovare accoglimento.

2. Sul tema del risarcimento del danno derivante dalla violazione delle menzionate regole di comportamento dell’intermediario occorrerà poi ritornare, quando si esamineranno il sesto ed il settimo motivo del ricorso (infra, punto 3). Prima, però, è necessario sgomberare il campo dalle questioni sollevate con i motivi dal secondo al quinto, che appaiono logicamente preliminari ma nessuno dei quali – può anticiparsi – risulta fondato.

2.1. Col secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 1933 c.c., nonchè vizi di omessa pronuncia e difetti di motivazione. Affermano che la disposizione dettata dal citato art. 1933, in forza di quando stabilito dalla L. n. 2 del 1991, art. 23, risulta inapplicabile ai soli contratti uniformi a termine stipulati nei mercati regolamentati. Essa, quindi, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie, in cui si trattava di contratti non corrispondenti ad alcuno dei tipi previsti dalla normativa secondaria di settore, stipulati al di fuori del mercato di borsa.

2.1.1. La doglianza non è meritevole di accoglimento.

E’ assorbente rilevare, in proposito, anzitutto che la mera presenza in un contratto di un intento speculativo o di un certo grado di alea non vale a renderlo assimilabile ad un giuoco o ad una scommessa, cui sia applicabile il regime giuridico dettato dal citato art. 1933 c.c.; inoltre che, quando pure di vero e proprio gioco o scommessa si tratti, l’anzidetta norma è invocabile solo a condizione che vi sia stata partecipazione consapevole al gioco o alla scommessa di tutte le parti del rapporto (cfr., in argomento, Cass. 2 settembre 2004, n. 17689).

Ciò premesso, occorre subito osservare che l’acquisto e la vendita a termine di valuta e le altre operazioni finanziarie di cui nel presente caso si discute, pur comportando sicuramente un certo grado di alea e pur potendo essere anche ispirati da intenti speculativi da parte di chi quelle operazioni abbia disposto, non sono di per sè necessariamente riducibili ad una scommessa sul futuro andamento dei tassi di cambio, potendo altrettanto ragionevolmente fungere da strumenti di stabilizzazione del rischio. In punto di fatto, sulla base di un accertamento di merito che in questa sede non è consentito rivedere, la corte d’appello ha considerato non inverosimile che l’istituto di credito fosse persuaso che "le operazioni intraprese potessero costituire semplice ricopertura di partite contrapposte intrattenute con altro operatore, e dunque non con finalità di pura sorte" (sentenza impugnata, pagg. 20-21).

Questo accertamento, già da solo, vale ad escludere che il San Paolo fosse consapevole di essere entrato con la Fincom in un rapporto di gioco o scommessa, o almeno esclude che secondo l’apprezzamento del giudice di merito di ciò sia stata raggiunta la prova; e tanto basta a rendere non applicabile nella fattispecie in esame della previsione del citato art. 1933 c.c..

2.2. Il terzo motivo di ricorso è volto a denunciare la violazione degli artt. 633 e 125 c.p.c., oltre che vizi di motivazione dell’impugnata pronuncia. Negano infatti i ricorrenti che le censure da loro formulate nell’atto d’appello in ordine alla ritualità dell’ingiunzione ed al difetto di valida pattuizione di interessi convenzionali fossero generiche, in rapporto alle apodittiche affermazioni contenute su tali punti nella sentenza di primo grado.

2.2.1. Neppure tale doglianza è meritevole di accoglimento.

Va premesso che i rilievi riguardanti la ritualità del procedimento monitorio sono superati dall’intervenuta revoca del decreto ingiuntivo e dal fatto che la condanna al pagamento di una somma di denaro è stata pronunciata all’esito di un giudizio di opposizione da considerarsi, per questo profilo, del tutto equivalente ad un ordinario giudizio di cognizione.

Quanto agli altri rilievi, va detto che l’inammissibilità di motivi d’appello che si sostanzino nel generico richiamo alle difese di primo grado non è sanata dall’ asserita insufficienza della motivazione in base alla quale quelle difese siano state rigettate dal giudice a quo. Vi osta pur sempre il principio della specificità dei motivi di gravame: principio che assolve alla duplice funzione di delimitare l’estensione del riesame domandato e di indicarne le ragioni concrete, e perciò postula la specificazione, sia pure in forma succinta, degli errori attribuiti alla sentenza di primo grado, ivi compreso eventualmente quello consistente proprio nell’insufficienza della motivazione posta a sostegno della decisione di rigetto.

