Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 1/7/2008 n. 17927; Pres. Carbone V.

Redazione 01/07/08
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Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Milano con sentenza del 2 aprile 2001 rigettava la domanda con cui le s.r.l. *********, e C.M.T. nonchè D.N. C., deducendo che la s.p.a..

********* si era resa responsabile della contraffazione del marchio "*********" depositato dal D.N. nel 1978, concesso il 24 febbraio 1986 con il n. 407.266 per la classe 25 (prodotti di abbigliamento ed accessori), nonchè della denominazione sociale, e di concorrenza sleale, avevano chiesto che fossero dichiarati nulli i marchi "*********" registrati da quest’ultima ai n. 581.357 e 421.804 e che ne fosse inibito l’uso del segno come marchio, come denominazione sociale ed in qualsiasi altra forma. Riteneva, infatti, che si era verificata la convalidazione del marchio prevista dal R.D. n. 929 del 1942, art. 48.

L’impugnazione delle società attrici e del D.N. è stata respinta dalla Corte di appello di Milano con sentenza 27 settembre 2002, in quanto: a) meritava di essere condivisa la decisione di primo grado che aveva accolto l’eccezione della società convenuta in ordine alla convalidazione dei propri marchi:posto che con riguardo al marchio n. 421.804 gli attori avevano opposto infondatamente soltanto l’inapplicabilità del menzionato art. 48 al conflitto tra marchi registrati; e perchè quanto al marchio 581.537, la norma si estende anche ai segni in corso di convalidazione alla data di entrata in vigore della sua modifica, con conseguente convalida del segno anche computando il dies a quo dal 1 gennaio 1993; b) detto art. 48, anche nel vigore del testo originario, era applicabile al conflitto tra marchi registrati, in virtù di un’interpretazione estensiva della norma, non avente carattere eccezionale, ed in considerazione della sua "ratio", di consentire una deroga al principio dell’esclusività del marchio; c) doveva ritenersi convalidato anche il marchio 581.357, sia computando il quinquennio richiesto dalla norma da data anteriore alla modifica apportata dal D.Lgs. n. 480 del 1992, sia ritenendo iniziato l’uso del segno dal 1 gennaio 1993, in quanto la convalidazione poteva ritenersi impedita soltanto dall’azione di nullità esperita dalle controparti; d) relativamente alla violazione della denominazione sociale, non sussisteva il rischio di confusione tra i segni, e doveva applicarsi in via analogica la convalida al caso del conflitto con un marchio usato come ditta.

Per la cassazione della sentenza, la società ********* ed i consorti hanno proposto ricorso per 7 motivi; cui ha resistito la s.p.a.

Camomilla con controricorso.

La prima sezione della Corte, cui il ricorso è stato assegnato, rilevando un contrasto sull’applicabilità dell’istituto della convalidazione del marchio – per alcune decisioni limitata al solo caso di conflitto tra un marchio registrato ed un marchio di fatto preusato, per altre estesa anche all’ipotesi di conflitto tra due marchi ambedue registrati – ha trasmesso il processo al Primo Presidente che lo ha assegnato alle Sezioni unite. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

2. Con il primo motivo la s.r.l. ********* ed i consorti, deducendo violazione dell’art. 48 Legge dei marchi (nel testo originario), nonchè difetto assoluto ed illogicità della motivazione, addebitano alla Corte di appello: a) di aver privilegiato una interpretazione analogica di detta norma contraria alla costante giurisprudenza di questa Corte che non la ritiene applicabile all’ipotesi di conflitto fra marchi registrati, ricorrente invece nella fattispecie e perciò ostativa a consentire la convalidazione di quello successivo; b) di non aver verificato la ricorrenza del presupposto ritenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito indispensabile onde ricorrere alla suddetta interpretazione analogica: consistente in un comportamento tollerante del successivo marchio in malafede, perchè in realtà rivolto ad appropriarsi del credito e dell’avviamento acquisiti, sul mercato da quest’ultimo; che invece le risultanze istruttorie avevano inequivocabilmente escluso; c) di avere interpretato, senza tale verifica, la convalidazione consentita dal vecchio testo in termini addirittura più favorevoli e permissivi rispetto a quella prevista dalla modifica apportata dal D.Lgs. n. 480 del 1992 che l’ha subordinata alla tolleranza da parte del titolare del marchio anteriore all’uso del marchio registrato successivamente per uno specifico periodo di tempo.

Con il terzo motivo, deducendo violazione del D.Lgs. n. 480 del 1992, art. 89, si duole che la sentenza abbia pronunciato la convalidazione del marchio registrato con il n. 581.357 applicando il nuovo, invece che il testo originario dell’art. 48: pur avendo dato atto che questo marchio era stato depositato il 16 gennaio 1990 e concesso il 27 novembre 1992: che era data comunque anteriore al 10 dicembre 1992, di entrata in vigore del nuova normativa estensiva dell’istituto della convalidazione anche all’ipotesi di marchi successivi egualmente registrati.

3. I suesposti motivi sono infondati.

La Corte di appello ha dato atto che nel 1978 D.N.C. aveva depositato il marchio "*********" registrato il 24 febbraio 1986 per la classe 25 (prodotti di abbigliamento ed accessori); mentre la s.p.a. aveva successivamente ottenuto la registrazione di un marchio simile con il n. 421.804 in data 12 maggio 1986 per le classi 9, 14, 16, 18, 20 e 24, su domanda depositata il 21 giugno 1983; ed in data 27 novembre 1992, pur essa antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 480 del 1992 con il n. 581.357 per le classi 3 e 25 a seguito di domanda depositata il 16 gennaio 1990.

Su tali premesse ha definito la controversia in base all’originaria normativa del R.D. n. 929 del 1942, art. 48, nel testo vigente anteriormente alla sostituzione realizzata dal D.Lgs. n. 480 del 1992, art. 45, con riguardo non soltanto alla registrazione n. 421.804, ma, contrariamente a quanto assunto dai ricorrenti, anche a quella successiva n. 581.359: in relazione alla quale proprio dalla disposizione dell’art. 89 di quest’ultima normativa ha tratto la conferma che anche "l’istituto della convalidazione che rappresenta una sorta di esimente rispetto alle cause di nullità del marchio … sia regolato dalle norme di leggi anteriori".

Ha tuttavia ritenuto di non poter condividere l’orientamento espresso da alcuni giudici di merito e da questa Corte che consideravano l’istituto inapplicabile al conflitto di inarchi registrati; e che doveva invece essere recepita la tesi propugnata dalla prevalente dottrina, dalla maggior parte dei giudici di merito (tra cui il Tribunale e la Corte di appello di Milano), e da ultimo condivisa da Cass. 1424/2000, che estende l’applicazione del R.D. n. 929 del 1942, art. 48, anche all’ipotesi di conflitto fra marchi registrati; e per tale ragione ha ritenuto convalidato tanto il marchio n. 421.084, quanto il marchio n. 581.357 sia computando il quinquennio da data anteriore a detta modifica, sia dal 1 gennaio 1993, poichè la convalidazione poteva ritenersi impedita esclusivamente dalla proposizione dell’azione di nullità.

In ragione del ravvisato contrasto di giurisprudenza in ordine al quesito implicato dal primo e terzo mezzo impugnatorio, e della esigenza di comporlo, la Sezione 1^ civile di questa Corte, con ordinanza 14681/2007, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione – che è stata in concreto poi disposta – del ricorso alle Sezioni unite.

La questione, in relazione alla quale si è determinato il contrasto, che questo Collegio è ora chiamato a comporre, attiene propriamente all’applicabilità dell’istituto della convalidazione del marchi, nei termini in cui era previsto dall’art. 48 del menzionato R.D. n. 929 del 1942 (cd. Legge Marchi) prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 480 del 1992, unicamente al caso di conflitto tra un marchio registrato ed un marchio di fatto preusato; ovvero anche nella diversa ipotesi di conflitto tra marchi registrati (ricorrente nella fattispecie).

Per la soluzione più restrittiva si è espresso l’orientamento meno recente di questa Corte, risalente alla sentenza 3295 del 7 agosto 1957, la quale risolse la questione con l’apodittica considerazione che nel caso di conflitto tra marchi registrati, "manca il presupposto essenziale per l’applicazione del citato art. 48, e cioè il preuso anteriore alla brevettazione del marchio altrui".

