Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 16/2/2009 n. 3678; Pres. Carbone V.

Redazione 16/02/09
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‘ SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso dinanzi al Tribunale – giudice del lavoro di Mondovì M.M. conveniva in giudizio l’I.N.P.S. esponendo che il convenuto Istituto aveva respinto la sua domanda di costituzione di rendita vitalizia L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, per il periodo dal 1 gennaio 1967 al 30 giugno 1969 in cui aveva svolto attività di coadiuvante all’impresa familiare diretta – coltivatrice della quale era titolare il padre M.G. e per la cui attività era stato omesso il versamento dei contributi previdenziali. Si costituiva in giudizio l’I.N.P.S. che impugnava integralmente la domanda attorea deducendone, in particolare, l’inammissibilità per difetto di prova dell’impossibilità di ottenere la costituzione della rendita da parte dell’originario datore di lavoro.

L’adito Tribunale, in accoglimento della cennata eccezione, dichiarava la domanda del M. inammissibile con sentenza che, impugnata dal soccombente, era confermata dalla Corte di appello di Torino.

Per quello che rileva in questa sede la Corte territoriale, richiamando la L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, riteneva la facoltà per il lavoratore di sostituirsi al datore di lavoro ai fini della costituzione della rendita subordinata all’impossibilità di ottenere la costituzione della rendita da parte del datore di lavoro, impossibilità di cui il lavoratore doveva fornire la prova; nè considerava tale principio contestabile sulla base della dedotta non ragionevolezza, con riferimento alle famiglie coltivatrici, di una regola comportante la necessità, per l’assicurato, di richiedere la costituzione della rendita a un datore di lavoro al quale era legato da stretti vincoli di parentela, o ai suoi eredi.

Per la cassazione di tale sentenza M.M. ha proposto ricorso affidato ad un unico complesso motivo.

L’I.N.P.S. ha resistito con controricorso.

A seguito di ordinanza n. 1566/2008 assunta all’udienza del 28 novembre 2007 dalla Sezione Lavoro di questa Corte il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite ex art. 374 c.p.c. (comma 2, ultimo alinea) e ex art. 376 c.p.c. (comma 3).

Il controricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente – denunciando "violazione e falsa applicazione della L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5" – sostiene che l’interpretazione di detta norma recepita dal giudice di merito è troppo rigoristica e restrittiva, come risulta maggiormente evidente quando la costituzione della rendita vitalizia è richiesta, sulla base delle aperture interpretative che si ricollegano alla sentenza dalla Corte costituzionale n. 18 del 1995, dal coadiuvante di impresa familiare, ipotesi rispetto alla quale sarebbe praticamente inesigibile la richiesta, ai fini in esame, di un intervento economico del padre o, in caso di suo decesso, dei coeredi; rileva, inoltre, la scarsa congruità di detto orientamento con il principio, parimenti affermato dalla giurisprudenza, della non necessità di partecipazione anche del datore di lavoro al giudizio promosso dal lavoratore contro l’I.N.P.S. per la costituzione della rendita vitalizia.

2 – Per la valutazione della questione sollevata con tali censure è stata richiesta – con la cennata ordinanza della Sezione Lavoro – l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite in considerazione "della particolare importanza della questione nell’ambito previdenziale sia per la sua natura che per la entità del relativo contenzioso, attesa la formulabilità, sulla base degli argomenti esposti, di un’ipotesi interpretativa contrastante con quella più volte enunciata dalla giurisprudenza della Corte anche di recente".

Con riferimento a tale rilievo occorre, pertanto, procedere prioritariamente ad un’analisi della summenzionata giurisprudenza per verificare se l’interpretazione della L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, data da questa Corte con costante ordinamento debba, o meno, venire confermata anche a seguito dei motivi alla base dell’ordinanza ex. art. 374 c.p.c.(comma 2, ult. alinea) e ex art. 376 c.p.c. (comma 3). Al riguardo la Corte:

a) con le sentenze nn. 2876/1980 e 2867/1987 ha statuito che, a norma della L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, è inammissibile la domanda proposta direttamente dal lavoratore nei confronti dell’I.N.P.S., in sostituzione del datore di lavoro, e intesa ad ottenere la costituzione di una rendita vitalizia pari alla pensione o alla quota di pensione adeguata ai contributi assicurativi omessi e non più versabili per intervenuta prescrizione, ove il lavoratore non abbia dato la prova della impossibilità di ottenere la rendita dallo stesso datore di lavoro;

b) con le sentenze nn. 9305/2004, 10517/2004 e 13371/2004 (e, successivamente all’ordinanza rimettente, nn. 17750/2008 e 17751/2008) ha deciso in senso motivatamente conforme sulla inammissibilità della domanda proposta dal lavoratore nei confronti dell’I.N.P.S., in sostituzione del datore di lavoro, ove il lavoratore non abbia dato la prova dell’impossibilità di ottenere la rendita dallo stesso datore di lavoro rilevando, in particolare con la sentenza n. 10057/2004, che la previsione della facoltà di sostituirsi al datore di lavoro e di chiedere direttamente all’ente previdenziale la costituzione della rendita vitalizia – come disciplina di favor per il lavoratore che abbia subito l’inadempienza del datore di lavoro nell’assolvimento dell’obbligo contributivo rappresenta l’eccezione rispetto alla regola che vuole che sia il datore di lavoro a costituire la rendita in favore del dipendente;

