Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 17/2/2009 n. 3759; Pres. Prestipino G.

Redazione 17/02/09
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RITENUTO IN FATTO

1. Si domanda la cassazione della sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, sopra specificata, che, in relazione al procedimento disciplinare promosso dal Ministro della giustizia in data 27.7.2005, infligge la sanzione disciplinare dell’ammonimento ai magistrati C.P. e G. G. per avere il primo nello svolgimento della funzione di presidente del Tribunale di sorveglianza di Palermo e la seconda di componente relatore disposto in data 9.11.2004 la misura alternativa della semilibertà in favore del detenuto I.A., trascurando di esaminare elementi importanti che avrebbero potuto indurre ad una diversa valutazione dell’istanza.

2. La responsabilità degli incolpati è affermata sul rilievo che il fascicolo del detenuto, che anche il presidente del collegio aveva il dovere di conoscere, indicava una serie di circostanze negative totalmente ignorate nella motivazione del provvedimento e ciò palesava, sul piano deontologico scarsa diligenza e caduta di professionalità. 3. Il ricorso dei due magistrati sanzionati si articola in quattro motivi non svolgono attività di resistenza le parti intimate.

CONSIDERATO IN DIRITTO

l. 1. Si premette che, nella controversia in esame, deve aversi riguardo all’epoca di "promozione del procedimento disciplinare" con la conseguente inapplicabilità (a procedimento promosso anteriormente al 19 giugno 2006) del regime giuridico dell’impugnazione di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 24, e ciò ai sensi del disposto dell’art. 32 bis dello stesso testo normativo (aggiunto dalla L. n. 269 del 2001. Non sussistono, pertanto, profili, di inammissibilità del ricorso proposto nei termini e nelle forme del codice di procedura civile secondo la disciplina previgente.

2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell’art. 111 Cost., comma 7, art. 666 c.p.p., comma 5 e art. 678 c.p.p., comma 1, in relazione alla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 70, per avere la sentenza impugnata travalicato i limiti del potere giurisdizionale attribuito alla Sezione disciplinare, esercitando un inammissibile sindacato sull’esercizio del potere discrezionale del giudice, in sostanza rilevando e qualificando come illecito disciplinare un vizio di motivazione del provvedimento, vizio che l’ordinamento giuridico prevede che sia esclusivamente emendabile sul piano dei previsti rimedi processuali.

2.1. Il motivo è privo di fondamento giuridico.

La giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte ha da tempo enunciato, sulla questione dedotta con il motivo di ricorso in esame, principi consolidati. A norma della R.D.L. 31 maggio 1946, n. 551, art. 18, il potere disciplinare del CSM può avere ad oggetto non solo i comportamenti tenuti dal magistrato fuori dell’ufficio, ma altresì il modo in cui egli abbia svolto la propria funzione, con possibilità pertanto, in relazione all’esigenza di salvaguardia del prestigio dell’ordine giudiziario, di esaminare e valutare gli atti da lui compiuti nel relativo esercizio. Si, pone, di conseguenza il delicatissimo problema dei limiti di un tale sindacato. Si deve, infatti, tener presente al riguardo il fondamentale principio di indipendenza del giudice di cui all’art. 101 Cost., comma 2, e art. 104 Cost., comma 1, il quale si integra con quello secondo cui l’attività di giudizio può essere censurata unicamente in sede d’impugnazione.

Orbene – a parte la considerazione che vi sono determinati provvedimenti (non decisori e non attinenti alla libertà personale) per i quali non è dato direttamente esperire un mezzo d’impugnazione – va rilevato che il suddetto principio d’indipendenza non comporta davvero l’insussistenza di limiti e ciò in relazione all’esigenza di tutela di altri diritti e valori parimenti protetti sul piano costituzionale. Ne segue che il principio di legalità, che dev’essere rigorosamente osservato nell’esercizio di ogni pubblica funzione e, in particolare, di quella giudiziaria, non può in alcun caso tollerare deroghe, le quali gravemente comprometterebbero la credibilità delle istituzioni al cospetto dei cittadini e irrimediabilmente pregiudicherebbero lo stesso utile perseguimento dei suoi fini.

Quale che sia perciò l’intento (anche il più disinteressato) che, nel relativo esercizio, animi chi è preposto ad una pubblica funzione, le regole fissate nella Carta costituzionale e nelle altre leggi dello Stato a tutela dei cittadini e di interessi fondamentali non possono – per nessuna ragione – essere violate. D’altra parte ai pubblici funzionari è richiesto (il che per la Pubblica Amministrazione è sancito da una norma di amplissima valenza qual’è quella dell’art. 97 Cost., comma 1), oltre al rispetto del principio di stretta legalità, di operare in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità della funzione, il che significa che non sono tollerabili non soltanto particolaristici e personalizzati atteggiamenti, ovvero sfavorevoli preconcetti o favoritismi, ma anche la violazione del dovere istituzionale di esercitare la funzione secondo le soglie minime di professionalità richieste dalla funzione.