2.3. L’asserita estraneità all’oggetto sociale della Fincom delle operazioni in compiute dal suo amministratore forma oggetto del quarto motivo di ricorso, con cui nuovamente si denunciano vizi di motivazione della sentenza impugnata e la violazione dell’art. 2384 bis c.c. (ancora vigente all’epoca dei fatti di causa).

Sostengono in particolare i ricorrenti che male ha fatto la Corte d’appello a stimare comprese dette operazioni nella previsione formale dell’oggetto sociale, quale indicato nell’atto costitutivo della Fincom, senza tener conto delle caratteristiche concrete delle operazioni medesime, aventi finalità meramente speculative, e della loro abnorme dimensione. Avrebbe dovuto inoltre la corte territoriale valutare l’eccepita nullità del suaccennato oggetto sociale, in quanto esso comprendeva attività di collocamento di valori mobiliari riservate esclusivamente alle società d’intermediazione o agli altri soggetti a tal fine abilitati.

Denunciano poi ancora i ricorrenti l’errore in cui la sentenza impugnata sarebbe incorsa nel porre a loro carico l’onere della prova della mala fede del terzo, a termini del citato art. 2384 bis c.c., e nel non considerare gli elementi dai quali, in concreto, la buona fede del San Paolo risultava esclusa, tenuto anche conto dello specifico obbligo d’informazione circa le condizioni economiche del cliente posto a carico dell’intermediario dall’art. 6 dell’allora vigente L. n. 1 del 1991. 2.3.1. Neanche queste censure colgono nel segno.

L’asserita nullità, totale o parziale, dell’oggetto sociale di una società può eventualmente riflettersi, a vario titolo, sulla legittimità o sulla liceità degli atti compiuti dall’amministratore per darvi attuazione, ma in nessun modo comporta che quegli atti siano ultra vires e ricadano perciò nella previsione del citato art. 2384 bis c.c., giacchè tale norma unicamente postula il confronto tra gli atti compiuti e la sfera di operatività desumibile dall’oggetto sociale, indipendentemente dalla liceità di questo.

L’accertamento compiuto dalla corte d’appello, – laddove ha escluso che le operazioni di cui si discute avessero il carattere esteriore di operazioni di pura sorte, ha perciò stesso anche negato la loro intrinseca estraneità all’oggetto sociale, che quella tipologia di azioni espressamente prevedeva. E si tratta di una valutazione di merito non suscettibile di essere censurata in questa sede, perchè congruamente motivata.

A quest’ultimo riguardo giova solo ancora osservare che la necessità di operare il confronto con l’oggetto sociale tenendo conto della concreta configurazione dell’attività svolta impedisce che attività comprese nella previsione dell’oggetto sociale medesimo, quale risultante dall’atto costitutivo della società, possano esser considerate eccedenti solo per profili di ordine quantitativo.

L’ovvia necessità di affidamento dei terzi, ai quali non è di regola certo possibile compiere siffatte delicate ed opinabili valutazioni di tipo quantitativo, è sufficiente ad escludere che un profilo di tal genere possa integrare il giudizio di estraneità postulato dalla citata disposizione del codice civile. Aggiungasi poi – e sarebbe forse già da solo argomento decisivo – che l’onere della prova dell’assenza di buona fede del terzo, ipotizzata dal citato art. 2384 bis c.c., è a carico della società, come si evince dal chiaro disposto dell’art. 9 della prima direttiva europea in materia societaria (direttiva n. 68/151 del 9 marzo 1968), in attuazione della quale detto articolo del codice fu emanato. Anche l’accertamento del mancato raggiungimento di tale prova, motivatamente compiuto dalla corte di merito, non è in questa sede censurabile.

2.4. Doglianze in parte analoghe alle precedenti, ma riferite all’eccepita estraneità della fideiussione all’oggetto sociale della garante Edilcentro, sono alla base del quinto motivo di ricorso, nel quale si fa però anche questione della violazione degli artt. 1394 e 2391 c.c., insistendosi nel sostenere che l’amministratore di detta società, in quanto altresì amministratore della debitrice principale Fincom, si trovava in situazione di conflitto d’interessi.

2.4.1. Richiamate preliminarmente le considerazioni svolte a proposito del precedente motivo di ricorso, è al profilo dell’eccepito conflitto d’interessi che occorre ora aver riguardo.