c) con la sentenza n. 23584/2004 ha confermato detto orientamento in relazione alla peculiare fattispecie collegata all’impossibilità della previa escussione del datore di lavoro a causa del suo decesso ed al lungo periodo di tempo trascorso a seguito della morte, statuendo che anche tale circostanza non valeva ad integrare il requisito della "prova della impossibilità" prescritto dalla L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5;

d) con le sentenze nn. 642/2005 e 8943/2005 ha esaminato il profilo della costituzionalità della normativa de qua osservando che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 18/1995 (con la quale aveva ritenuto l’applicabilità della L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, anche ai familiari collaboratori di imprese artigiane), aveva considerato che il congegno di regolarizzazione contributiva, estensibile a tutte le forme assicurative delle varie categorie di lavoratori che non hanno una posizione attiva nel determinismo contributivo, era riferito, in via principale, al datore di lavoro e, solo in via sostitutiva, al lavoratore, "rimarcando, anche nell’interpretazione del giudice delle leggi, che la possibilità di un trattamento sostitutivo di quello propriamente previdenziale (vanificato da omissioni contributive ormai irrimediabilmente consumate, a causa del maturare dei termini di prescrizione) era condizionata al preventivo esercizio dell’azione nei confronti del datore di lavoro, o comunque del soggetto che aveva omesso il versamento della contribuzione, onde ottenere da quest’ultimo la costituzione della rendita secondo le modalità della L. n. 1338 del 1962, ex art. 13";

e) con la sentenza n. 15304/2005 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, cit. in quanto tale norma non crea un trattamento deteriore per il lavoratore – e la asserita lesione delle garanzie costituzionali ex art. 3, 24 e 38 (comma 2) Cost. – ai fini dell’esercizio della facoltà di diretta costituzione della rendita vitalizia, ma corrisponde invece ad una norma di favore per il lavoratore, con limiti che trovano la loro giustificazione nella funzione sostitutoria di detta facoltà e nel necessario contemperamento del favor per il lavoratore con l’esigenza di contrastare il rischio di posizioni lavorative fittizie.

E’ da aggiungere – per completezza di disamina della giurisprudenza di legittimità in materia di danno da omissione contributiva con riferimento alla L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 4 e 5 – che queste Sezioni Unite, con sentenza n. 840/2005, hanno ribadito il rigore probatorio sulla effettiva esistenza di un rapporto di lavoro a espressa conferma del distinguo delineato dalla giurisprudenza tra "tutela risarcitoria spettante al lavoratore, facoltà di sostituirsi al datore nella costituzione della rendita, azione di reintegrazione specifica" e della necessità della prova scritta in ordine alla esistenza del rapporto di lavoro subordinato nel periodo di omissione contributiva, con la precisazione che, pur essendo consentito dimostrare con altri mezzi la durata del medesimo rapporto, la prova documentale dello svolgimento di attività lavorativa subordinata in un determinato arco temporale non può valere a dimostrare, ai fini della norma citata, l’esistenza dello stesso unico rapporto anche in un altro periodo (diverso rispetto a quello attestato dal dato documentale) in relazione al quale sia in questione l’esistenza di prestazioni caratterizzate da vincolo di subordinazione.

3 – Il riferimento al regime probatorio previsto dalla L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, cit. consente di valutare il contenuto degli interventi della Corte Costituzionale in materia anche perchè nelle decisioni della Consulta troverebbe conferma – secondo l’ordinanza rimettente – "la centralità della posizione soggettiva del lavoratore".

Pervero, proprio in relazione al regime probatorio, il Giudice delle leggi – prima con la sentenza interpretativa di rigetto n. 26/1984 e, poi, con la sentenza n. 568/1989(con la quale veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale della L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, commi 4 e 5, nel punto in cui non era consentito alle parti di provare con altri mezzi, anche orali, la durata del rapporto di lavoro e l’ammontare della retribuzione) – ha fatto espressamente "salva la necessità" che l’esistenza del rapporti di lavoro fosse fornita per iscritto, mentre il rigore della prova scritta non si sarebbe giustificata adeguatamente per gli altri fatti (come quelli dianzi indicati) concernenti semplici modalità del rapporto. In entrambe le decisioni veniva rimarcato dalla Corte Costituzionale che nell’interpretazione della norma – che "costituisce un istituto in sè il quale perderebbe la sua specificità e verrebbe ricondotto nel sistema generale, ove l’interprete facesse applicazione a suo riguardo delle regole comuni di questo, anzichè delle regole eccezionali proprie di quello" (Corte Cost. n. 26/1984 cit.) – si doveva essenzialmente tenere conto che "il necessario contemperamento degli interessi in gioco (e cioè quello del lavoratore al riconoscimento del diritto alla rendita vitalizia e quello dell’I.N.P.S. di limitarlo ai casi di esistenza certa e non fittizia del rapporto di lavoro, onde evitare le possibili frodi che, poi, in definitiva, si riversano a danno dello Stato) induce a ritenere che almeno l’esistenza del rapporto di lavoro non debba apparire solo verosimile ma risultare certa, onde la necessità dell’ammissione della sola prova documentale" (Corte Cost. n. 568/1989 cit.). Con la decisione n. 27/1984 la Consulta ha valutato proprio l’ipotesi prevista dalla L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, circa la possibilità per il lavoratore di surrogarsi al datore di lavoro inadempiente e, per respingere la denuncia di incostituzionalità della norma che per il giudice a quo avrebbe comportato inique conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore, si è espressamente riportata "alla giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione che non si presta alle censure di illegittimità costituzionale ben potendo il lavoratore ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento della somma necessaria alla costituzione della rendita vitalizia" (Corte Cost. n. 27/1984). La ratio di tale statuizione può ritrovarsi nella motivazione della coeva decisione n. 26/1984 cit., a mente della quale "il legislatore aveva inteso favorire i lavoratori aventi diritto di accessione della rendita, presumendone piuttosto limitato il numero, ed impedire, nello stesso tempo, che del beneficio potesse avvalersi anche la ben più ampia categoria dei non aventi diritto, anche perchè la limitazione in materia di disponibilità di prova (la quale deriva dalla non ingiustificata diffidenza di cui sopra), contenendo l’onere a carico dell’ente previdenziale, in definitiva tutela un patrimonio pubblico". Ulteriori interventi dei Giudici costituzionali si sono indirizzati verso un’estensione dell’ambito di applicabilità della norma anche al di fuori dell’area del lavoro subordinato, riconoscendo il rimedio in questione a tutte quelle categorie di lavoratori non abilitate al versamento diretto dei contributi, per essere sottoposte alla determinazione di altri soggetti, come nel caso dei familiari coadiuvanti o coadiutori di imprenditore artigiano (Corte Cost. nn. 18/1995 e 21/2001 entrambe interpretative di rigetto).

