Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 7/12/2007 n. 25668; Pres. Sciarelli, G., Est. Maiorano, F.A.

Redazione 07/12/07
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L’illegittimità del licenziamento comporta l’obbligo del datore di lavoro di ricollocarlo nel posto e nelle mansioni precedentemente occupate, o in mansioni equivalenti purché sempre nella stessa sede di lavoro. Questo principio può essere derogato nel caso di dimostrata impossibilità, per inesistenza di quel posto di lavoro ed insussistenza di posti comportanti l’espletamento delle ultime mansioni o di mansioni equivalenti, incombendo sul datore di lavoro l’onere di provare tali circostanze. Il diritto del lavoratore è quindi derogabile in caso di impossibilità di riassunzione nel medesimo posto di lavoro e per converso la soppressione della sede non può mai essere invocata dal datore di lavoro per non adempiere all’ordine di reintegra in una sede diversa.

(Omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso alla Corte d’Appello di Milano La Benetton Retail Italia Spa proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano, emessa anche nei confronti del Gruppo COIN Spa, con la quale era stata accolta la domanda di C.G. e dichiarata l’inefficacia del licenziamento del 28/2/2001, comunicato al domicilio eletto della lavoratrice il 18/5/2001 e condannata la società ricorrente a reintegrarla nel posto di lavoro ed a pagarle il risarcimento del danno pari all’importo mensile di Euro 1.894,41 dalla data del licenziamento fino alla reintegra, oltre accessori, nonchè alla regolarizzazione contributiva ed alla retribuzioni maturate dall’1/2/2001 al 17/5/2001, oltre accessori; condannava inoltre la C. alla restituzione della somma di Euro 12.109,25, oltre interessi e rigettava la domanda di reintegra nei confronti del Gruppo COIN. Gli appellati contrastavano il gravame e la C. proponeva anche appello incidentale, ma la Corte d’Appello confermava la decisione, sulla base delle seguenti considerazioni: il primo giudice non aveva valutato l’eccezione di decadenza proposta dall’appellante (perchè l’impugnazione del licenziamento era stata proposta nel corso del procedimento ex art. 700 c.p.c., all’udienza del 14/6/2001 nei confronti del procuratore speciale ex art. 420 e 183 c.p.c., privo di rappresentanza sostanziale) in quanto aveva "considerato unico il licenziamento adottato per iscritto con lettera 28/2/01; lo stesso era stato comunicato solo il 18/5/01, ma nel frattempo era stato impugnato dalla lavoratrice con lettera del 23/4/01 (v. doc. 15 fasc. C.) e con ricorso ex art. 700 c.p.c.. L’impugnazione, solo ribadita da C. all’udienza del 14/6/01, andava evidentemente riferita all’unico licenziamento, che di fatto aveva già comportato la estromissione dall’azienda e risultava dai documenti prodotti".

All’estromissione conseguiva l’obbligo della società di pagare le retribuzioni, avendo la lavoratrice manifestato la sua volontà di rientrare in azienda con lettera 5/3/01 del suo legale e non potendo avere effetti un provvedimento recettizio se non dalla data in cui lo stesso era stato ricevuto.

Il licenziamento collettivo adottato era illegittimo per varie violazioni della L. 23 luglio 1991, n. 223, che prevedeva una serie di adempimenti formali al fine di un rigoroso controllo preventivo da parte di OO.SS. e pubblici organismi.

Nella specie, l’azienda non aveva comunicato l’avvio della procedura di mobilità alla R.S.U. (L. 223 del 1991, art. 4, comma 2) di cui conosceva l’esistenza, avendo inviato alle stesse in data 3/1/01 la comunicazione relativa alla cessione d’azienda. Il brevissimo lasso di tempo intercorrente fra la cessione d’azienda e l’apertura della procedura di riduzione del personale non consentiva "la nomina di nuove RSA che valutassero da vicino i problemi dei lavoratori".

Inoltre, e questa era la violazione più grave, era mancata la comunicazione alle OO.SS. dei criteri adottati per individuare i lavoratori da licenziare. Il comma 9 della normativa in questione prevedeva lo specifico obbligo di comunicazione alla Commissione regionale per l’impiego ed alle OO.SS di categoria dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità con la specificazione delle modalità con cui erano stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1; l’indicazione dei criteri astratti non soddisfaceva l’obbligo di legge perchè non consentiva la valutazione comparativa fra i lavoratori, necessaria anche ai fini della difesa degli stessi (Cass. n. 15377/04; 5578/04; 5942/04). La ricorrente era stata già individuata, unitamente ad altre 12, nell’elenco allegato alla lettera di apertura della procedura 19/2/01 in applicazione dei criteri legali, dei quali si prevedeva l’integrazione "con quanto emergerà dall’esame congiunto". Nella lettera 1/3/01 al Centro per l’impiego erano stati individuati 12 lavoratori, e non 13, e nulla era detto sull’applicazione dei criteri in concreto, nè era stata menzionata la circostanza della adesione della lavoratrice alla mobilità.