Maggiori argomenti furono addotti dalla quasi coeva decisione 3760 del 12 ottobre 1957, la quale ritenne che il conflitto tra due inarchi confondibili ed ambedue registrati non fosse regolato dall’art. 48 della legge, ma dal precedente art. 47, secondo cui deve ritenersi valido il brevetto anteriore e nullo quello posteriore. E che un’applicazione estensiva dell’art. 48 al caso di conflitto di brevetti entrambi registrati avrebbe comportato "l’assurda contemporanea validità di brevetti appartenenti a titolari diversi, che avendo ad oggetto marchi eguali o simili, siano fra loro manifestamente incompatibili". Con conseguente decadenza di quello anteriore, non prevista dalla legge ed in palese contrasto con il disposto del suo art. 47.

Detto indirizzo venne quindi ribadito da Cass. 30 ottobre 1958 n. 3567 e poi da Cass. 29 marzo 1965 n. 549, che vi aggiunse ulteriori considerazioni, e cioè: a) che la lettera dell’art. 48 della legge con la dizione marchio "conosciuto" alla data della domanda non poteva che essersi riferita ad una situazione di fatto; b) che d’altra parte, non avrebbe potuto qualificarsi di buona fede l’uso di un marchio da altri precedentemente registrato e usato come distintivo di prodotti o merci dello stesso genere; c) che la convalida sancita dall’art. 48 non si concilierebbe con la rigorosa tutela accordata dall’ordinamento giuridico ai marchi di impresa muniti di regolare brevetto.

Poichè tuttavia esso suscitò forti critiche della dottrina più qualificata, la questione venne rimessa alle Sezioni Unite, che, con sentenza 1527 del 23 giugno 1967 lo confermarono, coordinando le precedenti considerazioni e fondandolo: a) sulla lettera dell’art. 48 ove l’aggettivo "conosciuto" era usato come sinonimo di "noto", per marcare la differenza rispetto all’ipotesi del marchio "registrato";

b) sulla interpretazione sistematica di questa normativa che induceva alla conclusione che l’ipotesi di conflitto tra marchi registrati fosse prevista e disciplinata dall’art. 47, laddove prevedeva la nullità del marchio successivo, e non dall’art. 48; c) sulla conseguente natura eccezionale di quest’ultima norma, insuscettibile perciò di interpretazione analogica; d) sull’impossibilità logica che un marchio registrato potesse essere posto nel nulla per effetto della successiva registrazione di un marchio con esso confondibile.

L’interpretazione restrittiva venne quindi richiamata solo come obiter dalla sentenza 1257 del 26 febbraio 1979, e poi nuovamente ribadita da Cass. 3 agosto 1987 n. 6678/pervenuta alla conclusione che "il conflitto tra i due brevetti deve sempre portare alla eliminazione di quello nullo perchè uno ed un sol brevetto deve esistere a coprire un unico diritto di esclusiva"; la quale è stata anche l’ultima a riaffermare detto orientamento posto che la successiva Cass. 14483/2002, invocata dai ricorrenti, si è limitata a dichiarare inammissibile il ricorso contro il capo della sentenza che aveva escluso la convalidazione in base a due ordini di ragioni (ritenuta inapplicabilità dell’art. 48 alla fattispecie di marchi entrambi registrati e ritenuta insufficienza della prova dell’uso quinquennale in buona fede), impugnando esclusivamente la prima; e perciò determinando il passaggio in giudicato della decisione in base alla seconda argomentazione.

Per converso, l’orientamento estensivo non è stato mai enunciato in modo espresso; e tuttavia risulta sicuramente condiviso da Cass. 9 febbraio 2000 n. 1424, la quale nell’esaminare una decisione che aveva ritenuto "non applicabile l’istituto della convalida al conflitto tra inarchi registrati" correggeva siffatta motivazione affermando che "nel vigore della vecchia legge, la convalidazione in questione richiedeva solo l’uso pubblico in buona fede, mentre la legge vigente richiede anche la tolleranza di tale uso"; e confermando la sentenza di appello con tale correzione, per l’incensurabilità dell’accertamento compiuto dal giudice di merito in ordine alla insussistenza della buona fede richiesta dal testo originario dell’art. 48.

E’ stata invece l’ordinanza di rimessione 14681/2007 ad enunciare le ragioni ritenute ostative alla ulteriore continuità dell’indirizzo tradizionale ravvisandole: a)nella inidoneità delle argomentazioni tradizionali a supportare la concezione restrittiva, dal profilo letterale fondato sull’attributo "conosciuto" che deve caratterizzare il marchio anteriore, al collegamento con il precedente art. 47 della legge, asseritamente recante la esaustiva disciplina delle nullità, e che invece rinvia per l’esatto ambito di applicazione della convalida proprio all’art. 48; b) nella "ratio" della norma di impedire che il preadottante potesse appropriarsi dell’avviamento di chi aveva fatto un uso posteriore del segno, in vista della tutela dell’affidamento di terzi indotto dall’inerzia del titolare del diritto, che giustifica il consolidamento di una determinata situazione: valorizzando circostanze sulle quali non può influire che il marchio sia nato per uso, ovvero per brevettazione; c) nella necessità di una interpretazione estensiva (e non analogica) conforme alla disciplina introdotta nel 1992, la quale dimostra che la coesistenza dei segni non è impedita da alcuna ragione di principio; e smentisce la sussistenza di una incompatibilità logico – giuridica tra previsione della pubblicità e buona fede di colui che, per essere titolare di un marchio posteriore pur esso registrato, agisce in contrasto con le risultanze della medesima; d) nella esigenza di adeguare al diritto comunitario anche le norme previgenti, imposta da numerose decisioni della Corte di giustizia delle comunità europee, una volta che proprio in attuazione della Direttiva 89/10/CEE, l’art. 48 Legge Marchi è stato modificato introducendosi espressamente la previsione della convalidabilità del marchio successivo anche nel caso di confondibilità con un precedente marchio registrato.

4. Tanto premesso, ritiene questo Collegio che vadano senz’altro condivise le argomentazioni e la conclusione cui è pervenuta la recente ordinanza 14681/2007.

Al riguardo si deve anzitutto rilevare che l’istituto della convalidazione del marchio, sconosciuto alla L. 30 agosto 1868, n. 4577, è stato per la prima volta menzionato nel R.D. 13 settembre 1934, n. 1602 (recante Privative industriali e marchi di fabbrica e di commercio), il cui art. 99 disponeva "La validità del marchio pubblicamente usato per cinque anni senza contestazioni, dopo la pubblicazione di cui all’art. 90, u.c., di questo decreto, non può essere impugnata per il motivo che il segno che lo costituisce può confondersi con un segno altrui, già conosciuto alla data della domanda, come distintivo di prodotti o merci dello stesso genere, o perchè esso contiene un nome o ritratto di persona".

Questa norma, come è noto mai entrata in vigore, venne sostanzialmente riprodotta dal R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 48 (Testo delle disposizioni legislative in materia di brevetti per marchi d’impresa), pacificamente applicabile ai fatti di causa, avente il seguente tenore: "La validità del brevetto, quando il marchio sia stato pubblicamente usato in buona fede per cinque anni senza contestazioni, dopo la pubblicazione di cui all’art. 35, comma 1, di questo decreto, non può essere impugnata per il motivo che la parola, figura o segno che lo costituisce può confondersi con una parola, figura o segno altrui, già conosciuto alla data della domanda, come distintivo di prodotti o merci dello stesso genere, o perchè esso contiene un nome o ritratto di persona".

La convalidazione è stata quindi prevista anche dall’art. 9 della direttiva n. 89/104/CEE 21 dicembre 1988 del Consiglio, rubricato "Preclusione per tolleranza", in attuazione del quale il D.Lgs. n. 480 del 1992, art. 45 ha modificato il testo dell’art. 48 disponendo:

"Il titolare di un marchio d’impresa anteriore ai sensi dell’art. 17, comma 1, lettere d) ed e), e il titolare di un diritto di preuso che importi notorietà non puramente locale, i quali abbiano, durante cinque anni consecutivi, tollerato, essendone a conoscenza, l’uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile, non possono domandare la dichiarazione di nullità del marchio posteriore nè opporsi all’uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il detto marchio è stato usato sulla base del proprio marchio anteriore o del proprio preuso, salvo il caso in cui il marchio posteriore sia stato domandato in malafede. Il titolare del marchio posteriore non può opporsi all’uso di quello anteriore o alla continuazione del preuso".