4/a – La disamina dei precedenti giurisprudenziali della Corte, estesa a quella delle decisioni in materia della Consulta, si è rivelata necessaria in quanto l’ordinanza della Sezione Lavoro si dipana in rilievi critici in merito all’interpretazione data dalla Corte sulla L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, asseritamente "più restrittiva" e ciò al fine di ottenerne una revisione in base al "piano sistematico della normativa".

In particolare, con l’ordinanza di rimessione si osserva che la L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, ha la indubbia finalità di offrire al lavoratore una maggiore tutela a fronte della lesione della sua posizione contributiva per cui all’espressione "il lavoratore quando non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita" potrebbe attribuirsi un valore descrittivo allusivo di valutazione demandata allo stesso lavoratore.

Osserva, inoltre, l’ordinanza che la giurisprudenza della Corte ha desunto dalla L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, l’esistenza di un diritto del lavoratore, leso da omissioni contributive, di chiedere al datore di lavoro la costituzione della rendita, sicchè si è già proceduto ad una interpretazione non meramente letterale della L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, ma al conseguimento di tale fine si è precipuamente valorizzata l’espressione che allude alla possibilità di ottenere la costituzione della rendita vitalizia da parte del datore di lavoro.

Si rileva, poi, nell’ordinanza rimettente che dalle recenti sentenze della Corte in materia viene evidenziata la necessità di riesaminare la congruità (e l’adeguatezza sul piano della valutazione di costituzionalità) della ratio della normativa atteso che: da un lato, se si ritenesse sufficiente una previa diffida del lavoratore al datore di lavoro, si verrebbe a condizionare l’esercizio del diritto del lavoratore ad una mera formalità e se, invece, si richiedesse la promozione di un’azione giudiziaria nei confronti del datore di lavoro, si renderebbe nella maggior parte dei casi "notevolmente più difficile e quasi sempre assai meno tempestiva" la possibilità per il lavoratore di conseguire un risultato utile; d’altro lato, la Corte costituzionale con le sentenze nn. 27/1984 e 568/1989 – in considerazione dell’esigenza che non fossero accampate posizioni assicurative fittizie – ha ritenuto che un contemperamento degli interessi in gioco, in relazione alla tutela offerto alla posizione del lavoratore dagli artt. 24 e 38 Cost., rendeva costituzionalmente illegittime talune restrizioni probatorie previste dalla L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, commi 4 e 5, per cui una interpretazione restrittiva della norma si sarebbe potuta considerare in contrasto con i principi enunciati dalle cennate sentenze, sia perchè poteva rendere eccessivamente difficile e meno tempestivo l’esercizio del diritto del lavoratore a ottenere la reintegrazione della sua posizione assicurativa, sia perchè la sentenza n. 568/1989 cit. aveva individuato nella necessità della prova scritta del solo rapporto di lavoro (e non anche della sua durata e dell’ammontare della retribuzione) l’ambito costituzionalmente legittimo dei limiti della concreta esercitabilità del diritto da parte del lavoratore.

Viene evidenziato, infine, che con la sentenza n. 7853/2003 la Corte – nel decisum sulla non prescrittibilita della facoltà del lavoratore a costituire la rendita vitalizia – ha implicitamente attribuito centrale rilievo alla posizione del diritto del lavoratore al riconoscimento della rendita vitalizia, configurando che l’istituto della costituzione della rendita vitalizia per i periodi lavorati ma indebitamente non coperti da contribuzione sarebbe assimilabile alle numerose ipotesi normative di riscatto da parte del lavoratore di periodi della vita potenzialmente equiparati ai fini previdenziali ai periodi lavorativi anche in assenza di rapporto di lavoro o di quiescenza del medesimo ovvero di periodi legittimamente non coperti da contribuzione.

4/b – In ordine ai rilievi siccome diffusamente esposti nell’ordinanza remittente queste Sezioni Unite rimarcano che l’interpretazione della norma secondo il senso precisato dalla costante giurisprudenza della Corte è già stata definita "chiarissima sotto il profilo della lettera della legge" (Cass. n. 9305/2004) e "convincente sotto il profilo sistematico" (Cass. nn. 642/2005 e 893/2005), per cui l’argomento sul "valore descrittivo allusivo" dell’espressione contenuta nella norma si appalesa tautologico e si pone su di un piano ben diverso da quello indicato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 526/1990 (e ribadito da Corte Cost. n. 18/1995) non trattandosi, nella specie, di "estensione" della norma ma di sostanziale "parziale abrogazione" della stessa da parte del giudice e non sussistendo, comunque, a conforto di siffatta operazione (sostanzialmente manipolativa) la giustificazione di un giudizio di meritevolezza del medesimo trattamento fondato sulla ratio legis indipendentemente dalla somiglianza al caso previsto.