Il modo di procedere della società aveva generato confusione per cui il giudice aveva rilevato l’incertezza del criterio adottato e quindi aveva ritenuto non corretta proceduta ex art. 4, comma 9, senza procedere all’esame della legittimità del consenso. L’inosservanza di ciascuna delle fasi della procedura di licenziamento collettivo, previste dai primi nove commi della L. n. 2123 del 1991, art. 4, incideva sullo stesso potere del datore di lavoro di ridurre il personale, in modo da causare l’inefficacia dei singoli licenziamenti (art. 5, 3 comma); il vizio poteva essere fatto valere da ciascun lavoratore interessato (Cass. 14968/00; SU 302/00).

Quanto alla pretesa impossibilità di reintegra per l’inesistenza deposto cui era assegnata la ricorrente, l’ordine del giudice poteva essere ottemperato con l’adibizione del lavoratore ad una posizione equivalente in un’altra unità produttiva.

Doveva infine escludersi la C. avesse rinunciato al lavoro che le era stato offerto, in quanto la proposta di nuova occupazione le era stata fatta all’udienza del 14/2/03 solo a fini transattivi e non in adempimento degli obblighi assunti dalla società con l’accordo sindacale del 23/2/03.

MOTIVI DELLA DECISIONE

E’ domandata ora la cassazione di detta pronuncia con sei motivi:

col primo si lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c., artt. 2334 e 1335 c.c., e L. n. 604 del 1966, artt. 2 e 6, e vizio di motivazione per avere il giudice confermato la statuizione di primo grado con l’argomentazione illogica e contraddittoria secondo cui il rapporto si è risolto in data 28/2/2001 (come risulta dal libretto di lavoro, buste paga e concessione della mobilità) in virtù di un provvedimento comunicato per iscritto solo in data 18/5/2001, per cui la società è stata condannata a pagare le retribuzioni dal 28 febbraio al 18 maggio 2001 "non essendo stato risolto il rapporto in mancanza di un provvedimento assunto per iscritto".

Questo punto della sentenza di primo grado è stato specificatamente censurato anche per omessa pronuncia, ma la Corte d’Appello ha superato tutte le eccezioni proposte con l’affermazione che "il primo giudice non ha valutato l’eccezione di decadenza perchè ha considerato unico il licenziamento adottato per iscritto con lettera del 28/2/01". L’affermazione è errata (perchè il Tribunale ha considerato come licenziamento soltanto quello irrogato il 18/5/01 tanto da condannare la società al pagamento delle retribuzioni dal febbraio a maggio) e contraddittoria perchè ha ritenuto che il licenziamento comunicato in data 18/5/01 era stato già impugnato "dalla lavoratrice con lettera 23/4/01" e con ricorso ex art. 700 c.p.c.; il licenziamento cioè sarebbe stato impugnato prima di essere comunicato. In realtà la stessa C. aveva ritenuto il licenziamento del 28/2/01 inesistente perchè mai comunicatole ed in tal senso si era espresso il Tribunale. La Corte milanese ha ritenuto che sia stato ritualmente impugnato un licenziamento che fino al 18/5/2001 non esisteva, o comunque era inefficace, trattandosi di una atto unilaterale recettizio che produce effetti solo dal momento in cui giunge e conoscenza della destinataria.

Col secondo motivo si lamenta violazione degli art. 1334 c.c. e 420 c.p.c., comma 2, L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 6, e vizio di motivazione, per avere ritenuto che l’impugnazione, soltanto "ribadita" all’udienza del 14/6/01, va riferita all’unico licenziamento del 28 febbraio comunicato il 18 maggio: trattandosi di atto unilaterale recettizio lo stesso è efficace solo al momento della recezione da parte del destinatario e quindi la volontà datoriale di recesso non è sufficiente ad estinguere il rapporto, ma deve giungere a conoscenza del destinatario; le due lettere del 13/4/2001 e 19/4/2001, indirizzate ad uno studio legale non costituivano manifestazione di volontà di licenziamento e non erano state in tal senso impugnate. Peraltro, nemmeno il ricorso ex art. 700 c.p.c., può essere considerato come impugnazione in quanto lo stesso è stato depositato il 16/5/2001, mentre il licenziamento è stato intimato il 18/5/2001. L’affermazione che l’impugnazione sia stata "ribadita" all’udienza del 14/6/2001 è illogica (perchè non si possono ribadire dichiarazioni che non sono mai state fatte) ed illegittima (perchè è stata rivolta ad un soggetto non abilitato a riceverla, come eccepito nell’atto di appello).