Le doglianze della ricorrente sono condivisibili nella parte in cui sottolineano come, per escludere il dedotto conflitto d’interessi dell’amministratore, gli eventuali benefici compensativi che una società appartenente ad un gruppo possa ricavare da atti compiuti a vantaggio della capogruppo, ove questi appaiano (almeno in prima istanza) svantaggiosi per la controllata, debbono essere provati da chi quei benefici compensativi allega e non da chi denuncia la situazione di conflitto (cfr. Cass. 11 dicembre 2006, n. 26325; e Cass. 24 agosto 2004, n. 16707).

Resta, però, che la corte d’appello ha affermato la non conoscibilità della situazione di conflitto d’interessi da parte del San Paolo, e si tratta di una valutazione di merito che la ricorrente non censura in modo adeguato, limitandosi a contrapporre ad essa il proprio opposto convincimento. Il che non è sufficiente ad evidenziare vizi di motivazione che giustifichino la cassazione dell’impugnata sentenza, dovendo tali vizi consistere non già nella mera asserita opinabilità della valutazione espressa dal giudice, bensì nell’evidenziazione di ben individuati difetti logici insiti nella valutazione medesima.

3. Sgombrato così il campo dalle censure volte a mettere in discussione la validità del rapporto negoziale dedotto in lite e delle garanzie fideiussorie che vi accedono, è tempo di tornare al tema della violazione delle più volte richiamate regole di condotta dettate dalla L. n. 1 del 1991, art. 6 – ma questa vola per gli eventuali profili risarcitori che ne possano conseguire – addebitati dai ricorrenti al San Paolo nell’instaurazione e nell’esecuzione di tale rapporto. E’ appunto su questo tema che si soffermano il sesto ed il settimo motivo di ricorso.

3.1. In particolare, col settimo motivo – che ragioni di ordine logico suggeriscono di anteporre al sesto – vien messa in discussione la declaratoria d’inammissibilità totale della domanda di risarcimento dei danni proposta dal ******* e quella d’inammissibilità parziale dell’analoga domanda risarcitoria formulata dalla Fincom.

Secondo i ricorrenti, che denunciano la violazione degli artt. 183 e 189 c.p.c., nonchè vizi di motivazione della sentenza impugnata, entrambi tali decisioni sono errate, perchè la corte d’appello non ha considerato che i fatti posti a base della pretesa risarcitoria puntualizzata in corso di causa dalla Fincom erano già contenuti nella prospettazione originaria, e quindi non integravano un’inammissibile mutatio libelli, e che – anche con riferimento alla domanda del ******* – la tacita accettazione del contraddittorio ad opera della controparte avrebbe dovuto precludere la declaratoria d’inammissibilità di dette domande.

3.2. Il sesto motivo riguarda, invece, il mancato accoglimento di quella parte della domanda di risarcimento dei danni avanzata dalla Fincom che la corte d’appello ha stimato ammissibile, siccome proposta sin da principio in via riconvenzionale nell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo.

La domanda era fondata su due addebiti rivolti al San Paolo: l’aver suggerito operazioni poi eseguite direttamente in qualità di controparte versando in conflitto d’interessi, e l’aver suggerito operazioni eccessivamente rischiose. La corte territoriale ne ha escluso l’accoglibilità sotto il primo profilo in base a due distinte ed autonome argomentazioni: perchè non era stata raggiunta la prova (ed appariva anzi inverosimile) che il danno del cliente non si sarebbe prodotto se l’operazione fosse stata eseguita tramite altro intermediario, anzichè direttamente in proprio dal San Paolo, e perchè l’operare in conflitto d’interessi nella fase prenegoziale può generare un obbligo di risarcimento del danno in capo all’istituto di credito, ma solo entro i limiti del cosiddetto interesse negativo (id quod interest contractus non fuisset), che però non era stato nella specie provato. Quanto al secondo addebito, la corte torinese ha ritenuto non dimostrato che le operazioni rivelatesi poi svantaggiose per il cliente fossero conseguenza di suggerimenti formulati dai funzionari del San Paolo.