La medesima considerazione vale per non condividere l’asserzione sulla valorizzazione dell’espressione concernente la possibilità di ottenere la costituzione della rendita vitalizia, posto che la ratio della norma è stata valutata positivamente sul piano della sua costituzionalità dalle summenzionate decisioni della Cassazione e della Corte Costituzionale e, specificamente, è stata individuata nel contemperamento tra – da una parte – il diritto del lavoratore al regolare versamento dei contributi previdenziali e, in mancanza di possibile versamento degli stessi o di costituzione della rendita vitalizia ex L. n. 1338 del 1962, alla diretta costituzione della rendita stessa e dall’altra parte – l’esigenza di contrastare il rischio di posizioni lavorative fraudolenti: contemperamento per cui il favor per il lavoratore viene mediato dalla L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, mediante il sancito carattere sostitutorio della facoltà accordata al lavoratore (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. Unite n. 10057/2004).

In merito alle asserite difficoltà che verrebbero a condizionare l’esercizio del diritto da parte del lavoratore si rileva, sul "piano pratico", che, se si tratta – come è ipotizzato nell’ordinanza remittente – di "mere formalità" (già definite "meri inconvenienti di fatto" da Cass. nn. 698/2005, 642/2005 e 9305/2004), non si vede quale siano le difficoltà per esperire tali "formalità"; se, poi, il riferimento si sposta alla preventiva instaurazione di un giudizio, non si riscontra una sostanziale – sotto il profilo della relativa difficoltà – differenza del ricorso a tale tipo di giudizio preventivo rispetto a quello da instaurare successivamente nei confronti dell’istituto previdenziale per conseguire il diritto alla rendita vitalizia difficoltà che non si possono neppure individuare nella "mancanza di tempestività" della definitiva tutela giudiziaria del cennato diritto se si considera – come è menzionato da Corte Cost. n. 26/1984 – che "le omissioni contributive vengono fatte risalire a periodi assai lontani nel tempo che, secondo la comune esperienza giudiziaria, possono attingere, ed anche oltrepassare, mezzo secolo". Quanto agli interventi della Corte Costituzionale che convaliderebbero la precipua tutela della posizione del lavoratore, vale ribadire che le decisioni della Consulta attengono alla definizione delle ragioni probatorie sulle modalità lavorative con espressa conferma della necessità della prova scritta in merito alla sussistenza del rapporto di lavoro (necessità probatoria quest’ultima intesa in senso rigoroso, come si è dianzi evidenziato, da Cass. Sez. Unite n. 840/2005) e che, comunque e prioritariamente, l’interesse del lavoratore al riconoscimento del diritto alla rendita vitalizia (c.d. favor per il lavoratore) deve essere valutato insieme a quello dell’Istituto previdenziale di limitare detto diritto ai casi di esistenza certa e non fittizia del rapporto di lavoro onde evitare possibili frodi nell’ambito del necessario contemperamento degli interessi sopra ricordati (specificamente Corte Cost. n. 568/1989 cit.). In relazione, inoltre, ai dubbi di costituzionalità che investirebbero la L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, nella questione in esame, si rimarca, sulla base della stessa decisione della Consulta relativa al cennato regime probatorio, che fin dalla sentenza n. 27 dell’8 febbraio 1984 il Giudice delle leggi aveva statuito che "la giurisprudenza della Corte di Cassazione non si presta alle censure di illegittimità costituzionale" e che, in ogni caso, non potevano sussistere gli asseriti dubbi di legittimità costituzionale ex. artt. 3 e 38 Cost. atteso che l’instaurazione dell’azione giudiziaria nei confronti del familiare – come paventato nell’ordinanza remittente – presupponeva pur sempre un inadempimento contributivo di quest’ultimo e l’esistenza del vincolo familiare non poteva configurare una riduzione di responsabilità per il soggetto obbligato e, di conseguenza, una diretta esposizione dell’ente previdenziale all’azione del lavoratore.

Non appare, infine pertinente o, comunque, rilevante il riferimento attribuito alla sentenza della Corte n. 3853/2003 in quanto la stessa attiene specificamente alla questione della "prescrizione della facoltà di costituire la rendita vitalizia L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, cit." intendendosi la cennata facoltà come "diritto potestativo sostanzialmente imprescrittibile" (anche se è da dubitare sulla cennata assimilazione se si utilizzano correttamente i parametri individuativi della categoria del "diritto potestativo" ), mentre non è certo condivisibile l’assimilabilità della peculiare fattispecie prevista dalla L. n. 1338 del 1962, art. 13, comma 5, cit. con la normativa in materia di "riscatti" (diversamente peculiare in relazione alle distinte ipotesi di riscatto differentemente e specificamente regolate ex lege) poichè – come già considerato – la cennata norma costituisce una norma che rappresenta un istituto peculiare a sè che perderebbe la sua "propria" specificità se venisse ricondotto nel sistema generale (cfr. Corte Cost. n. 26/1984 cit.) e, vale aggiungere, ancor più in altro sistema caratterizzato da specifica peculiarità (diversità funzionale che resta vieppiù confermata in base alla recente normativa in materia di riscatti contenuta nel D.Lgs. n. 564 del 1996, artt. 5, 6, 7 e 8).