Disposizioni analoghe, ma destinate a disciplinare i marchi comunitari sono state emanate dall’art. 53 Regolamento CE del Consiglio n. 40/1994 del 20 dicembre 1993.

Le stesse sono state quindi nuovamente modificate dal D.Lgs. n. 198 del 1996, art. 5, che ha esteso l’istituto della convalidazione alle ipotesi in cui il marchio posteriore fosse identico o simile ad una marchio che avesse goduto di rinomanza nelle Comunità economica europea ovvero fosse notoriamente conosciuto ai sensi dell’art. 6 bis della Convenzione di Unione di Parigi; e da ultimo trasfuse con modifiche marginali nel D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 28; che ha abrogato (art. 246) l’art. 48.

Questo excursus legislativo rende palese che a partire dalle modifiche apportate a quest’ultima norma dal D.Lgs. n. 480 del 1992 per l’espresso riferimento della stessa ad entrambe le fattispecie, nessun ragionevole dubbio può residuare sull’applicazione della convalidazione sia all’ipotesi di contrassegno usato di fatto con portata generale da un primo utente, seguito da contrassegno registrato da un altro; sia all’ipotesi di contrassegno registrato da un utente e contrassegno successivamente registrato da altri. Ma è del pari certo che nè la formulazione dell’originario R.D. n. 1602 del 1934, art. 99, nè quella successivamente trasfusa nel testo dell’art. 48 contenessero alcun termine o alcuna espressione idonei a manifestare con chiarezza ed univocità l’estraneità dall’ambito della norma dell’ipotesi di conflitto fra due marchi egualmente registrati: posto che la stessa dichiarava di consentire l’uso di un marchio (registrato) confondibile con altro marchio preesistente in deroga al principio dell’esclusività dei segni distintivi dell’impresa, allorchè ne ricorressero testualmente le seguenti condizioni: a) il marchio da convalidare fosse usato pubblicamente e per almeno 5 anni; b) il suo titolare fosse in buona fede; c) il titolare del marchio preesistente conoscesse l’esistenza del marchio confondibile e l’avesse tollerata.

E’ infatti per lo meno inappropriato gratificare la dizione letterale del participio "conosciuto" della chiarezza immediata indispensabile a palesare l’intendimento del legislatore di riferirsi esclusivamente ad una situazione di fatto per poi ricorrere ad elementi logicosistematici onde dimostrarne il senso reale fra quelli in astratto ricavabili da detta espressione; per di più utilizzando argomentazioni diverse, ciascuna delle quali attesta il carattere non decisivo dell’altra, e nel contempo lo sforzo di superare la palese incertezza che il risultato ottenuto nella ricognizione dell’ambito testuale della parola suscita in relazione al problema in contestazione.

Così Cass. 1527/1967, ha invocato il rigore terminologico del legislatore che con la parola "conosciuto" avrebbe inteso richiamare o recepire l’aggettivo "noto" impiegato negli artt. 9 e 17 della legge sempre con riferimento ai marchi non registrati:senza considerare che l’argomento si espone ad essere facilmente ribaltato dall’osservazione che proprio per il rigore dimostrato dal legislatore, la scelta di adoperare la parola "conosciuti" invece di quella "noti" dimostra che abbia voluto non limitare il riferimento alle menzionate fattispecie in cui era stato adoperato tale aggettivo, ma ampliarne la portata (perciò anche ai marchi registrati). Mentre altre pronunce (cfr. Cass. 3567/1958 e 549/1965) hanno valorizzato il fatto che tale espressione fosse tecnicamente impropria e comunque diversa da quella utilizzata nelle precedenti disposizioni per comprendere i marchi "registrati" o "brevettati" (cfr. art. 19): con ciò dimostrando esclusivamente che il problema sussiste proprio perchè l’art. 48 non ha utilizzato dette espressioni certamente univoche, ma quella che concretamente si legge, provocando incertezza sulla soluzione da privilegiare. Ma non anche che solo adoperando l’uno o l’altro di detti termini si fosse potuto conseguire il risultato di comprendere anche l’ipotesi di conflitto fra due marchi registrati: come documenta proprio la disciplina successiva (D.Lgs. n. 480 del 1992 e succ.) che lo ha perseguito con formulazioni diverse e non inquadrabili in schemi lessicali predefiniti.

La fragilità di queste argomentazioni non è peraltro sfuggita agli studiosi favorevoli alla tesi restrittiva; quali hanno cercato di rafforzarla ricordando l’art. 6 bis della Convenzione di Parigi (ancora nel testo dell’Aja), ratificata con R.D. n. 159 del 1926, convertito con modifiche nella L. n. 2701 del 1927, con la quale i paesi contraenti si impegnavano a prevedere una forma di convalida del marchio suscettibile di creare confusione con altro già "notoriamente conosciuto" come segno distintivo di un cittadino di altro paese membro; ed inferendone che il legislatore del 1942 non poteva non tenere presente siffatta formula la quale indubbiamente si riferiva al marchio che prescinde dalla registrazione. Nessuno di essi è però riuscito a dimostrare in via non meramente assiomatica la derivazione dalla Convenzione sia del R.D. n. 602 del 1934, art. 99, sia dell’art. 48 ************ (che tra l’altro contiene il riferimento ad elementi peculiari, quali la buona fede) e tanto meno che entrambe le disposizioni intendessero pedissequamente riprodurne il convenuto. Il quale, infine è stato oggetto di dubbi e contestazioni fra gli studiosi anche stranieri, in prevalenza pervenuti proprio alla conclusione opposta che tutto il testo dell’Aja fosse fondato sull’ipotesi esclusiva del marchio registrato per modo che nel suo contesto l’espressione in questione dovesse intendersi come riferita proprio al marchio registrato nel quale si faceva riguardo al segno "notoriamente conosciuto" (Cass. 14681/2007).

5. Per converso, nessuna delle precedenti sentenze è riuscita a superare il rilievo (pur non determinante a favore della tesi estensiva) che lo stesso participio "conosciuto" di cui all’art. 48 fosse stato già utilizzato dal precedente L. del 1942, art. 11, in un contesto nel quale non è consentito alcun dubbio che esso intendesse abbracciare entrambi i tipi di marchio: perciò rafforzando la opinione che non si sia trattato di un termine improprio bensì consapevolmente scelto onde comprendere entrambe le ipotesi di conflitto invalidanti un nuovo brevetto, senza appunto l’intervento della norma.

Questa conclusione trova un supporto obbiettivo nella finalità della norma, la quale non fu soltanto quella di tutelare la posizione del titolare del marchio preusato nei confronti di colui che in data successiva registrasse un marchio identico o simile; ma rispose altresì all’esigenza di evitare che il preadottante potesse appropriarsi dell’avviamento di chi aveva fatto un uso posteriore del segno, per la quale era ininfluente che il marchio anteriore sia nato per uso ovvero per brevettazione.

Siffatta esigenza, già presente nella menzionata convenzione di Parigi e documentata dai vari progetti che precedettero il R.D. n. 929, è del resto, attestata dalla preoccupazione della dottrina e della giurisprudenza del tempo, per gli abusi e le condotte "latu sensu" ricattatorie cui dava luogo il sistema di validità perpetua del marchio:consentendo al titolare di questo, pur se registrato in epoca, remota, e di fatto abbandonato, di inibire in qualsiasi momento anche con scopi meramente emulativi, l’uso di marchi affini più recenti ed effettivamente utilizzati; e dalla ricerca di rimedi, in attesa dell’intervento del legislatore, cui sembrò rispondere l’elaborazione della tesi cd. della "derelictio tacita" consistente in una sorta di presunzione di abbandono del diritto al marchio malgrado la sua perpetuità, da parte di chi non lo aveva usato per lungo tempo. Ovvero per lungo tempo aveva tollerato l’uso di un marchio affine da parte di altri (Cfr. Cass. Roma 6 marzo 1907).