Siffatta pronuncia – secondo i ricorrenti – è frutto di errata applicazione della L. n. 1 del 1991, artt. 6 e 13, oltre ad esser motivata in modo insufficiente e contraddittorio. La corte d’appello non avrebbe infatti compreso che il conflitto d’interessi non risiedeva nel modo e nei termini in cui le operazioni di cui si discute erano state compiute dal San Paolo, bensì nella decisione stessa di compierle. Il San Paolo, infatti, in forza dei doveri impostigli dalla sua qualità d’intermediario finanziario, avrebbe dovuto sconsigliare in proposito il cliente, anzichè incoraggiarlo, ed i guadagni lucrati dall’intermediario già di per sè dimostrano l’esistenza del contestato nesso di causalità tra l’operare del San Paolo in conflitto d’interessi ed il danno del cliente. Lamentano poi ancora i ricorrenti che la corte d’appello non abbia tenuto conto, a questo riguardo, dell’inversione A dell’onere della prova posta dalla citata L. n. 1 del 1991, art. 13, u.c., nè del fatto che le concrete modalità con cui le operazioni in valuta sono state attuate denotano come, nel porle in essere, il San Paolo non si sia attenuto all’obbligo di ricercare le migliori condizioni per il cliente. Viene infine contestata l’attendibilità delle deposizioni testimoniali rese dai funzionar dell’istituto di credito e la loro stessa capacità a deporre.

3.3. I due riferiti motivi di ricorso appaiono fondati, per alcuni profili, ed infondati per altri.

3.3.1. Quanto ai profili processuali, conviene subito chiarire che non possono trovare autonomo spazio censure concernenti pretesi vizi della motivazione del provvedimento impugnato, giacchè, con riferimento a detti profili, questa corte è anche giudice del fatto.

Venendo poi all’esame dei denunciati errores in procedendo, occorre ribadire il principio secondo cui il regime di preclusioni, introdotto nel codice di rito dalla L. n. 353 del 1990, è inteso non solo a tutela dell’interesse di parte ma anche dell’interesse pubblico al corretto e celere andamento del processo, con la conseguenza che la tardività di domande, eccezioni, allegazioni e richieste deve essere rilevata d’ufficio dal giudice indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte al riguardo (cfr. tra le altre, Cass., 27 luglio 2006, n. 17152; e Cass. 11 maggio 2005, n. 9875).

Questo rilievo è sufficiente a far considerare prive di ogni fondamento le censure riguardanti, in modo specifico, la pronuncia d’inammissibilità della domanda di risarcimento dei danni tardivamente proposta dal ******.. Non può infatti da alcun punto di vista ritenersi che detta domanda fosse, sia pur solo implicitamente, già contenuta nell’atto introduttivo del giudizio, giacchè in quell’atto – diversamente da quello di opposizione a decreto ingiuntivo spiccato dalla Fincom – nessuna domanda riconvenzionale appare esser stata avanzata e non si vede davvero come le argomentazioni ivi formulate possano esser poste al servizio di un petitum risarcitorio del tutto inespresso.

Non altrettanto è invece a dirsi per la Fincom, che una domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni ebbe sin da principio a formulare, sicchè, per quel che la riguarda, gli aspetti di novità riscontrati dalla corte d’appello attengono unicamente alla causa petendi, che in corso di giudizio sarebbe stata inammissibilmente ampliata in quanto all’addebito mosso al San Paolo di aver consigliato operazioni in conflitto d’interesse ed eccessivamente rischiose si è aggiunto quello di avere eseguito siffatte operazioni, non adeguate alle risorse finanziarie del cliente.

Sennonchè, premesso che il divieto di mutatio libelli è essenzialmente funzionale al rispetto dell’altrui diritto di difesa ed all’esigenza di ordinato e celere svolgimento del processo, onde la novità della domanda va apprezzata non tanto in relazione al tenore letterale delle espressioni adoperate dalla parte quanto alla diversità dei temi eventualmente introdotti in causa, all’effetto di sorpresa che per la controparte possa derivarne ed alla necessità di un ampliamento del thema probandum che nel giudizio possa prodursi, il raffronto tra l’impostazione difensiva presente nell’atto introduttivo e la formulazione finale della domanda risarcitoria avanzata dalla Fincom dimostra come non di una domanda nuova si sia trattato, bensì di una semplice e consentita migliore enunciazione della stessa domanda.