5/a – Nel ribadire, pertanto, la non condivisibilità dei rilievi critici contenuti nell’ordinanza di rimessione, queste Sezioni Unite confermano la valutazione della ratio alla base dell’interpretazione della L. n. 1338 del 1962, art. 13, comma 5 cit. così come individuata e precisata dal costante indirizzo giurisprudenziale della Corte in merito al presupposto della facoltà surrogatoria prevista in favore del lavoratore che non possa ottenere direttamente (=volontariamente) dal datore di lavoro la costituzione della rendita vitalizia, anche se il riesame della questione (sicuramente di particolare importanza) induce a decisiva precisazione sulle conseguenze processuali. Al riguardo, alla stregua della cennata giurisprudenza, si rimarca che la tutela apprestata dalla L. n. 1338 del 1962, art. 13, a favore del lavoratore per il caso di inadempimento contributivo da parte del datore di lavoro – quando in conseguenza della prescrizione del "normale" versamento dei contributi previdenziali non possa operare di per sè il principio di automaticità delle prestazioni (che presuppone pur sempre la correlazione tra contributi e prestazioni) – tende non ad offrire un particolare modo di risarcimento del danno, bensì a realizzare il medesimo effetto dell’ormai non più possibile adempimento dell’obbligo contributivo; creandosi così uno strumento per rendere più incisiva, nell’ambito di una regolamentazione generale costituzionalmente garantita, la tutela del lavoratore, nei cui confronti il datore di lavoro è sostanzialmente un debitore di sicurezza e l’ente previdenziale il debitore – obbligato principale, allorquando il datore di lavoro non provveda a soddisfare il proprio debito annullando la finalità specifica dell’assicurazione obbligatoria.

Nell’evidenziare la complessità della questione connessa all’inadempimento contributivo per l’intreccio tra profilo risarcitorio e profilo restitutorio, si rileva che alla tutela risarcitoria e l’azione relativa si distingue dall’azione di reintegrazione specifica (Cass. Sez. Unite n. 260/2005) si aggiunge nell’ambito delle garanzie per il lavoratore la tutela prevista, appunto, dalla L. n. 1338 del 1962, art. 13, con riferimento all’ipotesi di omissione contributiva, che può considerarsi espressione di un principio immanente alla disciplina della responsabilità civile. In generale la potenzialità di un danno ingiusto, se da una parte non consente di per sè la quantificazione della riparazione (ex artt. 1223 e 1226 c.c.), ma semmai solo una pronuncia di condanna generica, d’altra parte si può attualizzare (e quindi radicare una pretesa immediatamente e pienamente azionabile dal danneggiato) allorchè quest’ultimo si attivi per rimuovere tale potenzialità di danno sì da rimanerne immune. Ove ciò comporti una diminuzione patrimoniale per il danneggiato, ha egli una pretesa restitutoria nei confronti del danneggiante, che è immediatamente azionabile, senza necessità di attendere quel momento in cui il danno si sarebbe in ipotesi determinato. Questo principio generale è calato poi nella fattispecie speciale disciplinata dalla L. n. 1338 del 1962, art. 13; disposizione questa che ha una doppia faccia perchè non si limita a fissare un criterio di calcolo del danno già determinatosi al fine di integrare il trattamento pensionistico del lavoratore ma appronta anche una specifica tutela preventiva per la rimozione ex ante della potenzialità di danno che incombe sul lavoratore nel periodo suddetto (periodo che va dalla prescrizione dell’obbligo del datore di versare i contributi previdenziali al momento di attivazione della prestazione previdenziale e di attualizzazione del danno). Il lavoratore – vale precisare ancora il contenuto della norma nella sua specifica previsione – (e prima ancora lo stesso datore di lavoro, che intenda eliminare la potenzialità del danno prima che si verifichi al fine di non subire l’eventuale aggravamento della sua responsabilità risarcitoria) può chiedere all’I.N.P.S. la costituzione di una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o alla quota di pensione adeguata all’assicurazione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi. Una volta versata la somma pari alla riserva matematica corrispondente alla rendita la posizione assicurativa del lavoratore è ricostituita e la potenzialità del danno è rimossa preventivamente. Però il lavoratore viene a subire la diminuzione patrimoniale pari alla somma versata (al fine suddetto) a causa di un atto illecito (l’inadempimento contributivo) del datore di lavoro; ciò radica una pretesa restitutoria che è azionabile (e alla quale il datore di lavoro può resistere contestando in ipotesi la sussistenza dei presupposti per la costituzione della rendita). Di conseguenza, della L. n. 1338 del 1962, art. 13, è possibile una triplice lettura secondo una progressione di tutela del lavoratore:

a) può ritenersi riconosciuta una mera facoltà del lavoratore (che si affianca ad analoga facoltà del datore di lavoro) di costituzione della rendita vitalizia presso l’I.N.P.S. con possibilità di successivo recupero della riserva matematica in sede di risarcimento del danno;

b) può alternativamente ritenersi che insorga, al momento del pagamento della riserva matematica, un credito restitutorio nei confronti dal datore di lavoro;

c) può, infine, costruirsi un vero e proprio diritto del lavoratore nei confronti del datore di lavoro alla costituzione della rendita vitalizia con conseguente possibilità di domandare in giudizio la condanna di quest’ultimo a versare la riserva matematica all’I.N.P.S. (Cass. n. 14680/1999). Nell’ipotesi sub c) – più garantistica per il lavoratore e che è quello che è stata accolta della giurisprudenza della Corte – la L. n. 1338 del 1962, art. 13, comma 5, vede come soggetto destinatario del potere di provvedere al pagamento della riserva matematica lo stesso lavoratore danneggiato dall’omissione contributiva che si sostituisce (=si surroga) al datore di lavoro inadempiente nei confronti dell’ente previdenziale.