In realtà le decisioni che hanno seguito l’interpretazione restrittiva non hanno disconosciuto la necessità di una disciplina alle possibili forme di rinuncia all’esercizio del diritto, ma hanno ritenuto che tale tutela dovesse, nell’intedimento del legislatore del 1942, arrestarsi a fronte del presupposto soggettivo richieste per la convalidazione: e cioè la buona fede richiesta in capo al titolare del brevetto affinchè egli potesse avvalersi dell’istituto (Cass. 549/1965). E che non sarebbe mai configurabile a favore di quest’ultimo per la sussistenza del regime di pubblicità legale (Cass. 2724/1960) allorquando il marchio anteriore sia stato brevettato (e la notizia della concessione del brevetto perciò pubblicata sul Bollettino dei brevetti per invenzioni, modelli e marchi R.D. n. 929, ex art. 35).

Ma anche quest’argomentazione – che, peraltro, è la sola utilizzata dai ricorrenti per dubitare della buona fede della controparte nel successivo uso dei due marchi, ed anzi per presumerne la malafede – disvela la propria parzialità, essendo all’evidenza fondata sulla sola ipotesi dei marchi eguali o identici, ed avendo trascurato quella, nella realtà assai più frequente, di marchi solo simili, e comunque tutti i casi di confondibilità dei segni che si profili come riflesso della loro somiglianza: in rapporto ai quali è sicuramente ipotizzabile la buona fede (anche per le difficoltà di accedere prima della concessione del brevetto a documenti diversi al verbale di deposito contenente soltanto una descrizione sommaria del marchio, ed una indicazione delle classi dei prodotti per cui il brevetto è richiesto).

D’altra parte, la giurisprudenza di legittimità ha rilevato ripetutamente che l’attività pubblicitaria è rivolta alla finalità di rendere conoscibile un fatto od un atto, senza pretendere di realizzare l’acquisizione della conoscenza effettiva; sicchè da essa deriva la conoscibilità legale, la quale opera quale surrogato o come equipollente della conoscenza effettiva (e fuori dalle ipotesi specificamente previste non può considerasi equivalente a quest’ultima). Laddove detta funzione sostitutiva resta estranea all’art. 48 posto che lo stesso include fra i suoi elementi costitutivi lo stato di ignoranza e qualifica come fatto impeditivo uno stato di conoscenza (effettiva): perciò inducendo il giudice ad indagare in relazione alle circostanze contingenti del caso (fra le quali è da comprendere l’avvenuta registrazione) circa l’esistenza in concreto della conoscenza e dell’ignoranza anche in capo al richiedente la convalidazione.

E’ proprio per tali ragioni che questa Corte, fin dalle prime applicazioni della normativa, ha ritenuto ammissibile la buona fede di colui che abbia adottato un marchio eguale o simile ad altro marchio registrato (Cass. 272/1945; 1260/1955); e che le nuove discipline nazionali e comunitarie hanno definitivamente smentito l’asserita incompatibilità logico-giuridica tra previsione della pubblicità legale e buona fede di colui che agisce in contrasto con le risultanze della medesima: prevedendo quale limite all’istituto "il caso cui il marchio posteriore sia stato domandato in malafede", e perciò ammettendo implicitamente una vasta gamma di fattispecie in cui la mancata consultazione del registro dei brevetti e l’uso pubblico in buonafede di detto richiedente possano coesistere (Cass. 1424/2000).

6. Le argomentazioni principali e nel contempo più suggestive delle decisioni di questa Corte a sostegno della tesi restrittiva, provengono. tuttavia da un’interpretazione sistematica dell’intera normativa che si è articolata attraverso i seguenti rilievi: a) il conflitto tra due marchi registrati è regolato dall’art. 47 che dispone la nullità di quello successivo per mancanza del requisito della novità, e che esaurisce la disciplina delle nullità; per cui, siccome il conflitto tra marchi di fatto è regolato dal criterio temporale, il successivo art. 48, avente una propria ed autonoma collocazione nel sistema, non può che riferirsi esclusivamente all’ipotesi residua di conflitto tra un marchio non brevettato ed uno successivo brevettato privilegiando in coerenza con il particolare favore da parte delle altre disposizioni per il principio della brevettabilità rispetto a quello della novità; b) si esclude in tal modo la convalida o convalescenza di ciò che le precedenti disposizioni hanno dichiarato nullo; la quale, d’altra parte, non si concilia con la rigorosa tutela accordata dalla legge ai marchi di impresa muniti di regolare brevetto; c) sul piano degli effetti viene altresì evitata l’assurda contemporanea validità di brevetti appartenenti a titolari diversi che avendo per oggetto marchi eguali o simili siano fra di loro manifestamente incompatibili; d) e viene soprattutto evitata la paradossale conseguenza che dovrebbe conseguire a tale situazione, che sia il giudice ad eliminare il primo brevetto attraverso una pronuncia di decadenza non prevista dalla legge, onde ripristinare la coerenza del sistema per il quale uno ed un sol brevetto deve esistere a coprire un unico diritto di esclusiva.

Ma nessuno di essi appare persuasivo anche perchè finisce per far leva, soprattutto, sulla classificazione aprioristica come irrazionale di un effetto che il principio opposto comporterebbe.

Non è infatti sostenibile la mancanza di connessione tra le disposizioni dell’art. 47 e quelle dell’art. 48 che riguarderebbero ipotesi diverse ed inconciliabili, posto che la prima nell’enunciare la regola della nullità del brevetto, fa immeditamente ed esplicitamente "salvo il disposto dell’articolo seguente": perciò instaurando essa una specifica connessione con quest’ultimo, e preannunciandone il contenuto in una limitazione o in una diminuzione, ovvero se si vuole in una deroga, degli effetti normali da essa previsti (la declaratoria di nullità).

Ancor meno sostenibile è che la clausola possa essere riferita soltanto alla prima categoria ivi considerata di nullità in relazione al difetto dei requisiti di novità del marchio in conseguenza di preuso: piuttosto che anche alla fattispecie di cui al n. 3 di precedente concessione di altro brevetto per il medesimo marchio: anzitutto per la sua collocazione significativamente nella parte iniziale della disposizione ove si preannunciano tutte le possibili fattispecie di nullità del brevetto (piuttosto che subito dopo la specifica ipotesi stabilita dal n. 1); e quindi per la sua dizione generica, non contenente limitazioni di alcun genere. Per cui, può dubitarsi che essa possa trovare concreta applicazione nell’ipotesi prevista al n. 2 di invalidità del marchio per contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume, o perchè consistente in segni sottratti alla privata appropriazione in forza delle convenzioni internazionali, o negli altri casi del precedente art. 18, in quanto configuranti altrettante ipotesi di nullità radicale ed originaria del presunto diritto, piuttosto che casi di venir meno della sua protezione. Ma siffatta incompatibilità logica non sussiste sicuramente nella fattispecie individuata dal n. 3 di nullità del brevetto perchè "concesso per il marchio che abbia già formato oggetto di brevetto avente effetto da data anteriore, ai termini dell’art. 19": relativa ai rapporti di questo con marchi preesistenti o successivi, cui ha riguardo proprio l’istituto della convalidazione, in relazione ai quali dunque ben poteva prevedersi l’impedimento alla dichiarazione di nullità di cui all’art. 48 qualora questa, decorsi 5 anni sia richiesta sotto il profilo della confondibilità con una parola figura o segno altrui.

Le due norme, conclusivamente non regolano ipotesi diverse, ma la minore (art. 48) riguarda un aspetto della maggiore (art. 47) e tra di esse è semmai istituito dalla clausola, altrimenti priva di senso giuridico, un rapporto di genere a specie proprio nei termini evidenziati dall’interpretazione estensiva, che l’azione di nullità -altrimenti assolutaviene paralizzata per volontà dello stesso art. 47 in conseguenza dell’istituto della cd. (dagli studiosi e dalla giurisprudenza) convalidazione o consolidazione anche nella ipotesi in cui il suo titolare la faccia valere per la confondibilità da parte di soggetti esterni del secondo brevetto con quello proprio.