Certamente nessuna novità di rilievo è ravvisabile nell’aver qualificato le operazioni di cui si discute come sproporzionate, anzichè eccessivamente rischiose, trattandosi soltanto di una più puntuale definizione di un concetto già implicito nella precedente espressione. Quanto, poi, all’aver fatto riferimento all’attività svolta dal San Paolo in esecuzione di tali operazioni, e non solo all’averle suggerite, non può trascurarsi che sin dal primo atto difensivo della Fincom la fase esecutiva è stata espressamente richiamata nell’ambito di un comportamento del San Paolo complessivamente descritto come non conforme ai precetti legali già più volte sopra ricordati: ragione per la quale lo scarto tra la prima e la successiva formulazione di detta domanda, identico essendo il petitum risarcitorio, non ha comportato l’enunciazione di ragioni di pretesa diverse e tali da richiedere indagini e difese che già non fossero sin da principio comprese nell’orizzonte della causa.

Sotto il profilo da ultimo considerato, dunque, la doglianza contenuta nel ricorso merita accoglimento, e ciò conduce ad individuare una prima ragione di cassazione dell’impugnata sentenza, rendendosi necessario procedere, in sede di rinvio, all’esame del profilo di domanda risarcitoria della Fincom infondatamente dichiarato inammissibile: quello concernente, cioè, l’asserito compimento da parte del San Paolo di operazioni sproporzionate per frequenza e dimensioni alla situazione patrimoniale della cliente Fincom.

Dovrà perciò valutare il giudice di rinvio: se le operazioni di cui si tratta avessero quelle negative caratteristiche d’inadeguatezza di cui i ricorrenti si lagnano; se, in conseguenza delle anzidette caratteristiche e tenuto conto di quanto disponeva l’art. 6 del regolamento Consob n. 8850 del 1994 a quel tempo in vigore, il San Paolo avrebbe dovuto astenersi dal porle in essere; se e quali danni, ove l’indicato obbligo di astensione fosse ravvisabile, la Fincon abbia sofferto a causa della violazione di esso.

3.3.2. La statuizione del giudice d’appello deve invece restare ferma – e si entra così nell’esame del sesto motivo di ricorso – nella parte in cui ha dichiarato non fondato il profilo della pretesa risarcitoria che si basava sul presupposto secondo cui il San Paolo avrebbe anche suggerito alla Fincom di compiere le sproporzionate operazioni di cui si è prima parlato.

La corte d’appello ha escluso, in punto di fatto, che quei suggerimenti vi siano stati o che abbiano avuto un qualche significativo rilievo, e le doglianze formulate dai ricorrenti a questo riguardo non colgono nel segno. Esse si risolvono in una denuncia dell’inattendibilità dei testi escussi in istruttoria e nell’assunto secondo cui tali testi (o almeno alcuni di loro) avrebbero dovuto esser dichiarati incapaci a deporre a norma dell’art. 246 c.p.c.. Sotto il primo aspetto appare però evidente come un siffatto tipo di doglianza sconfini nel giudizio di merito e non possa, di conseguenza, trovare ingresso in cassazione; sotto il secondo aspetto è sufficiente osservare che la veste di dipendenti o funzionari del San Paolo, i quali hanno materialmente mantenuto col cliente i rapporti da cui sono scaturite le pretese risarcitorie discusse in causa, non basta a rendere i testi titolari di un interesse che ne giustificherebbe la personale partecipazione al giudizio, e quindi non determina la loro l’incapacità a deporre.

3.3.3. Sono viceversa condivisibili ulteriori profili di doglianza contenuti nel sesto motivo di ricorso, che attengono al rigetto della domanda di risarcimento dei danni per operazioni compiute dall’intermediario in situazione di asserito conflitto d’interessi.

La corte d’appello, come si è ricordato, non si è soffermata a valutare se sussistesse o meno la situazione di conflitto d’interessi denunciata dalla difesa degli odierni ricorrenti, poichè ha escluso che, comunque, vi fosse la prova della dannosità dell’eventuale conflitto. E lo ha escluso sulla base della considerazione che le operazioni in questione, se anche compiute con un diverso intermediario, non avrebbero dato risultati differenti.