Coesistono, pertanto, 1) un rapporto tra datore di lavoro inadempiente e lavoratore – rapporto all’interno del quale si pone la richiesta del secondo, nei confronti del primo, di provvedere al pagamento delle somme necessarie alla costituzione della rendita vitalizia e 2) un rapporto fra lavoratore – che provvede al pagamento delle somme richieste per la riserva matematica – e l’ente previdenziale – destinatario delle stesse e obbligato al pagamento della rendita vitalizia.

A tale rapporti, coesistenti ab initio, si aggiungono effettivamente 3) il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro per la costituzione della somma versata per la costituzione della rendita vitalizia e 4) il rapporto tra ente previdenziale e datore di lavoro in ordine alle eventuali conseguenze penali a carico di quest’ultimo per effetto dell’originario inadempimento contributivo in forza della L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 1, ("ferme restando le disposizioni penali").

La precisazione del contenuto della norma vale a confermare quanto ritenuto in dottrina che "dalla L. n. 1338 del 1962, art. 13, si evince che il lavoratore, fornendo la prova richiesta, ha diritto di ricostituire la sua posizione assicurativa per cui l’interesse del lavoratore alla realizzazione dei presupposti della tutela previdenziale è un interesse giuridicamente protetto ed azionabile nei confronti degli altri due soggetti – datore di lavoro ed ente previdenziale – che sono entrambi tenuti a cooperare attivamente alla soddisfazione dell’interesse stesso". 5/b – Sulla base di tale conclusione e con riferimento alla forma assolutamente peculiare attinente all’adempimento dell’obbligo contributivo con la previsione di una modalità (anch’essa peculiare) di surrogazione nel cennato adempimento del lavoratore al datore di lavoro (che resta, comunque, l’obbligato "naturale" del meccanismo L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, sia direttamente che indirettamente) vale precisare che i rapporti – dianzi dettagliatamente specificati – debbono essere considerati, non disaggregati tra loro, bensì nel loro insieme siccome ruotanti attorno all’istituto peculiare della costituzione della rendita vitalizia, per cui detti rapporti debbono essere valutati alla stregua di un rapporto comune a più parti o, comunque, di rapporti la cui definizione dell’uno presuppone ed è indispensabile a quella dell’altro: con la conseguenza di valutare la prospettiva di ordine processuale se il relativo giudizio debba rientrare nell’ambito dell’istituto del "litisconsorzio necessario" da inquadrarsi nella più ampia problematica dell’interesse ad agire.

Al riguardo è stato denunciato in dottrina l’eccezionale gravità delle conseguenze del mancato rispetto della regola del litisconsorzio necessario evidenziandosi l’esigenza di rinvenire criteri certi per l’applicazione dell’art. 102 c.p.c. che, per l’individuazione del suo ambito di applicazione, detta una norma c.d. tautologica, o "in bianco", nel sancire che "se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo".

Dalla medesima dottrina è stato osservato che sussiste convergenza di opinione anche sul versante della giurisprudenza nel ritenere che, a parte i casi espressamente previsti dalla legge, al processo debba partecipare pure il legittimato ordinario al quale il legittimato straordinario si sostituisce e, individuato il fondamento dell’istituto nell’unitarietà del rapporto sostanziale, la partecipazione al giudizio di tutti i soggetti facenti parte del cennato rapporto costituisce logica conseguenza dell’applicazione del criterio normale della legitimatio ad causam. Nel procedere alla disamina delle ulteriori distinte ipotesi determinate dalla deduzione in giudizio di un rapporto plurisoggettivo – rilevato, per completezza, che in tale disamina non vi è spazio per l’ulteriore ipotesi disposta dal legislatore propter opportunitatem in cui alla discrezionalità del legislatore non può estendersi quella dell’interprete specie a livello giudiziale (così nella presente decisione) – dalla giurisprudenza è stata affermato il principio a mente del quale il litisconsorzio necessario ricorre, oltre che per motivi processuali e nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggetiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe, anche per non privare la decisione dell’unitarietà connessa con l’esperimento dell’azione proposta, e ciò allorquando il decisum, indipendentemente dalla sua natura (di condanna, di accertamento o costitutiva), si riferisce a più soggetti interessati alla definizione di un unico rapporto devoluto in giudizio, nel quale il nesso tra i diversi soggetti e tra questi e l’oggetto comune costituisce un insieme unitario con conseguente immutabilità del rapporto medesimo e unitarietà della relativa decisione (cfr., ex plurimis, Cass. n. 3281/2006).