Le Sezioni Unite devono, poi, rilevare che nell’art. 48 non vi è una sola parola che suggerisca o autorizzi la conclusione che la norma abbia inteso sanare o convalidare un marchio nullo, restituendogli ciò che gli è stato negato dall’art. 47, e perciò in aperta contraddizione con quest’ultima disposizione: la stessa invece introduce una preclusione all’esercizio tardivo dell’azione di nullità (o di contraffazione) per il fatto che la stessa non sia stata esercitata nel termine di cui si è detto, lasciando impregiudicata ogni questione di validità o nullità del marchio posteriore nei confronti dei terzi; e disponendo soltanto, come avvertito da attenta dottrina, che il suo titolare rimasto inerte è decaduto dal diritto di difendere l’uso monopolistico del marchio nei confronti di colui del quale ha tollerato l’abuso. In analogia a quanto disposto dall’istituto della Verwirkung del diritto tedesco, di carattere più generale, per il quale la negligenza nell’esercizio di un diritto, creando l’affidamento che il diritto non sarà esercitato, preclude l’azione a difesa del diritto stesso. Per cui si tratta di una norma di carattere processuale che in forza di detto principio, per il quale è indifferente che il marchio precedente sia soltanto usato di fatto o anche registrato, stabilisce per il suo titolare inerte decadenza dall’uso esclusivo dello stesso e preclusione in futuro di azioni con un preciso contenuto dirette ad affermare l’esclusività del diritto nei confronti del soggetto nei cui confronti il suo comportamento fu tollerante: senza perciò disporre alcuna decadenza dall’uso futuro del suo contrassegno (che è cosa diversa dall’uso esclusivo).

Anzi detto uso veniva espressamente consentito dal R.D. n. 1602 del 1934, art. 99, comma 2 e la relativa disposizione è stata sostanzialmente reintrodotta dal D.Lgs. n. 480 del 1992 ("Il titolare del marchio posteriore non può opporsi all’uso di quello anteriore o alla continuazione del preuso); per cui il fatto che la stessa non compariva nel testo originario può soltanto spiegarsi con una mera omissione da parte del legislatore, ovvero più fondatamente, per il convincimento che la stessa fosse inutile perchè la circostanza aggiunta doveva allora ritenersi del tutto pacifica. Ma non può certamente indurre a ritenere introdotta una decadenza non scritta dalla norma, o peggio abilitare il non scritto all’esplicazione di effetti normativi analoghi ad un testo esplicito che l’avesse stabilita.

Pertanto non soltanto non può convenirsi con la sentenza 3750/1957 e le successive laddove postulano come necessario effetto alla convalida del brevetto posteriore (affermato dall’interpretazione estensiva) la decadenza del segno anteriore, ma è priva di consistenza anche l’argomentazione a sostegno del carattere necessitato di siffatta conclusione: che altrimenti dovrebbe verificarsi la coesistenza dei due marchi confondibili nello stesso mercato, che ne tradirebbe la funzione distintiva. Perchè proprio detta coesistenza ed il medesimo effetto si verificano nel caso tradizionalmente ammesso di convalidazione a seguito di conflitto tra marchio brevettato e marchio di fatto, nonchè nell’ipotesi prevista dal R.D. n. 929 del 1942, art. 9 di uso precedente, da parte di terzi, di un marchio non brevettato,, che non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, nonchè di uso di un marchio simile o eguale da parte del successivo registrante (Cass. 14342/2007; 4405/2006); e perchè la disciplina introdotta nel 1992 e successivamente confermata, dimostra che la coesistenza dei segni non è impedita da alcuna ragione di principio.

7. Risultate prive di forza probante le ragioni tradizionalmente addotte a sostegno della lettura restrittiva, si impone perciò stesso un’interpretazione estensiva della norma; la quale – a differenza di quella analogica (Cass. 7494/1990)- costituisce il risultato di un’operazione logica diretta ad individuarne il reale significato e la sua portata effettiva, divenuta necessaria una volta escluso che la lettera dell’art. 48 fosse tale da renderla da sola univocamente riferibile anche al conflitto tra marchi registrati.

Ma le Sezioni Unite ritengono che la stessa debba essere privilegiata soprattutto al lume dei vari interventi nella medesima direzione che si rinvengono nella recente legislazione citata nel p. 3, la quale uniformandosi alla linea di tendenza manifestatasi in altri paesi nonchè nell’ambito della legislazione comunitaria, evidenzia la progressiva evoluzione che ha interessato l’istituto della convalidazione: sorto quale (prudente) limite di un sistema finalizzato ad ottenere il massimo riconoscimento alla brevettazione dei marchi con il quale dunque doveva risultare compatibile, ed ormai rivolto, in seguito alla continua rielaborazione di principi ed istituti del R.D. n. 929 del 1942, sempre più a garantire l’esigenza di evitare possibili fenomeni di abuso del diritto.

Di tale mutata "ratio" si trova del resto riscontro già nel preambolo della citata Direttiva CEE 104 del 1989 che al considerando n. 11 stabiliva che "occorre per ragioni di sicurezza giuridica, e senza ledere ingiustamente gli interessi del titolare di una marchio di impresa anteriore, prevedere che questi non possa più richiedere la nullità ovvero opporsi all’uso di un marchio di impresa posteriore al proprio, qualora ne abbia coscientemente tollerato l’uso per un lungo periodo, tranne nel caso in cui il marchio di impresa posteriore sia stato domandato in malafede". E, quindi, nel D.Lgs. n. 480 del 1992 emanato per dare attuazione alla direttiva suddetta, che ha riformulato interamente il testo dell’art. 48 incentrandolo sul divieto di abuso da parte del titolare del marchio anteriore ed includendovi espressamente quale prima ipotesi considerata, il riferimento al conflitto di marchi entrambi registrati: a riprova della decisa ed ormai irreversibile scelta operata dal legislatore a favore dell’estensione dell’istituto anche a quest’ultima fattispecie, divenuta ferina in tutte le disposizioni legislative successive nazionali e comunitarie (p. 3).

Non giova, pertanto opporsi ad una rinnovata lettura del testo originario, invocando il disposto del D.Lgs. n. 492, art. 89, per cui "I marchi d’impresa concessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto sono soggetti, in quanto alle cause di nullità, alle norme di legge anteriori": in quanto qui non si tratta di disattendere questa disposizione, ma di sottoporla all’obbligo generale della cd. interpretazione evolutiva e sistematica della legge: per osservare il quale il giudice non può limitarsi a rievocarne il senso originario, ma al fine di evitare che la stessa si esaurisca nella sua primitiva formulazione, deve invece cercare di conciliare il contenuto originario della formula legislativa con la situazione esistente al momento in cui detta norma deve essere applicata; e di evitare, quindi, situazioni di contrasto o comunque di disarmonia dell’ordine giuridico.

Detta regola ermeneutica è stata sistematicamente applicata da questa Corte (cfr. Cass. sez. un. 500/1999) fin dalla nota decisione 2702/1940 con riferimento alle nuove disposizioni accolte nei progetti relativi al nuovo codice civile; ed è divenuta ineludibile a seguito della partecipazione dell’Italia alla comunità europea:e ciò non soltanto per l’evidente opportunità di attribuire alla convalidazione del marchio lo stesso ambito di applicazione nonchè la medesima finalità che aveva acquistato negli altri paesi della comunità; e, quindi parità di trattamento sul mercato agli imprenditori nazionali. Ma soprattutto per l’obbligo di interpretazione conforme degli Stati aderenti al diritto comunitario enunciato dalla Corte di Giustizia delle comunità europee; la quale in numerose recenti decisioni, puntualmente riportate da Cass. 14681/2007, in relazione alle direttive della Comunità lo ha riaffermato in modo incondizionato "a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva", con la conseguenza che il giudice nazionale è onerato anche in tal caso di una esegesi che deve svolgere quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva "onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima".

D’altra parte, l’art. 117 Cost., comma 1, dispone che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato (e dalle Regioni) nel rispetto oltre che della Costituzione, "dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali"; e tanto la Corte Costituzionale, quanto questo Supremo Collegio, hanno ripetutamente affermato che detto precetto impone un espresso vincolo a diritto comunitario nell’esercizio della potestà legislativa statale e regionale. Anzitutto nel senso che il legislatore italiano non può adottare norme in contrasto con il diritto comunitario, essendosi realizzata una limitazione di sovranità (meglio "cessione") a favore della Comunità (in applicazione dell’art. 11 Cost.), comportante quale effetto, dei limiti che impediscono allo Stato sia di legiferare in maniera difforme, sia di legiferare su determinate materie per le quali si è attribuita una competenza esclusiva alla Comunità.