Col terzo motivo si lamenta violazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 2, e L. n. 300 del 1970, art. 19, e vizio di motivazione, per avere la Corte confermato la sentenza appellata con motivazione del tutto diversa: il primo giudice aveva dichiarato l’inefficacia del licenziamento perchè intimato quando la procedura di mobilità era abbondantemente conclusa e quindi fuori dal licenziamento collettivo; la Corte d’appello ha ritenuto illegittimo detto licenziamento collettivo per violazione di norme della L. 223 del 1991: afferma che il tempo intercorso fra la cessione d’azienda e l’apertura della procedura di riduzione del personale sarebbe stato così breve da non consentire la nomina di nuove RSA, ma non tiene conto del fatto che la cessione preannunciata alle OO.SS. in data 3/1/2001 è avvenuta in data 29/1/2001 ed è stata seguita da numerosi incontri, cui ha partecipato una folta schiera di lavoratori, mentre la procedura di mobilità è stata iniziata con la comunicazione del 19/2/2001; c’era quindi il tempo necessario per la nomina di nuove RSA ed immotivata è l’affermazione contraria della Corte meneghina.

Col quarto motivo si lamenta violazione della L. n. 223 del 1991, art. 2, commi 2 e 9, L. 264 del 1949, art. 21, come novellato dal D.Lgs. n. 297 del 2002, art. 6, comma 3, e vizio di motivazione, per avere il giudice affermato che non ci sarebbe stata la comunicazione alle OO.SS. delle modalità di applicazione dei criteri per individuare i lavoratori da licenziare. La decisione è errata perchè non corrisponde alla realtà fattuale ed al diritto: la L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, si riferisce non all’inizio della procedura, ma al termine della stessa e prevede la comunicazione alle associazioni di categoria "maggiormente rappresentative sul piano nazionale", mentre il L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 5, stabilisce i criteri per la individuazione dei lavoratori da licenziare. Le comunicazioni previste dalla legge sono state ritualmente fatte ed è stato raggiunto l’accordo con le OO.SS., per cui risulta pienamente rispettato il disposto di cui al nono comma. Il ricorrente quindi riporta tutti gli atti in questione e quindi precisa che la comunicazione era stata fetta per 12 dipendenti, in quanto il 13 era un lavoratore avviato obbligatoriamente al lavoro per cui era stata effettuata una comunicazione separata all’Ufficio Collocamento obbligatorio. La procedura è stata rigorosamente rispettata, con un puntuale esame congiunto che ha portato alla conclusione dell’accordo sindacale del 23/2/2001.

Col quinto motivo si lamenta violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 ed art. 2103 c.c. e vizio di motivazione, per avere il giudice ritenuto che la reintegrazione può essere effettuata anche in un posto di lavoro diverso, mentre la stessa deve avvenire nel medesimo posto di lavoro, con la conseguenza che quando il posto non c’è più non è consentito un provvedimento di reintegra nel posto che non esiste.

Col sesto motivo di lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2113 c.c. e vizio di motivazione per avere il giudice ritenuto invalida l’offerta di altro posto di lavoro, perchè sarebbe stata fatta a scopo transattivo e non in adempimento dell’accordo sindacale del 23/2/2003 (rectius 2001): l’offerta di un lavoro a tempo indeterminato fatto dalla cooperativa il Faro in data 13/2/2003 e depositata all’udienza del 14/2/2003 era fatta in adempimento dell’obbligo assunto in virtù dell’accordo sindacale 23/2/2001 e non era a fini transattivi, anche perchè quell’accordo era stato impugnato dalla ricorrente, senza proporre alcuna domanda diretta al suo adempimento, per cui la produzione dell’offerta non poteva che essere fatta sul presupposto che la C. rinunciasse ad ogni sua domanda nei confronti della società. Peraltro, la C. doveva restare in mobilità fino al 1/3/2003 e quindi alla data del 14/2/2003 non era ancora maturato alcun obbligo a carico della società. Tutto ciò è confermato dalla lettera della stessa C. del 10/3/2003 con la quale offre la sua disponibilità a riprendere servizio, perchè, fra l’altro, la società non le aveva procurato nuove "occasioni di lavoro" come da impegno assunto con l’accordo del 23/2/2001. Questa comunicazione è in contrasto con le domande proposte con il ricorso introduttivo del giudizio: con questo si lamenta la violazione delle norme di procedura per il licenziamento collettivo, con la lettera in questione di vuole far valere proprio gli accordi raggiunti nel corso di quella procedura, ritenuta valida e produttiva di effetti. La Corte quindi avrebbe dovuto pronunciare sulla richiesta di cessazione della materia del contendere, o per implicita rinuncia alla domanda. La lettera con la quale la C. ha chiesto l’adempimento degli accordi è successiva all’instaurazione del giudizio di primo grado e quindi poteva essere prodotta nel giudizio d’appello.