Un tale ragionamento non considera però che, in presenza di una situazione di conflitto di interessi non rivelata al cliente, o comunque in difetto di autorizzazione espressa del cliente medesimo, la disposizione contenuta nella lett. g) dell’art. 6 della dell’allora vigente L. n. 1 del 1991 (diversamente da quanto ora prevede il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, comma 1 bis, lett. a e b) faceva espresso ed assoluto divieto all’intermediario di dar corso all’operazione. Perciò, alla stregua di quella norma, o si sarebbe dovuto ritenere che il tipo di operazione era tale da escludere in radice il lamentato conflitto d’interessi – ma la corte d’appello non ha formulato un accertamento in tal senso – o non si sarebbe potuto altrimenti far leva su dette modalità operative al solo fine di negare ogni possibile nesso causale tra l’operazione eventualmente implicante un conflitto di interessi ed i danni sofferti dal cliente.

Infatti, se la situazione di conflitto fosse configurabile, non sarebbero le concrete e specifiche modalità esecutive a venire in questione, ma il compimento stesso dell’operazione che non avrebbe dovuto affatto aver luogo. Ai fini dell’individuazione di un eventuale danno risarcibile subito dal cliente e del nesso di causalità tra detto danno e l’illegittimo comportamento imputabile all’intermediario, assumono rilievo le conseguenze del fatto che l’intermediario medesimo non si sia astenuto dal compiere un’operazione dalla quale, in quelle circostanze, avrebbe dovuto astenersi (sempre che, s’intende, risulti provato che nel caso in esame aveva l’obbligo di astenersene), non quelle derivanti dalle modalità con cui l’operazione è stata in concreto realizzata o avrebbe potuto esserlo ipoteticamente da altro intermediario.

Neppure è poi esatto, con riferimento alla seconda ed autonoma ratio decidendi formulata a questo riguardo dalla corte d’appello, che quel danno s’identifichi con il mero interesse negativo da responsabilità precontrattuale (di cui non è stata fornita la prova). Non è infatti precontrattuale la responsabilità in cui incorre l’intermediario che compia operazioni in conflitto d’interesse, quando dovrebbe astenersene, ma si tratta invece – come già dianzi chiarito – di una vera e propria responsabilità da non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del rapporto contrattuale d’intermediazione finanziaria in essere con il cliente:

quindi di una responsabilità contrattuale, con riferimento alla quale il richiamo alla nozione di interesse negativo appare fuor di luogo.

Anche sotto questo ulteriore profilo l’impugnata sentenza deve essere perciò cassata ed occorre dare corso ad un giudizio di rinvio volto, innanzitutto, ad accertare: se nelle operazioni in questione fosse o meno davvero ravvisabile un interesse del San Paolo configgente con quello della Fincom (tenendo peraltro conto che siffatto interesse non potrebbe in nessun caso identificarsi con quello alla percezione del compenso per l’opera prestata dall’intermediario, che è fisiologicamente presente in qualsiasi operazione d’intermediazione finanziaria non gratuita); se, in caso di risposta positiva al precedente quesito, il San Paolo abbia omesso di informare del conflitto la Fincom e di farsi eventualmente autorizzare al compimento delle descritte operazioni; se, in conseguenza di quanto sopra, fosse configurabile un obbligo del San Paolo di astenersi dal compimento di dette operazioni; se e quali danni la Fincom abbia risentito per il fatto che il suindicato obbligo di astensione, ove sussistente, sia stato violato dall’intermediario.

4. La cassazione dell’impugnata sentenza per le ragioni sopra illustrate sub 3.3.1. e 3.3.3. (assorbenti rispetto ad ogni altro rilievo) interessa anche i fideiussori Edilcentro e *******, per gli eventuali riflessi che ne possano derivare sulla loro posizione debitoria nei confronti della banca creditrice, dovendosi nel giudizio di rinvio anche riesaminare se, alla luce della diversa ampiezza riconosciuta alla domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale dalla Fincom, restino pur sempre valide le considerazioni di tipo processuale in base alle quali la corte d’appello ha escluso che l’ipotetico accoglimento di detta domanda riconvenzionale possa giovare ai fideiussori in virtù del meccanismo di compensazione eventualmente innescato dalla contrapposizione di reciproche ragioni creditorie della stessa ****** e del San Paolo.

5. Resta assorbito l’esame dell’ultimo motivo di ricorso, concernente la statuizione dell’impugnata sentenza in tema di spese processuali.

6. Il giudice di rinvio, identificato nella stessa Corte d’appello di Torino, ma in diversa composizione, provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La corte, pronunciando a sezioni unite, accoglie il sesto ed il settimo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione, dichiara assorbito l’ottavo motivo e rigetta i restanti, cassa l’impugnata sentenza in relazione alle censure accolte e rinvia la causa alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Redazione