Ma detta norma comporta altresì l’obbligo del giudice nazionale di verificare d’ufficio la compatibilità del diritto interno con le disposizioni comunitarie; e quindi, qualora una norma interna possa risultare conliggente con una norma della Convenzione, il dovere di detto giudice, che deve farne applicazione, di individuare, ove possibile, una interpretazione della norma interna che possa essere compatibile con la Convenzione suddetta: privilegiando, fra contrapposte soluzioni interpretative – abbiano esse dato luogo o meno, come nella fattispecie ad un contrasto giurisprudenzialequella coerente con i canoni dell’ordinamento comunitario.

E la direttiva comunitaria 21 dicembre 1988 n. 89, emanata quando era ancora in vigore l’originario testo del R.D. n. 929 del 1942, art. 48 e significativamente rivolta a recare ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, aveva espressamente previsto nell’art. 9 l’istituto della convalidazione precludendo al titolare di un marchio di impresa anteriore di cui all’art. 4, p. 2 (…), il quale abbia tollerato l’uso in uno stato membro "di un marchio di impresa posteriore registrato in detto Stato membro", di richiedere la dichiarazione di nullità del marchio di impresa posteriore … per i prodotti o servizi per i quali è stato utilizzato il marchio di impresa posteriore.

Analoga disciplina è stata, quindi, estesa dal ricordato art. 53 del Regolamento CE del Consiglio 20 dicembre 1993 n. 40/94 ai marchi comunitari che consentono alle imprese di contrassegnare i propri prodotti e servizi allo stesso modo su tutto il territorio dell’Unione europea; per cui il diritto comunitario già durante la vigenza dell’originario art. 48 ************, non soltanto ammetteva l’istituto della convalidazione, ma disponeva espressamente che lo stesso dovesse trovare applicazione anche nel conflitto tra marchi ambedue registrati. Mentre si è visto che la ragion d’essere del D.Lgs. n. 480 del 1992 è stata proprio quella di adeguare la vigente legge marchi alla ricordata direttiva, anche per in relazione all’istituto della convalidazione; e che l’art. 45 ne ha modificato l’originaria formulazione in termini sostanzialmente corrispondenti alla disposizione della direttiva in cui non soltanto veniva espressamente parificata l’ipotesi di conflitto tra marchi registrati a quella tradizionale (marchio di fatto preusato e marchio registrato confondibile), ma è stato altresì sostituito il presupposto di applicabilità dell”istituto, in origine costituito dal solo uso pubblico in buona fede del marchio, con l’aggiunta nella nuova disposizione (così come in quella comunitaria) anche dalla tolleranza di tale uso (Cass. 1424/2000).

Pertanto pure l’originario testo dell’art. 48 del menzionato R.D. n. 929 del 1942, in astratto suscettibile di più interpretazioni, di cui quella tradizionale darebbe un significato non rispondente alla disciplina comunitaria, e quindi, in contrasto con la disposizione dell’art. 117 Cost., comma 1, deve interpretarsi in senso conforme a quest’ultima normativa: che lo dichiara applicabile non soltanto alla fattispecie di conflitto tra un marchio registrato ed un marchio di fatto preusato, ma anche (e principalmente) nella diversa ipotesi di conflitto tra marchi registrati.

8. Le considerazioni svolte sulla natura e sulla funzione della convalidazione rendono evidente l’inconsistenza del 4 e 5 motivo del ricorso con cui il D.N. ed i consorti, deducendo violazione dello stesso R.D. n. 929 del 1942, art. 48 ed D.Lgs. n. 480 del 1992, art. 89, si dolgono che la decisione di appello non abbia ritenuto che il quinquennio richiesto dalle menzionate norme non era comunque maturato per essere iniziato a decorrere dalla data di entrata in vigore del nuovo testo di detto art. 48 ed essere stato interrotto dall’atto di diffida inviato alla controparte con lettera raccomandata del 18 dicembre 1997.

Si è detto, infatti, che l’istituto fin dalla formulazione contenuta nel R.D. n. 1632 del 1934, art. 99, non è stato mai configurato come una perdita del diritto all’uso del proprio marchio (anzi, espressamente esclusa dal comma 2 della norma) "erga omnes" ovvero come presunzione di rinuncia da parte del suo titolare alla tutela concessa dalla legge nei confronti del titolare di marchio posteriormente registrato; ed ancor meno come una forma di acquisto del relativo diritto da parte di quest’ultimo per una sorta di usucapione maturata per il solo decorso di un quinquennio: in relazione a ciascuno dei quali l’inerzia e l’inutile decorso del tempo ben potrebbero essere interrotti con le manifestazioni e le modalità previste dal codice civile.

La norma, invece, come è confermato dal suo tenore letterale, rivolgendosi esclusivamente alla "impugnativa" del(la validità del) brevetto contiene una disposizione di carattere processuale che introduce un ostacolo o impedimento al suo esercizio per il decorso del quinquennio di cui si è detto; e perciò si traduce in una vera e propria decadenza dall’esercizio dell’azione di nullità o di contraffazione. Al pari del resto di quanto avviene nel diritto tedesco per la Verwirkung che viene tenuta ben distinta dalla Verjahrung (prescrizione). Con la conseguenza evidenziata dall’art. 2966 cod. civ. e puntualmente applicata dalla sentenza impugnata che la stessa può essere impedita soltanto dal compimento dell’atto previsto dalla legge; che nel caso è soltanto la citazione introduttiva del giudizio di nullità (o di contraffazione) o comunque il ricorso per l’inibitoria dell’uso del brevetto posteriore: come del resto reso palese dallo stesso art. 48 laddove è stabilito che il marchio anteriore deve essere già conosciuto come distintivo di prodotti o merci dello stesso genere "alla data della domanda" che è, all’evidenza, quella giudiziale rivolta all’impugnativa del marchio di cui al precedente art. 47, n. 3; e viene preso in considerazione per il maturare della convalidazione esclusivamente periodo di uso in buona fede per un periodo di 5 anni compreso tra la pubblicazione del brevetto di cui all’art. 35 e "l’impugnazione" giudiziale.

Pertanto del tutto correttamente la Corte di appello ha rilevato da un lato che detta "domanda" con le caratteristiche richieste dalla norma era stata proposta soltanto con il ricorso cautelare al Tribunale di Milano depositato in data 20 marzo 1998, perciò a nulla rilevando l’invio della precedente diffida in data 18 dicembre 1997;

e dall’altro che detto deposito era successivo allo spirare dell’intero quinquennio stabilito dall’art. 48: perfino se il dies a quo fosse stato calcolato a decorrere dal 1 gennaio 1993, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 480 del 1992, applicando l’ultimo comma dell’art. 89 di detta normativa (più favorevole ai ricorrenti) piuttosto che dal gennaio 1990 in cui aveva avuto inizio l’uso del marchio brevettato 581.357 (che era stato quello successivamente registrato), in conformità al disposto del comma 1 dello stesso art. 89. Con la conseguenza che perde di rilievo stabilire se nel caso concreto si applicava l’una o l’altra disposizione perchè in entrambe le ipotesi la sentenza impugnata ha accertato che la preclusione all’esercizio dell’impugnativa alla data della "domanda" era maturata.

9. Con il secondo motivo del ricorso, la s.r.l. ********* ed i consorti, deducendo violazione del R.D. n. 922 del 1942, art. 48, censurano la sentenza impugnata per non aver considerato: a) che il marchio 421.804 non era stato registrato per prodotti di abbigliamento, per cui non era suscettibile di convalidazione per tali prodotti, in relazione ai quali doveva qualificarsi "di fatto": non potendo alla mancata reazione del titolare del marchio già registrato attribuirsi altro effetto se non quello di tolleranza della contraffazione; e neppure condividersi la tesi che la convalidazione possa operare per i prodotti per i quali il marchio è stato usato, ma non registrato; b) che la dichiarazione di protezione deve essere interpretata nel senso di escludere i settori la cui classe non viene indicata dal titolare del marchio registrato.. Con la conseguenza che:

a) taluni accessori dell’abbigliamento non potevano costituire nel contempo oggetto del proprio marchio registrato per la calasse 25 e di quello della controparte registrato per le classi 16, 18, 20, 24 e 28:

anche perchè la classificazione internazionale dei beni e dei servizi esclude la possibilità di sovrapposizione tra classi ed impone a tal fine al registrante, allorchè un prodotto possa avere una collocazione in più classi, di scegliere la classe alla quale riferirlo; b) ove per qualsiasi ragione venga pronunciata la convalidazione di un marchio registrato con l’indicazione delle classi suddette, la stessa non abilita chi l’ha ottenuta a trasferire la incontestabilità nel campo dei prodotti per abbigliamento, esclusi dalla dichiarazione di protezione.