E per quanto riguarda il giudice, proprio il principio d’indipendenza di cui all’art. 101 Cost., comma 2, ricorda che egli è in ogni caso soggetto alla legge, per cui – esclusa l’interferenza di qualsiasi altro potere (art. 104, comma 1, cit.) – l’osservanza della legge in tutta l’ampiezza dei suoi precetti e della tutela che essa appresta agli interessi coinvolti integra indispensabile e costante regola della sua condotta.

Esiste pertanto, al di là della sfera di operatività delle impugnazioni, un indiscutibile spazio di controllo dell’operato del magistrato, e tale controllo non può non estendersi anche alla verifica circa l’osservanza da parte dello stesso dei fondamentali principi di correttezza, diligenza e equilibrio ai quali in ogni momento egli deve ispirarsi e dell’obbligo di mantenere dignità e compostezza, cosi come dell’obbligo della sollecitudine e dell’impegno professionale richiesto dall’affare trattato.

Discende dal complesso degli enunciati principi che, se l’inesattezza tecnico – giuridica dei provvedimenti adottati dal giudice non può di per sè costituire illecito disciplinare, tuttavia – nella valutazione, non dell’atto, bensì del comportamento del magistrato stesso – una tale inesattezza può essere idonea a evidenziare scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, il che può essere sindacato nella sede disciplinare in quanto suscettibile di negativo riflesso sul piano del prestigio (vedi, in particolare, Cass. S.u. 24 luglio 1986, n. 4754, e le conformi decisioni successive, tra cui, Cass. S.u. 22 marzo 1999, n. 170; 14 giugno 1999, n. 338, sul tema specifico della valutazione dell’impegno nello studio dei dati di fatto risultanti dal fascicolo processuale; 4 agosto 2000, n. 538; 9 luglio 2001, n. 9323 e 9 luglio 2001, n. 9774, con riguardo alle carenze della motivazione dovute al mancato esame degli atti; 19 luglio 2001, n. 9775, che precisa come l’errore tecnico-giuridico possa essere sintomatico, tenuto conto soprattutto della motivazione del provvedimento, di negligenza o imperizia del giudice; 18 ottobre 2005, n. 20119; 27 luglio 2007, n. 16626 e 28 novembre 2007, n. 24661, con riguardo all’inesattezza tecnico-giuridica sotto il profilo della motivazione, quale conseguenza di scarso impegno e ponderazione o di approssimazione e limitata diligenza).

2.2. A questi principi si è puntualmente attenuta la Sezione disciplinare, chiarendo ripetutamente come oggetto di valutazione disciplinare fosse esclusivamente la condotta negligente nell’esame degli elementi utili per la decisione, non certo il segno di essa, cosicchè l’illecito disciplinare non sarebbe stato configurabile ove i suddetti elementi fossero risultati in qualche modo tenuti presenti dai giudici incolpati.

3. Con il secondo motivo sono denunciati vizi della motivazione sotto i seguenti profili: a) omessa considerazione della circostanza che il fascicolo comprendeva soltanto il decreto del giudice di sorveglianza 11.11.2003, che disponeva non computarsi nella durata della pena il periodo di permesso fruito dal detenuto I., ma non l’ordinanza di rigetto del reclamo (da cui era possibile avere notizia delle circostanze del caso), nè la richiesta urgente di allontanamento dal carcere di (omissis) del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, cosicchè gli incolpati non potevano conoscere i fatti la cui mancata considerazione era stata ad essi imputata; b) valutazione insufficiente e illogica della rilevanza degli elementi non considerati in motivazione e dell’impossibilità di conoscerli nei particolari (trasferimento a (omissis), violazione degli obblighi relativi a un permesso, generico "rischio di istituto, frequentazione di un pregiudicato omosessualità e profili attinenti alla persona del minore cui si accompagnava).

3.1. Il profilo di censura sub a) è inammissibile.

La sentenza impugnata afferma che il fascicolo del detenuto I. A., "pacificamente a disposizione degli incolpati", indicava le seguenti circostanze: a) trasferimento da (omissis) del condannato per delitto di rarissima efferatezza, indicato come omosessuale, a causa di violazioni delle prescrizioni stabilite nella concessione di un permesso e consistite nella frequentazione di un pregiudicato e nel trattenersi in albergo, a notte inoltrata, con minorenne; b) precedente evasione durante un permesso; c) trasferimento dal (omissis) motivato dal D.A.P. con il rischio di istituto.

Agli incolpati è stato mosso il rimprovero di aver trascurato questi elementi, cui la motivazione del provvedimento non recava neppure il cenno, sia pure per ritenerli privi di significato ai fini della concessione della semilibertà, mentre sarebbe stato necessario soprattutto prendere atto delle circostanze costituite dalla violazione degli obblighi connessi al permesso e dalla formulata diagnosi di pericolosità della permanenza a Campobasso posta a base del trasferimento a (omissis), visto che appena undici mesi dopo lo si rimandava in (omissis), dove aveva chiesto di espletare attività lavorativa.