Resiste la C. con controricorso e ricorso incidentale condizionato, in caso di accoglimento di quello principale, per tutte le domande non esaminate perchè ritenute assorbite.

I due ricorsi avverso la medesima sentenza devono essere riuniti. Il ricorso principale è infondato, mentre l’incidentale condizionato resta assorbito.

I primi due motivi di ricorso vanno trattati congiuntamente essendo aspetti della medesima censura. Va innanzitutto rilevato che la Corte ha già precisato che "la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, in quanto è del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa; ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione; pertanto le censure concernenti vizi di motivazione devono indicare quali siano i vizi logici del ragionamento decisorio e non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (Cass. n. 12467/03).

Nella specie, il giudice d’appello supera l’eccezione di omessa pronuncia in ordine all’eccezione di decadenza con l’argomentazione che "il primo giudice non ha valutato l’eccezione di decadenza perchè ha considerato unico il licenziamento adottato per iscritto con lettera del 28/2/01", ma comunicato il in data 18/5/2001;

aggiunge però che nel frattempo il licenziamento "era stato impugnato dalla lavoratrice con lettera 23/4/01…e con ricorso ex art. 700 c.p.c.; infine, prosegue affermando che la società va condannata a pagare le retribuzioni dal 28 febbraio al 18 maggio 2001 "non essendo stato risolto il rapporto in mancanza di un provvedimento assunto per iscritto".

Il ragionamento non è lineare, ma chiara è la ragione della decisione in quanto le argomentazioni complessivamente adottate consentono di identificare il procedimento logico – giuridico posto a base della decisione: il giudice d’appello ha ritenuto che tutte le contestazioni della lavoratrice per essere reintegrata nel posto di lavoro costituiscano valida impugnazione del licenziamento. La ratio decidendo anche se non brilla per coerenza logica, non è validamente censurata dalla dotta, complessa ed articolata difesa del ricorrente:

non rileva infatti che il ricorso ex art. 700 c.p.c. sia stato predisposto il "15.5.01 e (sia) stato depositato il successivo 16/5/01; quando cioè alla C. non era noto (secondo la sua prospettazione e secondo la sentenza di primo grado) alcun licenziamento suscettibile di impugnazione", oppure che nello stesso non si faccia riferimento ad una impugnazione del licenziamento intimato il 18 maggio; ciò che conta infatti è che, con la notifica del ricorso col quale si chiede la immediata riammissione in servizio con provvedimento urgente, sia pervenuta a conoscenza del datore di lavoro, in data successiva alla intimazione formale del 18/5/01, la manifestazione di volontà della lavoratrice chiedere la riammissione in servizio e quindi di contestare sostanzialmente il licenziamento.

In presenza di una simile richiesta, le censure sulla logicità e coerenza della motivazione non sono decisive, perchè comunque secondo l’accertamento del giudice di merito il licenziamento è stato validamente impugnato; questi due motivi vanno disattesi.

In ordine al terzo motivo si rileva che dalla sentenza risulta che la società conosceva l’esistenza della RSU per avere comunicato alfa stessa la cessione d’azienda in data 3/1/01, ma poi non ha effettuato comunicazione di cui alla L. 223 del 1991, art. 4, comma 2, dell’avvio della procedura di mobilità. Questo punto non viene censurato dal ricorrente, che affronta invece l’altra parte della motivazione laddove si precisa che il breve lasso di tempo fra la cessione e l’apertura della procedura di riduzione del personale non consentiva la nomina di nuove RSA che valutassero da vicino i problemi dei lavoratori. Su questo punto la società si limita a dire che il tempo a disposizione era più che sufficiente, proponendo così un questione di fatto inammissibile in questa sede. Anche questo motivo va quindi disatteso.