Anche queste censure sono infondate.

Non è condivisibile il percorso logico attraverso il quale i ricorrenti sono pervenuti al risultato che il marchio n. 421.804 non essendo stato registrato per prodotti di abbigliamento, doveva considerarsi di fatto e come tale insuscettibile di convalidazione per tali prodotti. Anzitutto perchè la decisione impugnata non ha in punto di diritto mai esteso, neppure in linea astratta l’ambito di applicazione del R.D. n. 929, art. 48, alla sequenza temporale marchio registrato – marchio di fatto successivo e confondibile; nè, con riferimento al caso particolare, ha dichiarato in alcuna parte della motivazione la incontestabilità del marchio suddetto nel campo dei prodotti dell’abbigliamento e degli accessori per l’abbigliamento (di cui alla classe 25), per i quali la controparte non aveva ottenuto la registrazione.

E quindi, per l’inconsistenza del tentativo di neutralizzare gli effetti della registrazione del marchio in questione e di escluderne in tal modo la convalidabilità attraverso il recupero di quel collegamento e/o dell’interferenza con i settori merceologici del precedente brevetto 407.266 della s.r.l *********, rilevanti invece ai fini dell’accertamento della sua nullità e/o contraffazione, che la Corte territoriale non aveva esaminato a causa della preclusione temporale posta dalla norma.

Gli stessi ricorrenti, infatti, hanno riferito e riconosciuto che parte avversa è risultata titolare del marchio "sulla parola "*********" utilizzata per contraddistinguere prodotti fabbricati a (omissis) dove ha sede la società" (pag. 2), concesso il 12 maggio 1986.

Ora, in relazione alla connaturale funzione del marchio, di identificazione di un determinato prodotto, di una determinata categoria di prodotti (nonchè di facilitarne la penetrazione commerciale), l’art. 2569 cod. civ. qualifica il relativo diritto, quale diritto di valersene in modo esclusivo "per le cose per le quali è stato registrato"; mentre il R.D. n. 929 del 1942, art. 1, definisce i diritti di brevetto per marchio di impresa come facoltà di far "uso esclusivo del marchio per contraddistinguere i prodotti o le merci …". Ed il successivo art. 26 significativamente prescrive all’atto della domanda di brevetto, l’indicazione del genere di prodotti o merci che il marchio serve a contraddistinguere nell’ambito della tabella C annessa.

Da tali espressioni consegue che il marchio non forma oggetto di esclusiva di per sè, quanto in relazione al suo uso come segno distintivo del settore merceologico (normativamente prefissato) in cui il segno viene adottato; o meglio ancora nell’ambito merceologico per il quale la norma, in relazione alla registrazione riconosce l’esclusività dell’utilizzazione del segno. E che l’esistenza della tutela brevettuale si fonda proprio sulla rivendicazione della protezione per classi di prodotto, sulla base della menzionata classificazione merceologica. Per cui, avendo la Corte di appello accertato, in ottemperanza a questo quadro normativo, che il marchio n. 421.804 era stato registrato (per quanto qui interessa) per le classi 16 (articoli di carta e cartoleria), 18 (articoli in cuoio, bauli valigie ecc.), e 24 (prodotti in tessuto), proprio per il principio ricordato dai ricorrenti che "il marchio è registrato con riferimento ai prodotti per i quali è registrato" (pag. 15 ric.), non era più sostenibile, in contrasto con la procedura di brevettazione iniziata con domanda del 21 giugno 198 3 ed utilmente conclusa con la menzionata concessione del 12 maggio 1986, che lo stesso dovesse qualificarsi "di fatto" e non fosse riconducibile nella dichiarazione di protezione della registrazione: residuando, invece, il problema di accertare, ai fini della sua convalidazione, se lo stesso fosse stato utilizzato per i generi di prodotti per i quali era stato registrato, ovvero per generi merceologici affatto diversi, quali (in ipotesi) i prodotti di abbigliamento di cui alla classe 25, già oggetto del marchio n. 407.266 dei ricorrenti, posto che l’istituto introdotto dal menzionato R.D. n. 929, art. 48, richiede come presupposto per la sua applicazione l’uso pubblico in buona fede del marchio per 5 anni senza contestazioni "dopo la pubblicazione di cui all’art. 35, comma 1".

Siffatto accertamento è stato puntualmente compiuto dalla decisione impugnata pervenuta al risultato che "i prodotti realizzati e diffusi sul mercato dalla s.p.a ********* erano assolutamente rientranti nelle categorie per le quali il marchio era stato registrato"; ed è divenuto incontestabile per non avere i ricorrenti neppure prospettato incongruità o illogicità nella relativa motivazione:

perciò più non consentendo di individuare gli estremi di una non corretta applicazione del R.D. n. 929, art. 48, nel giudizio al riguardo della Corte di appello, nè di rimettere in discussione la ricorrenza dei presupposti per la convalidazione del marchio ********* per i prodotti per cui aveva ottenuto la registrazione.

D’altra parte la Corte di appello non ha mai preteso di estenderne gli effetti anche a prodotti non rientranti nelle classi suddette:

avendo avuto, per converso cura di specificare che il marchio è registrato per una certa categoria o per più categorie di prodotti, e che la convalida è possibile soltanto per essi: così come riconoscono gli stessi ricorrenti laddove deducono (pag. 22) che un marchio registrato "è suscettibile di convalidazione solo per i prodotti delle classi per le quali è stato registrato e per i prodotti affini a quelli compresi in tali classi".

A tal fine, anzi, la sentenza impugnata ha ritenuto più volte necessaria la precisazione che la convalida suddetta non è consentita "genericamente per tutti i prodotti per i quali il marchio sia stato registrato, quanto per quelli per i quali è stato di fatto utilizzato": perciò correttamente traendo dal testo dell’art. 48 non la conclusione che le attribuiscono i ricorrenti, ma una ulteriore limitazione all’ambito di applicazione dell’istituto, che richiede dapprima l’individuazione delle classi e dei prodotti per i quali l’imprenditore ha ottenuto la registrazione, e poi la disamina, nell’ambito di dette classi, di quelli fra di essi (e non quindi al di fuori di essi) effettivamente utilizzati. E ribadendo siffatto risultato nella considerazione conclusiva che la convalidazione non sarebbe, del resto, applicabile "se i prodotti per i quali il marchio è stato effettivamente utilizzato fossero assolutamente diversi, disomogenei, destinati a soddisfare esigenze diverse, diretti ad un pubblico …" rispetto a quelli per i quali il marchio è stato registrato.

Che se poi detti prodotti presentavano affinità rispetto a quelli per cui imprenditori concorrenti avessero ottenuto in precedenza la brevettazione (anche in altre classi), e se quindi nel caso concreto, detta affinità sussisteva con i prodotti di abbigliamento (ed accessori) rientranti nella classe 25 (per la quale il D.N. aveva brevettato il precedente marchio 407.266), ovvero se non fosse stata effettuata la scelta della classe cui riferire ciascuno di tali prodotti, onde evitare la sovrapposizione tra le relative classi, non per questo venivano meno gli effetti della registrazione; o se ne verificava una sorta di decadenza con conseguente perdita della protezione, non prevista da alcuna disposizione di legge. Ma ciascuna di dette situazioni poteva determinare il difetto di novità del marchio successivo, ovvero se identico o simile per prodotti affini, il rischio di confusione con quelli per cui era stato ottenuto il marchio 407.266: perciò legittimando i ricorrenti ad esperire l’azione di nullità o quella di contraffazione onde impedire (anche) che il proprio anteriore marchio registrato per prodotti di abbigliamento ed accessori potesse essere utilizzato per prodotti pur affini a questi ultimi, ma suscettibili di rientrare in altre classi;

e quindi destinati a percorrere diversi canali distributivi e diversi punti di vendita (Cass. 14684/2007; 21013/2006; 23787/2004).