Quindi, non è vero che la sentenza impugnata abbia ritenuto che il fascicolo del detenuto contenesse ulteriori profili di fatto, quali quelli indicati dai ricorrenti e risultanti dal reclamo e dalla relativa ordinanza di rigetto, nonchè dagli accertamenti del D.A.P., in ordine ai concreti profili del rischio di istituto, collegato anche al minore trovato in compagnia di I.A. e figlio di altro detenuto.

3.2. Quanto alla critica formulata sub b), secondo cui i fatti conoscibili dagli incolpati erano contrassegnati da genericità e irrilevanza per la decisione da adottare e tali, pertanto, da escludere la colpa per difetto di gravità, precisione e concordanza, la sua formulazione sollecita in realtà la Corte ad una diretta rivalutazione degli apprezzamenti del giudice del merito che esula dai suoi compiti istituzionali.

Infatti, in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, l’accertamento compiuto dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con riguardo alla materialità dei fatti contestati all’incolpato e alla loro idoneità, stante l’atipicità dell’illecito disciplinare del magistrato di cui al R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18, a ledere la considerazione di cui deve godere il magistrato e il prestigio dell’ordine giudiziario, non è suscettibile di ulteriore apprezzamento in sede di legittimità, essendo precluso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione il riesame dei fatti e del risultato istruttorio, la valutazione dei quali spetta esclusivamente al giudice disciplinare, unico giudice di merito, che ha l’obbligo di dare una motivazione adeguata ed esente da vizi logici e giuridici (vedi, tra le numerose decisioni, Cass. S.U. 10 ottobre 2007, n. 20602; 27 luglio 2007, n. 16618; 23 marzo 2005, n. 6214).

4. Con il terzo motivo di ricorso, denunciando violazione di norme di diritto (art. 115 c.p.c., ovvero art. 526 c.p.c., comma 1, ovvero art. 475 dell’abrogato codice di procedura penale), si deduce la nullità della sentenza impugnata per aver ritenuto provata la conoscibilità di elementi decisivi per affermare la colpevole omissione della loro valutazione, conoscibilità invece esclusa dalle risultanze del processo.

4.1. Il motivo, in realtà, ripete con riferimento al vizio di violazione di legge e formulando il relativo quesito di diritto, le stesse censure di cui al secondo motivo.

Si rinvia pertanto alle considerazioni già svolte in quella sede, che recano le ragioni per le quali anche questo motivo non è suscettibile di accoglimento.

5. Con il quarto e ultimo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 50, comma 4, e art. 70, nonchè del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 101, comma 2, in relazione alla ritenuta fondatezza anche del capo b) dell’incolpazione, nella parte cui veniva addebitata l’omissione totale di motivazione sulle ragioni per le quali "si riteneva di non sottoporre a prescrizioni la concessione della misura alternativa".

Si deduce che il sistema normativo limita la competenza del tribunale di sorveglianza alla decisione di ammissione al regime di semilibertà, mentre le eventuali prescrizioni sono affidate al programma di trattamento e, quindi, alla competenza del direttore di istituto e del magistrato di sorveglianza. Viene, quindi, formulato il coerente quesito di diritto sottoposto alla Corte.

5.1. Anche questo motivo non può trovare accoglimento.

I ricorrenti riferiscono in modo incompleto il capo d’incolpazione formulato sub b). E’ stata, in effetti, loro addebitata la mancata valutazione dei motivi del trasferimento del detenuto a Palermo e della conseguente inopportunità di un ritorno a Campobasso a breve distanza di tempo, senza esprimere al riguardo alcuna motivazione anche in relazione "alle ragioni per le quali, nonostante la loro evidenza documentale, si riteneva di non sottoporre a prescrizioni la concessione della misura alternativa".

Orbene, è esatto che l’ordinamento penitenziario ed il relativo regolamento distinguono nettamente fra organo competente (sezione di sorveglianza) a decidere sull’ammissione alla semilibertà nei casi e secondo i criteri previsti della L. n. 354 del 1975, artt. 48, 49 e 50, ed organi competenti (direttore dell’istituto e magistrato di sorveglianza) a formulare il programma di trattamento degli ammessi alla semilibertà in base al D.P.R. n. 431 del 1976, art. 92.

Tuttavia, al di là dell’imperfetta formulazione tecnica dell’incolpazione, il rimprovero mosso ai ricorrenti è, nella sostanza, di avere determinato con l’accoglimento dell’istanza dell’ I., indicante in (omissis) il luogo di impiego in attività lavorativa il suo ritorno presso l’istituto di pena di quella città, omettendo con negligenza la valutazione degli elementi contrari a questo trasferimento e quindi alla concessione stessa del beneficio.

6. Non si provvede sulle spese del giudizio di cassazione in difetto di attività di resistenza delle parti intimate.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso; nulla da provvedere sulle spese e gli onorari del giudizio di cassazione.

Redazione