In ordine al quarto si osserva che l’accertamento effettuato dal giudice di merito in ordine alla incompletezza della comunicazione con indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta non è superato dalle osservazioni contenute in ricorso. In proposito la Corte ha già precisato che "in tema di procedura di mobilità, la previsione, di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione preventiva con cui dà inizio alla procedura, deve dare una "puntuale indicazione" dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specificare nella detta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che la essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perchè lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, èi poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva, sostenendo che, sulla base del comunicato criterio di selezione, altri lavoratori – e non lui – avrebbero dovuto essere collocati in mobilità o licenziati" (Cass. n. 15377/04).

La Corte ha anche ribadito che "nella materia dei licenziamenti disciplinati dalla L. n. 223 del 1991, la sanzione dell’inefficacia del licenziamento, prevista dall’art. 5 della stessa legge per il caso di inosservanza delle procedure previste dall’art. 4 della stessa legge, ricorre anche nel caso di violazione della disposizione di cui al citato art. 4, comma 9, il quale dispone che il datore di lavoro dia comunicazione ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (Cass. n. 5942/04).

Il giudice di merito ha puntualmente applicato i principi di diritto elaborati da questa Corte ed ha effettuato il relativo accertamento di fatto, che è di sua specifica competenza e non è sindacabile in sede di legittimità’ se sorretto da motivazione esauriente ed immune da vizi logici. Anche il quarto motivo va quindi rigettato.

In ordine al quinto basta rilevare che l’illegittimità del licenziamento comporta l’obbligo del datore di lavoro di ricollocarlo nei posto e nelle mansioni precedentemente occupate, o a mansioni equivalenti purchè sempre nella stessa sede di lavoro; questo principio può essere derogato nel caso di dimostrata impossibilità, per inesistenza di quel posto èi lavoro ed insussistenza di posti comportanti l’espletamento delle ultime mansioni o di mansioni equivalenti, incombendo sul datore di lavoro l’onere di provare tali circostanze, il diritto del lavoratore è quindi derogabile in caso di impossibilità di riassunzione nel medesimo posto di lavoro e per converso la soppressione della sede non può mai essere invocata dal datore di lavoro per non adempiere all’ordine di reintegra in una sede diversa.

In ordine al sesto motivo si osserva che l’offerta di lavoro presso la cooperativa FARO è stata fatta dalla società "sul presupposto che la ricorrente rinunciasse ad ogni sua domanda nei suoi confronti", come si legge in ricorso; anche se la stessa sia stata eventualmente fatta in adempimento di precedenti obblighi contrattuali, come sostiene la società ricorrente, è difficile negare che la stessa offerta possa essere intesa come diretta "solo a fini transattivi", come ha affermato il giudice d’appello, proprio perchè la società pretendeva una rinuncia all’impugnazione del licenziamento ed alle relative pretese. In ogni caso non si può parlare di cessazione della materia del contendere, in ordine alla quale la Corte ha già chiarito che "la cessazione della materia del contendere, quale evento preclusivo della pronunzia giudiziale, può configurarsi solo quando, nel corso de processo, sopravvenga una situazione che elimini completamente ed in tutti i suoi aspetti la posizione di contrasto tra le parti, facendo in tal modo venir meno del tutto la necessità di una decisione sulla domanda quale originariamente proposta in giudizio ed escludendo così sotto ogni profilo l’interesse delle parti ad ottenere l’accertamento, positivo o negativo, del diritto, o di alcuno dei diritti inizialmente dedotti in causa (Cass, n. 12844/03). Nella specie, non si comprende come una offerta di nuovo lavoro presso una cooperativa fatta nel 2003, anche se la stessa sia qualificabile come adempimento di un obbligo assunto nel 2001, possa far venire meno l’interesse della lavoratrice a far valere la illegittimità del licenziamento che è stata poi dichiarata dal giudice.

Anche gli ultimi due motivi vanno quindi disattesi ed il ricorso rigettato, con conseguente assorbimento del ricorso incidentale condizionato.

Le spese in favore della C. vanno poste a carico del ricorrente principale e liquidate come in dispositivo, mentre vanno compensate fra le altre parti.

P.Q.M.

LA CORTE Riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale condizionato. Condanna il ricorrente principale al pagamento in favore della C. delle spese che liquida in Euro 50,00 oltre ad Euro 4000,00 per onorario, nonchè alle spese generali IVA e CPA. Compensa le spese fra Benetton e Coin.

Redazione