5/c – Con riferimento al cennato principio occorre ora valutare se tra le ipotesi di litisconsorzio necessarie rientra quella (di cui al presente giudizio) relativo all’azione instaurata dal lavoratore per ottenere dall’I.N.P.S. la costituzione della rendita vitalizia L. n. 1338 del 1962, art. 13, ex comma 5, ove per il versamento della relativa riserva matematica, resta sempre obbligato il datore di lavoro (direttamente responsabile – obbligato del versamento dei contributi previdenziali – prima – della costituzione della rendita vitalizia – poi -, e – ancora successivamente nel caso di persistente inadempienza – della riserva matematica "anticipata" dal lavoratore in sua surroga). Sotto il profilo processuale si rileva che la L. n. 1338 del 1962, art. 13, comma 5, non precisa se la pretesa del lavoratore nei confronti del datore di lavoro di chiedere all’I.N.P.S. la costituzione della rendita – certo prioritaria rispetto a quella avanzata nei confronti dell’Istituto – debba come formulata con ricorso ex art. 442 c.p.c. e segg. o altrimenti (con formula vaga la L. n. 1338 del 1962, art. 13 ha, infatti, statuito che "il lavoratore, quando non possa ottenere la costituzione detta rendita a norma del presente articolo, può egli stesso sostituirsi al datore di lavoro"), sicchè la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposta dal lavoratore nei confronti dell’I.N.P.S. senza prima avere compulsato giudizialmente il datore di lavoro non può essere fatta discendere direttamente da una norma specifica sanzionante l’inammissibilità. Per altro aspetto si rimarca che il peculiare procedimento previsto dalla L. n. 1338 del 1962, art. 13, non deve confondersi con (=essere assimilato a) quello avente ad oggetto esclusivamente la sussistenza, o meno, del rapporto di assicurazione obbligatoria – affermato dal lavoratore e negato dall’I.N.P.S. – in cui si è ritenuto che non vi sia necessità di integrare il contraddittorio nonostante il carattere trilaterale del rapporto assicurativo (così, originariamente, Cass. n. 12248/1991).

Questo anche per quanto concerne la differenza (indubbiamente esistente) tra le azioni previste dall’art. 2116 c.c., comma 2, – per il risarcimento del danno a carico del datore di lavoro per omissione (totale o parziale) dei contributi assicurativi che si ripercuote sulla posizione previdenziale del lavorare – e dalla L. n. 1338 del 1962, art. 13, cit. – per la costituzione (ipotesi questa ricorrente nel presente giudizio) presso l’I.N.P.S. di una rendita vitalizia mediante versamento della riserva matematica -: azioni che sono non già connesse od interdipendenti, bensì del tutto autonome e non confondibili, anche se si fondano entrambe sul presupposto comune della omissione contributiva da parte del datore di lavoro, con la conseguenza che ove il lavoratore agisca nei confronti del datore di lavoro deducendo il mancato versamento di contributi previdenziali e chiedendo esclusivamente la condanna del datore al pagamento di un importo pari alla riserva matematica necessaria per costituire la rendita vitalizia L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, l’azione esercitata è pur sempre quella di risarcimento danno ex art. 2116 c.c., comma 2 e, quindi, non occorre, rispetto a tale domanda, integrare il contraddittorio nei confronti dell’I.N.P.S.. Al contrario si evidenzia che l’integrazione si appalesa necessaria ove l’azione esercitata sia quella prevista dalla L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 4, cit. esclusivamente entro l’ambito sancito da tale norma; id est in un giudizio avente ad oggetto – come, appunto, per il presente giudizio – la richiesta di costituzione presso l’I.N.P.S. di una rendita vitalizia in cui sono contraddittori necessari l’istituto previdenziale e il datore di lavoro legittimati passivi nei distinti termini come dianzi specificamente precisati così, con giurisprudenza sostanzialmente conforme nel tempo, Cass. n. 12946/1999, Cass. n. 379/1989, Cass. 2488/1986 (secondo cui, con interpretazione più restrittiva, le azioni previste dalla L. n. 1338 del 1962, art. 13, debbono in ogni caso, cioè senza alcuna distinzione in ordine alla pretesa della rendita vitalizia, essere esperite necessariamente nei confronti dell’I.N.P.S. e del datore di lavoro inadempiente).

5/d – In relazione, inoltre, alla questione più generale concernente la c.d. "autonomia dal rapporto previdenziale dal rapporto di lavoro" in cui si pone il cennato problema particolare dell’azione ex art. 2116 c.c., comma 2. (che, peraltro si distingue rispetto all’azione L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, cit. nei termini testè precisati), la considerazione della recente dottrina – che tale azione, avendo come fondamento lo status previdenziale e come fatto costitutivo la violazione di un diritto riconosciuto dalla legge al titolare di detto status nei confronti del proprio datore di lavoro, dia luogo ad una controversia di natura previdenziale in senso tecnico – trova il suo presupposto fondamentale nella "lontana" sentenza delle Sezioni Unite del 24 aprile 1968 secondo la quale "nell’ambito della considerazione dell’obbligatorietà della tutela sociale del lavoratore e della correlativa ininfluenza della potestà dispositiva delle parti contraenti del rapporto di lavoro, la norma dell’art. 2116 c.c. che svincola il diritto del lavoratore dall’adempimento dell’obbligo del datore di lavoro di versare regolarmente i contributi dovuti agli istituti di assicurazione e di previdenza completa l’enunciazione della natura esclusivamente legale di tale diritto ed obbligo; di conseguenza, nella medesima considerazione sistematica deve essere riguardata la norma del capoverso di detto articolo, relativa alla responsabilità dell’imprenditore per il danno che fosse derivato al prestatore d’opera per il fatto che gli istituti di assicurazione e di previdenza, a causa dell’omessa o irregolare contribuzione, non fossero ritenuti a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute: responsabilità che, perciò, è correlativa alla violazione di un’obbligazione ex lege e, solo in quanto tale, rientra nell’ampia ed impropria qualificazione di responsabilità contrattuale,se per questa s’intende la responsabilità conseguente all’inadempimento di un’obbligazione comunque posta in contrasto con la responsabilità conseguente alla violazione di un diritto primario di un altro soggetto" (Cass. sez. unite n. 1250/1968).