Laddove la loro inerzia protrattasi per un periodo di tempo superiore a quello stabilito dal ricordato art. 48 ha comportato la convalidazione anche del marchio 421.804: avente necessariamente un’estensione pari a quella che avrebbe avuto ciascuna di dette azioni e perciò comprendente l’uso dei prodotti classificati nelle classi di cui si è detto e di quelli affini, ma comunque rientranti fra quelli per cui era stata conseguita la registrazione.

10. Con il sesto motivo i ricorrenti, deducendo altra violazione del R.D. n. 929 del 1942, art. 48 e dell’art. 13 nuovo testo legge marchi, si dolgono che la Corte di merito abbia sancito l’incontestabilità per effetto di convalidazione non soltanto del marchio successivamente registrato, ma per analogia, anche della denominazione sociale, pur palesemente incompatibile con il diritto esclusivo del suo titolare:senza considerare nè il carattere eccezionale di detta normativa che non consente il ricorso all’analogia, nè le contrarie considerazioni contenute nella decisione 14483/2002 di questa Corte, la quale ha affermato la non estensibilità della convalidazione ad altri segni distintivi dell’impresa.

Con l’ultimo motivo, deducendo contraddittoria motivazione censurano la sentenza impugnata per avere dapprima accertato l’affinità dei prodotti immessi sui mercato dalla s.p.a. Camomilla con quelli propri, ed in particolare con gli accessori per l’abbigliamento; per poi escludere che la produzione e la vendita di articoli da regalo in genere, da includere soprattutto nell’ambito degli oggetti di cartoleria, potesse dar luogo a rischio di confusione con i propri oggetti di abbigliamento; e ciò al fine di sancire comunque l’incontestabilità della denominazione sociale della controparte, confermata secondo la sentenza non già da un giudizio di confondibilità condotto in astratto, bensì dal dato incontestabile che nei 20 anni di convivenza delle due attività non si era verificata di fatto alcuna confusione.

Anche queste doglianze sono infondate. Non è anzitutto esatto che la Corte di appello abbia dapprima riconosciuto (pag. 18) il rischio di confusione tra le denominazioni sociali delle parti, per poi contraddittoriamente escluderlo: anzitutto perchè nella parte della motivazione indicata dai ricorrenti la sentenza non ha affatto esaminato questioni inerenti a siffatto rischio, bensì il diverso problema dell’ambito di convalidazione del marchio della resistente registrato al n. 421.804, nonchè delle classi di prodotti cui esso si riferiva.

Quindi, perchè detti giudici si sono ivi limitati a riportare la prospettazione difensiva degli allora appellanti laddove sostenevano "l’affinità" dei prodotti immessi sul mercato dalla s.p.a. Camomilla con quelli propri, con particolar riguardo agli accessori dell’abbigliamento; ed a dare atto che il Tribunale aveva riconosciuto detta affinità limitatamente ai prodotti destinati ad essere portati sulla persona (specificamente elencandoli).

Infine perchè la sentenza ha risolto la questione, perciò non riguardante la denominazione, prescindendo dalla prospettazione suddetta e considerando decisiva al riguardo la circostanza obbiettiva che anche i prodotti di cui si deduceva l’affinità rientravano comunque nelle categorie per le quali la resistente aveva conseguito la registrazione.

La Corte territoriale, ha invece, affrontato il profilo di censura inerente alla violazione della denominazione sociale, per la prima volta e senza incorrere nella contraddizione denunciata, nel successivo p. 6, in particolar modo nell’ultima parte della motivazione, peraltro attenendosi ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, che qui giova riassumere (per quanto può interessare): 1) l’art. 2563 c.c., comma 1, statuisce, che "l’imprenditore ha diritto esclusivo all’uso della ditta prescelta";

la quale – al pari della denominazione sociale, dell’insegna e del marchio – è un segno distintivo relativo all’attività d’impresa. E più specificamente, contraddistingue quest’ultima, mentre il marchio contraddistingue i prodotti; ed entrambi, peraltro, mirano per un verso a favorire l’acquisizione e il mantenimento della clientela, per altro verso a rendere consapevoli i consumatori nelle loro scelte. Sicchè la rispettiva disciplina, seppure è contenuta in fonti normative diverse, è assoggettata a taluni principi comuni, fra i quali la necessità che detti segni distintivi abbiano il carattere della verità, capacità distintiva e novità; 2) per tali ragioni il successivo art. 2564 cod. civ., stabilisce che "quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla". E l’art. 2567 cod. civ. statuisce, a sua volta, che anche alla denominazione delle società si applicano le disposizioni dell’art. 2564 cod. civ.; 3) per l’applicazione di detta normativa non è tuttavia sufficiente che due società inseriscano, nella propria denominazione, la stessa parola, la quale assuma per entrambe efficacia identificante, ma occorre altresì che si verifichi possibilità di confusione, in relazione all’oggetto ed al luogo delle rispettive attività: e cioè la virtuale possibilità di confusione tra le ditte e le denominazioni sociali dei due imprenditori; per la cui valutazione non è necessario prendere in considerazione le attività effettivamente svolte dalle imprese, bastando il raffronto tra i rispettivi oggetti sociali risultanti dagli atti costitutivi sottoposti a pubblicità, poichè l’oggetto sociale costituisce l’esteriorizzazione dell’attività d’impresa in tutto il suo ambito ed in tutta la sua potenzialità espansiva (Cass. 7651/2007; 10728/1994; 2881/1989; 6678/1987).

In conformità a quest’ultimo criterio la Corte di appello si è chiesta se sussisteva la situazione di confondibilità delle denominazioni sociali delle parti ipotizzata dall’art. 2564 cod. civ., che ha escluso, per il fatto che la società resistente ha per oggetto sociale "la produzione e la vendita di articoli di regalo in genere"; perchè la stessa opera pertanto in un settore ben differenziato da quello dei ricorrenti, e la sua attività si inserisce soprattutto nell’ambito degli oggetti di cancelleria;

mentre quella della s.r.l. ********* riguarda esclusivamente il settore dell’abbigliamento. E perchè infine era diverso anche l’ambito territoriale in cui le due società avevano sempre operato.

Ha quindi tratto ulteriore conferma della correttezza di detto apprezzamento dal fatto obbiettivo che nei venti e più anni di attività rispettivamente espletata nei due diversi settori non si fosse verificata alcuna confusione, nè fosse stato denunciato dai ricorrenti alcun episodio significativo al riguardo: perciò avvalendosi di quest’ultima argomentazione non già per aver dimenticato che andava eseguita la diagnosi previsionale richiesta dalla giurisprudenza in base al potenziale rischio di confusione tra le due denominazioni sociali, bensì esclusivamente per ribadire il risultato della relativa valutazione sfavorevole ai ricorrenti, che riceveva un significativo conforto anche "dall’incontestata e pacifica convivenza fra denominazioni e segni nel corso di un periodo così lungo". Per cui in tale articolata ed esaustiva motivazione non sono riscontrabili neppure le contraddizioni lamentate dai ricorrenti, che d’altra parte non hanno indicato alcun altro profilo asseritamente trascurato o insufficientemente o illogicamente valutato dal giudice del merito.

Ed allora essendo la decisione della Corte di appello fondata su due distinte ed autonome "rationes decidendi" – non confondibilità della denominazione sociale di ciascuna delle due società e convalidazione anche della denominazione della seconda di esse, per effetto di applicazione analogica dell’art. 48 – ognuna delle quali è sufficiente da sola a sorreggerla, deve trovare nel caso applicazione la regola del tutto consolidata nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 7077/2001), che il rigetto del motivo di ricorso attinente ad una di esse (nel caso, la prima) rende superfluo l’esame degli ulteriori motivi: non potendo la loro eventuale fondatezza portare alla cassazione della sentenza, che rimarrebbe ferma sulla base dell’argomento riconosciuto esatto.

Conclusivamente, la sentenza impugnata va interamente confermata;

mentre per quanto attiene alle spese processuali, ritiene il Collegio che i contrasti ed i diversi orientamenti susseguitisi sia in dottrina che nella giurisprudenza (di merito e di legittimità) sulle questioni trattate, ne giustifichino la compensazione tra le parti.

P.Q.M.

La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Redazione