5/d – A definitiva conferma che nel giudizio instaurato dall’odierna ricorrente sussiste litisconsorzio necessario (secondo quanto dianzi specificato sub "capo 5/b) nei confronti del datore di lavoro e dell’I.N.P.S. è da evidenziare che la sostituzione del lavoratore al datore di lavoro inadempiente per ottenere giudizialmente la rendita vitalizia configura ex lege una ipotesi di surroga, per cui ai sensi dell’art. 2900 c.c., comma 2, si configura nella specie la ipotesi di litisconsorzio necessario per la domanda giudiziale del creditore che agisca in surrogatoria: pure a questo punto conclusivo affiora la pecularietà della fattispecie – che, come si è constatato, caratterizza il procedimento L. n. 1338 del 1962, art. 13, ex comma 5, cit. – in cui il lavoratore è creditore in quanto titolare del diritto alla costituzione della rendita vitalizia, mentre l’I.N.P.S. e il datore di lavoro sono debitori-obbligati (rispettivamente in via diretta e indiretta) alla accennata costituzione. Conclusione questa che, sotto il profilo processuale, si riaggancia all’orientamento della Corte, relativo al profilo sostanziale, in considerazione:

a) dell’interesse del lavoratore ad ottenere la condanna dell’I.N.P.S. alla costituzione della rendita vitalizia e la contestuale condanna del datore di lavoro inadempiente al pagamento della riserva matematica;

b) dell’interesse dell’I.N.P.S. a limitare il riconoscimento della rendita vitalizia ai casi di esistenza certa e non fittizia di rapporti di lavoro frodi di certo più possibili in un giudizio in cui "sullo sfondo" sia parte meramente indicata una c.d. "testa di legno" e non venga convenuto ritualmente l’effettivo datore di lavoro interessato a che non sia riconosciuto un inesistente rapporto di lavoro con la rilevante conseguenza a suo carico inerente all’obbligo del pagamento della provvista della rendita vitalizia ed alle ulteriori sanzioni penali;

c) dell’interesse del datore di lavoro a non trovarsi esposto, nel caso di giudizio svoltosi unicamente tra lavoratore istituto previdenziale, agli effetti pregiudizievoli di un giudicato ai suoi danni a causa del riconoscimento di un inesistente rapporto di lavoro assai lontano nel tempo) senza aver potuto esperire alcuna attività difensiva per contrastare l’originaria azione giudiziale dell’asserito lavoratore.

Nella considerazione della posizione processuale alle parti garantite a seguito del legittimo riconoscimento del litisconsorzio necessario nei termini summenzionati trova conferma la giurisprudenza della Corte in merito all’aspetto sostanziale relativo al "necessario contemperamento degli interessi in gioco", essendo stato introdotto – vale definitivamente rimarcare – con la L. n. 1338 del 1962, art. 13, uno strumento per rendere più piena ed incisiva, nel quadro di una regolamentazione generale, la tutela del lavoratore nei cui confronti il datore di lavoro è un debitore di sicurezza.

6 – La cennata statuizione in sede di approfondimento della questione di particolare importanza sottoposta al giudizio delle Sezioni Unite consente, pertanto, di completare sotto il profilo processuale la lettura costituzionalmente orientata dalla giurisprudenza della Corte sotto il profilo sostanziale precisandola nei seguenti termini: "sussiste litisconsorzio necessario nei confronti del datore di lavoro e dell’I.N.P.S. nel caso in cui il lavoratore, sostituendosi al datore di lavorare agisca giudizialmente per ottenere la costituzione della rendita vitalizia L. n. 1338 del 1962, ex art. 13, comma 5, per la quale il datore di lavoro si sia sottratto al versamento all’I.N.P.S. della relativa riserva matematica e per il cui versamento esso datore di lavoro resta L. n. 1338 del 1962, art. 13, ex comma 5, cit. obbligato, ferme restando le sanzioni penali a suo carico L. n. 1338 del 1962, art. 13, ex comma 1 cit.".

Ciò a convalida che nel presente giudizio risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario non rilevata nè dal giudice di primo grado – che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio – e non osservate nemmeno da quelle di appello – che non ha preveduto a rimettere la causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c., comma 1 -, per cui resta viziato l’intero processo e si impone, in sede di giudizio di legittimità, l’annullamento di ufficio delle decisioni emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di primo grado a norma dell’art. 383 c.p.c., comma 3 (da ultimo, Cass. n. 8825/2007).

7 – In definitiva, il ricorso proposto da M.M. deve essere accolto entro i termini suindicati, per cui vanno cassate la sentenza impugnata e quella di primo grado; la causa deve, quindi, essere rimessa al Tribunale di Mondovì, in funzione di giudice del lavoro, che si uniformerà al suenunciato principio di diritto, disponendo l’integrazione del contraddittorio nei confronti della "impresa coltivatrice diretta di cui era titolare M.G." (così come indicato nella sentenza della Corte di appello di Torino). L’indubbia complessità della questione trattata induce a compensare per intero per giusti motivi le spese dei pregressi giudizi di merito e di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite civili, accoglie il – ricorso; cassa le sentenze impugnate; rimette la causa per l’integrazione del contraddittorio al Tribunale di Mondovì, in funzione di giudice del lavoro, competente per il giudizio di primo grado; compensa le spese dell’intero giudizio.

Redazione